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Autore: Elide Ceragioli
Il falco e il falcone
Romanzo storico
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Il falco e il falcone
Giovanni lo staffiere si alzò poco prima dell'alba e cominciò a strigliare il cavallo. Un prezioso massaggio che scaldava i muscoli dell'animale e li preparava alla corsa. Il baio aveva percepito l'eccitazione e fremeva scalpitando. Indugiò a lungo a controllarne gli zoccoli: il maniscalco aveva fatto un buon lavoro, la ferratura era salda. Passò uno strato di grasso dove la pelle tirava su una vecchia cicatrice e l'animale voltò la testa grato per quelle cure.
Pierre gli si materializzò accanto come spuntato dal nulla e lo fece trasalire perché si comportava come una piccola volpe dal passo felpato che riusciva a renderlo sempre inspiegabilmente nervoso. Il ragazzo sembrava non accorgersi della sua antipatia e gli tese amichevolmente la mano: - Siamo alla fine, oggi sapremo da che parte sta Monsieur le Dieu - .
Giovanni lo guardò di sbieco e, senza neppure cercare di nascondere la propria riluttanza a concedergli la sua attenzione, continuò ad intrecciare la lunga criniera.
- Sta dalla nostra parte, se ne usciamo vivi - gli rispose a denti stretti.
- Parli bene tu, ma io sono francese e se mi prendono, mi impiccano - replicò impaziente l'altro, scansando con una spintarella l'ingombrante deretano del cavallo che nitrì infastidito dall'imprevisto contatto.
“È un vile – pensò Giovanni – incapace di vincere la paura e disposto a tutto pur di salvare la pelle”. Non riuscì a trovare parole per rassicurarlo, del resto non gli importava farlo, così si allontanò contento di aver finito il proprio lavoro e di potersene andare senza doversi giustificare.
- Abbevera Baltazar – gli ordinò – io vado dal padrone. Ho visto che c'è movimento nella tenda del Principe e fra poco ci cercheranno - .
Il cavallo alzò il muso e spinse il ragazzo di lato, ma quello, immerso com'era in foschi pensieri, neppure se ne accorse. Poco lontano alcuni soldati si stavano svegliando. Uno orinava sulle braci ancora fumiganti, un altro si legava i calzari, i più parlottavano a bassa voce e controllavano le spade e l'armatura leggera, ben diversa da quella dei cavalieri. Avevano dormito vicini, quasi tutti sulla terra nuda e umida, solo pochi fortunati erano riusciti ad avvolgersi in una sudicia coperta, troppo vecchia per poter servire ai cavalli. Alle prime luci di quel giorno che si annunciava col tepore di una precoce primavera, ognuno compiva i gesti usuali, ma con una frenesia maggiore, per quell'ansia anticipatoria che precede ogni battaglia. Avevano fretta di mettersi in cammino e di misurarsi con gli avversari, nonostante le spie li avessero valutati molto superiori di numero e forse anche più agguerriti. Ma a quel punto non aveva importanza, avrebbero combattuto con tutte le forze che avevano, fino alla morte, sicuramente inevitabile, perché nessuno poteva sottrarsi al destino segnato.
Giovanni passava in mezzo a loro, notando che alcuni si scansavano per fargli strada o forse per evitare il contatto con lui, ebreo, menagramo o che altro credessero. Eppure ne aveva curato molti, ne aveva guarito i corpi malconci per la malattia o per le ferite. Aveva tolto denti marci che gonfiavano le facce e ne distorcevano la fisionomia fino a renderla una maschera ridicola, applicato impiastri che calmavano la febbre, inciso ascessi, ma questo non era bastato a pareggiare il solco che c'era fra loro. Per quanto fosse dotto e la sua arte in certo modo indispensabile, sarebbe stato sempre un inferiore o, peggio, un reietto. Scosse il capo tentando, com'era sua abitudine, di mostrarsi indifferente e continuando a camminare.
L'esercito che lo attorniava era apparentemente immenso, oltre alle migliaia di cavalieri pesanti, lenti a causa delle indistruttibili armature, c'era un gran numero di uomini bardati con cotte di maglia leggere e poco elaborate, che avrebbero dovuto costituire la punta del cuneo destinata a infrangere lo schieramento avversario. Non aveva idea di quanti fossero gli arcieri, forse novemila, forse addirittura di più, ma non era facile contarli neppure dalla postazione privilegiata nella quale si trovava. Solo il tesoriere di corte, addetto al pagamento del soldo, avrebbe potuto rispondere alla sua curiosità, se avesse voluto. Sapeva però che non era l'entità delle forze a dettare le sorti della battaglia, quanto piuttosto il loro valore e la loro fedeltà al sovrano. Disgraziatamente aveva cominciato a dubitare di questa, ma non avrebbe potuto confidarlo a nessuno, perché aveva solo sensazioni e non elementi concreti.
