Non smette mai di sorprendere come certe situazioni dell'umano e vario quotidiano possiedano il potere malefico di ribaltare le certezze che ciascuno, nel proprio modo di essere, ritiene salde e immutabili come montagne. Più che certezze, in realtà si tratta di concetti in equilibrio conflittuale; quindi per loro natura sempre pronti ad incrociarsi, a collidere, a confondersi, a sovrapporsi. Evitando di chiamare in causa uno psicologo, in fondo questa variabilità dell'equilibrio degli opposti è molto facile da spiegare: è sufficiente appena considerare i personali convincimenti tra amore ed odio, tra fede religiosa ed ateismo, tra cultura ed ignoranza, e così via di seguito. È anche il caso del personalissimo concetto legato alle aspettative di vita, che possono essere valutate in modi profondamente differenti a seconda dell'età, dello stato di salute, ma soprattutto in funzione delle circostanze. Se si volesse porre la questione sul piano formale, dove ci guazzerebbe lo psicologo accuratamente evitato prima, occorrerebbe immaginare uno stesso campione umano in due diverse situazioni standard: stessa ora, sera inoltrata, e stesso periodo climatico, tarda estate. Nel primo scenario, il soggetto è seduto su una confortevole poltrona nel terrazzo di casa ed osserva rilassato i punti luminosi del cielo. Come tipico in questi casi, cerca di identificare qualche costellazione; ma gli scappano colorite imprecazioni perché gli manca sempre qualche stella. Colpa di nuvole passeggere, naturalmente. Nel secondo scenario, il soggetto è seduto su una altrettanto confortevole poltrona di un aereo di linea in fase di atterraggio, cercando di identificare, un po' meno rilassato, la pista tra uno sciame di punti luminosi in rapido avvicinamento. Alcuni sgusciano via, altri si trasformano in lampade abbaglianti disposte su due file che identificano il lungo nastro della pista di atterraggio. Anche in questa circostanza gli scappano delle colorite imprecazioni, ma sembra che siano sensibilmente differenti da quelle del primo scenario. Almeno nella maggioranza dei casi. Ugo Tosi Pallavicino si sorprese a riconsiderare le proprie aspettative di vita durante la fase terminale della discesa del jet AirOne, proprio mentre l'aereo sorvolava l'abitato irridendo i tetti delle case e le cime degli alberi; quando i puntini luminosi che sciamavano a perdita d'occhio prendevano vita fino a trasformarsi nei fari dei tanti veicoli che scorrevano ordinatamente lungo le strade della zona di Fiumicino. Il volo di linea AO 2498, partito dal Falcone Borsellino di Palermo, era in fase di atterraggio al Leonardo da Vinci di Roma. Il volo notturno è come costringere un bambino a fare la pipì centrando il vasino al buio pensò Ugo, tanto per scacciare le considerazioni sulle proprie aspettative di vita che, maledette loro e le situazioni come quella, cercano di sopraffare la ragione tentando di assumerne prepotentemente il controllo. Eppure non era certo un pavido; quanto meno per ereditarietà. La sua famiglia vantava origini normanne: alcuni suoi avi avevano combattuto nella battaglia di Hastings del 1066, scontro che aveva poi dato origine al regno normanno d'Inghilterra. Dalla Scozia ove si erano insediati, altri antenati erano discesi in Sicilia, diventando i signori dei feudi che aveva loro concesso Re Ruggero I, nominandoli suoi vassalli. Non meno titolata era la sua discendenza matrilineare, originata da un ramo cadetto del casato degli Aragona di Spagna. Oltre undici secoli di vicende storiche avevano lasciato consistenti tracce nei cromosomi e nella personalità di Ugo e si identificavano nel suo carattere leale, fiero, determinato. L'atavico desiderio di conquista con le armi si era trasformato nella sua insaziabile voglia di sapere, di scoprire attraverso lo studio e l'indagine sul campo. Di nordico, tuttavia, gli era rimasto il retaggio degli occhi verdi, profondi ed indagatori, ma dentro i quali era sempre possibile leggervi gli stati d'animo come in un libro aperto, ed i capelli castani perennemente ribelli. E tipici caratteri ispanici erano rintracciabili nell'aspetto fisico del tipo mediterraneo: altezza sopra la norma, muscolatura ben formata ma non eccessiva, andatura piuttosto dinoccolata. Attento alla cura della persona, amava una certa ricercatezza nell'abbigliamento, rigorosamente classico, e nella scelta degli accessori personali: orologi, cravatte, gemelli, pelletteria, accendini, stilografiche, sigari. Amava