Dopo la sconfitta al ponte di Ceprano, e l'avvicinarsi del grosso dell'esercito nemico, c'era stato anzi un raccogliersi delle truppe intorno al Principe Manfredi, come se i mercenari volessero e potessero davvero garantirgli la vittoria contro il rivale Carlo d'Angiò. Eppure, nonostante l'ordine col quale si stavano disponendo e la decisione con la quale imbracciavano le armi, gli pareva che avessero le tracce del tradimento scritte in fronte e avrebbe voluto avvertire il Principe di non fidarsi di loro.
Non poteva; nessuno gli avrebbe creduto. Continuò a camminare evitando, per quanto gli era possibile, gli escrementi degli uomini e delle bestie che avevano fatto del terreno, già molle per le recenti piogge, un pantano quasi impraticabile.
I chierici, riconoscibili anche da lontano per la tonsura, l'eccessiva pinguedine e il pallore della pelle, che contrastavano con il colore quasi bronzeo degli altri uomini, stavano preparando l'altare davanti alla tenda del sovrano, per la celebrazione della messa. Giovanni ovviamente si teneva lontano da quelle funzioni che non capiva e che considerava blasfeme. La sua abilità gli aveva meritato quel posto importante, ma sapeva che solo l'amicizia quasi fraterna con il suo padrone lo metteva in salvo dallo scherno e dalla cattiveria che i pregiudizi rispetto alla sua razza gli attiravano. Molti soldati erano saraceni, tenuti in quell'esercito solo dalla paga, e avevano una scarsa considerazione, se non vero e proprio odio, per tutto quello che era cristiano o, peggio ancora, ebreo. Per gli altri, cristiani, era un essere immondo da evitare se non era possibile, come avrebbero desiderato, schiacciare. Si affrettò spinto dal senso imperioso di inquietudine che gli aveva impedito di dormire per tutta la notte e raggiunse la tenda di Von Blum, il falconiere, rosso per la fatica.
Il suo padrone era già vestito o più probabilmente non si era neppure spogliato e stava spezzando piccoli pezzi di carne per il falcone. Rispose con un cenno al saluto deferente dello scudiero senza neppure voltarsi. Erano insieme da troppo tempo perché fossero necessarie molte parole fra loro e il maestro falconiere stava compiendo l'azione più delicata e complessa della sua arte. Il falcone prendeva la carne col becco adunco, terribile, ma solamente dopo aver scambiato uno sguardo d'intesa con l'uomo e muoveva la testa all'unisono con la sua mano, quasi fosse diventato un prolungamento di questa. Lo staffiere esitò a interrompere l'atmosfera di complicità che vedeva essersi creata fra l'animale e il suo padrone, ma poi si decise. Sapeva per esperienza che il principe avrebbe interpretato come un segno di malaugurio il ritardo di un suo cavaliere alla celebrazione della santa messa.
Entrambi avevano servito fedelmente Federico II, il grande imperatore dalla personalità complessa oltre misura e piena di contraddizioni. Per quanto amante dell'arte e delle scienze e di intelletto finissimo, tanto da essersi circondato dalle menti più eccelse dell'orbe terracqueo, allo stesso tempo era capace di comportarsi con terribile crudeltà e di passare a fil di spada quelli che erano stati suoi fedeli servitori per anni, solo per l'impulso irato di un momento. Il terribile signore era, però, un vincente e tutte le sue imprese riuscivano. Non così per i suoi successori; Riccardo Von Blum lo sapeva, ma nonostante ciò seguiva, con la stessa devota dedizione, il suo erede Manfredi in quella battaglia che gli era sembrata, fin dall'inizio, persa. Il giovane principe era stato il prediletto dell'imperatore, anche se per lungo tempo gli uomini di corte lo avevano considerato nient'altro che uno dei suoi tanti bastardi e senza autorità. Manfredi era il figlio che gli somigliava di più e allo stesso tempo era assolutamente l'opposto. Era stato dominato, fin da ragazzo, da sentimenti contrastanti. Ammirava il padre, consapevole che mai avrebbe potuto eguagliarne la grandezza e, allo stesso tempo, lo odiava e ne aveva diversi e gravi motivi.
Per anni sua madre Bianca Lancia era stata costretta a vivere reclusa nel castello dove era nato, a causa della gelosia ossessiva che Federico provava nei suoi confronti. La teneva lontana dalla corte forse anche per salvarla dall'invidia e dai pericoli che vi avrebbe potuto incontrare, ma questa scusante non bastava a farglielo perdonare. Egli stesso aveva subito quella dorata prigionia per lungo tempo e ne portava i segni nel fisico delicato e nel carattere taciturno e un po' ombroso che mascherava l'animo sensibile. Aveva potuto incontrare il padre solo quando era già un ragazzino e aveva dovuto inchinarsi davanti a lui con la deferenza del servo verso il suo padrone.
Manfredi non poteva onestamente dire di provare amore verso quell'uomo che oltretutto aveva designato come suo successore alla corona imperiale suo fratello Corrado, destinando a lui solo il principato di Taranto e pochi feudi minori. Aveva considerato una specie di insulto dover governare come luogotenente l'Italia e il Regno di Sicilia in attesa che il fratello, erede legittimo, nato dal matrimonio del padre con Isabella di Gerusalemme, si decidesse a lasciare la sicurezza della corte tedesca per esercitare il suo ruolo.