anche le auto sportive, assolutamente italiane, e le moto di grossa cilindrata, rigorosamente giapponesi, ed inglesi, in seconda battuta e solo per l'uso in coppia. Aveva anche una barca dove si rifugiava spesso e che era felice di condividere con gli amici. L'aveva acquistata per pochi soldi qualche anno prima in condizioni pietose, “vecchia nobildonna decaduta” l'aveva definita, ma pian piano l'aveva rimessa a nuovo, aveva rifatto gli impianti, ricostruito gli arredi, scelto nuove tappezzerie e sostituito i motori. Ora era uno sfavillante cabinato di cinquanta piedi, circa sedici metri, con lo scafo di un profondo blu navy, capace di ospitare oltre dieci persone in quattro cabine sottocoperta e nel salone. Senza considerare la cabina marinai a poppa, sotto il pozzetto, dove due persone senza problemi di claustrofobia potevano dormirci comodamente. Aveva fatto ricavare tre bagni sottocoperta, solarium sul tetto ed una zona cucina completa persino di lavastoviglie. In navigazione, un generatore diesel forniva la tensione alternata per gli elettrodomestici, il televisore al plasma, l'impianto audio e le luci di bordo. In omaggio alla sua terra, l'aveva battezzata Moresca e la teneva all'ormeggio in un marina privato vicino casa, sempre pronta a salpare. Grazie alle rendite delle proprietà di famiglia, Ugo aveva potuto permettersi gli studi di Archeologia del Medio Oriente Antico, sua ambizione fin dall'infanzia, da quando scavava grandi buche nel giardino della casa di campagna alla ricerca di “cose antiche”. Un giorno aveva pure trovato una moneta logora ed incrostata ed era corso urlante e felice tra le braccia di sua madre. Cronicamente affamato di cultura, aveva frequentato corsi specifici presso le Università del Cairo, di Gerusalemme, di Heidelberg e di Londra. Aveva concluso con la Cattolica di Roma dove si era laureato con una monumentale tesi sulle analogie tra le concezioni religiose di Egitto, Mesopotamia, mondo classico Greco-Romano, Giudaismo e Cristianesimo. Un lavoro impegnativo che aveva tenuto occupato lui ed il suo computer portatile per parecchi mesi, equamente suddivisi tra biblioteche, musei, metropoli sovraffollate, voli charter e polverosi raid in aree semi-desertiche abitate da animali rintanati tra vecchie pietre. Un lavoro coraggioso che, tradotto e pubblicato, aveva in qualche modo scosso l'establishment accademico causandogli non pochi consensi ma anche qualche duro attacco da parte di certa componente clericale del Vaticano. Si trattava di quei teologi ed esegeti, come li aveva definiti Ugo, che sono soliti bollare come dogma tutto quel che non riescono a spiegare; quella categoria intransigente di preti convinti non solo di essere privilegiati depositari dell'unica fede universale, ma soprattutto incontestabili interpreti delle scritture bibliche. Ora, a trentatré anni compiuti, gli si era presentata l'opportunità di capitalizzare nel migliore dei modi anni di studio e di lavoro. Era proprio questa la ragione del suo viaggio a Roma.
Superati i controlli e recuperato il suo voluminoso trolley, Ugo si avviò lentamente verso l'uscita, cercando con lo sguardo il volto noto tra la moltitudine di facce che gli scorrevano intorno. Individuò facilmente una figura familiare che non smetteva di agitare le braccia, discosta dal nastro che separava l'arrivo dei passeggeri dal pubblico in attesa. Come se non volesse mischiarsi con la folla anonima. Lui rispose con un ampio gesto di saluto quasi militare e le andò rapidamente incontro. Un immenso sorriso gli si stampò sulla faccia nel percorrere i passi che li separavano; l'avrebbe identificata immediatamente anche in mezzo a migliaia di persone. - Giada! È un piacere ogni volta più grande riabbracciarti. Sarei l'uomo più felice del mondo se potessi partire due o tre volte al giorno e trovarti ad aspettarmi! - - Certo, magari prima dei pasti, così non ti rimarrebbe niente sullo stomaco! Ugo, sei sempre il solito delizioso mascalzone! Oh, sono così felice di rivederti, specialmente se penso che potremo lavorare ancora insieme. - Un abbraccio tenero li unì per un istante che sembrò loro troppo breve, concludendosi con una carezza sulle guance, che si scambiarono guardandosi negli occhi: piccoli gesti che denunciavano quell'enorme e solido affetto che scaturisce da una stima profonda e da un antico rispetto reciproco.
Francesco Albanese Nicolosi
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