Federico II aveva contratto quel matrimonio politico e senza amore, forse, ma pur valido a tutti gli effetti ed in fondo, i suoi figli erano le vittime inconsapevoli delle manovre dei potenti. Si sentivano burattini e il burattinaio era esigente e crudele. Per questo inizialmente i due fratelli avevano stretto una specie di alleanza e il rapporto fra loro era stato corretto e preludio di una pacifica collaborazione.
Manfredi ci aveva creduto e sperato oltre ogni previsione, ma il destino aveva ben presto imposto i suoi disegni. Corrado IV si era illuso di poter sedare in breve i gravi conflitti politici che devastavano il Meridione d'Italia da decenni e reagì molto male quando si accorse di non averne la capacità. Si ammalò di una forma subdola di deperimento che nessun medico, per quanto sapiente, riuscì a contrastare.
Giovanni ne aveva sentito parlare più volte e, nella sua lunga esperienza, aveva perfino incontrato qualcuno divorato dal male oscuro che succhia l'anima dall'interno, trasformando il corpo in un involucro vuoto e secco, privo di umori.
Manfredi aveva convocato i migliori guaritori, tentando apparentemente tutti i rimedi conosciuti. Ma, nonostante tutte le cure, il fratellastro morì, lasciandogli la strada aperta per l'impero e l'enorme peso di una successione contrastata e malvoluta soprattutto da Papa Innocenzo IV, suo acerrimo nemico.
Le voci che Corrado fosse stato avvelenato si erano sparse fin da subito, dando corpo alle illazioni contro di lui iniziate con la morte improvvisa di Federico II.
Il sospetto si era insinuato prepotentemente, perché sembrava che Manfredi avesse gridato, ai piedi del padre morente, che niente e nessuno si sarebbe potuto frapporre fra lui e il trono imperiale. Era determinato almeno come la madre, Bianca dei conti Lancia, una donna intelligente e acuta, sinceramente innamorata di Federico. Di carattere dolcissimo, ma forte al punto di resistere alla prigionia del castello senza perdere nulla del proprio fascino, allo stesso tempo, era stata capace di tramare contro tutte le sue rivali pur di raggiungere i suoi scopi.
Manfredi era stato troppo a lungo un figlio bastardo, tenuto nell'ombra e nel dubbio circa la propria sorte per potersi affezionare veramente al padre, anche se questi lo aveva inviato a studiare a Parigi e a Bologna, per stimolarne l'intelletto e inculcargli il suo stesso amore per le scienze e per la poesia. C'era riuscito ed era diventato un mecenate al pari suo, ma la somiglianza fisica e l'affinità d'intenti non erano bastate a farlo smettere di considerare il grande Federico come un impedimento a soddisfare la sua sete di potere. Una sete cresciuta di anno in anno e che non poteva appagarsi dei titoli nobiliari che gli erano stati concessi come segni tangibili dell'affetto e della considerazione dell'imperatore. Manfredi era ambivalente, nascondeva quello che provava e, da buon cortigiano, non rivelava mai le sue vere intenzioni neppure agli amici più fidati. Aveva sposato per interesse politico la bella Beatrice di Savoia, già vedova del marchese di Saluzzo, ma neppure la nascita della loro bambina fu sufficiente a legarlo a lei. Era irrequieto, mai soddisfatto e sempre in cerca di qualcosa d'altro rispetto a quanto la sorte gli offriva. Peraltro era incapace di agire senza chiedere il parere a consiglieri inetti, che avevano paura di contraddirlo o che, peggio, erano disposti a tradirlo.
Von Blum e Giovanni ne avevano parlato spesso e convenivano che il giovane principe aveva un carattere instabile, debole e facilmente irritabile e questo spaventava enormemente lo staffiere che evitava, per quanto gli era possibile, di incontrarlo.
Manfredi aveva ereditato dal padre la passione per la falconeria e avrebbe voluto emularlo, con l'aiuto di Riccardo. Solo con il falconiere sentiva di potersi comportare senza timori e andava da lui in ogni momento libero. Durante le grandi partite di caccia, Giovanni lo aveva visto cavalcare allegro e spensierato, come fosse un bambino libero di dedicarsi ai suoi giochi preferiti. In quelle occasioni dimostrava energia e capacità tattiche e, soprattutto, era felice quando gli splendidi falconi ubbidivano docili ai suoi ordini.
Li aveva addestrati benissimo, seguendo, in un tardivo omaggio al padre, le regole scritte anni prima da Federico II in un trattato che consultava continuamente.
Lo staffiere tornò col pensiero al grande imperatore cui nessuno osava disobbedire nonostante esigesse una servitù totale, che annientava aspirazioni e desideri, in cambio della promessa vana, lo sapeva bene, di una memoria imperitura fra gli uomini. Eppure era stato impossibile resistere al suo fascino e non solo per lui, che lo aveva conosciuto quando era poco più di un ragazzo.
I ricordi fluirono nella sua mente e lo distrassero dall'attesa penosa, così vi si abbandonò.

Elide Ceragioli

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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