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Autore: Eleonora Zaupa
Erkalya - L'alba Delle Tenebre
Fantasy
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Erkalya - L'alba Delle Tenebre
Il cielo era color della pece. Le stelle brillavano con ardore, fameliche di attenzioni. In un luogo remoto, per i più irraggiungibile, una stanza era in semi oscurità. Le candele rimaste erano poche e la loro pallida luce non era sufficiente a illuminare l'intera sala. Sotto l'ampio cappuccio del suo mantello, un giovane di nome Galien sedeva con aria regale. I ricami dorati della sua veste risplendevano appena al flebile chiarore. Un uomo, piegato dai suoi anni, innanzi a lui porgeva un fugace inchino. Galien si sporse in avanti con la schiena, mostrando attenzione. La candela sulla scrivania gli illuminò gli occhi color del ghiaccio. Con una voce armonica, nonostante il timore che incuteva, chiese all'anziano il rapporto della missione.
- Non vi sono stati impedimenti - gli rispose, - anche se, all'inizio, non erano tutti pronti a fidarsi delle mie parole. - Aveva la erre moscia, la voce gracchiante di un uomo ottantenne quale era.
Con aria soddisfatta e ferma, Galien concesse: - Bene. - Poi continuò: - Altro da riportare? -
Garvat ebbe un tremito. - Be', la situazione necessitava di un ulteriore particolare: l'eliminazione dell'anima in seguito al corpo. -
In silenzio, Galien si alzò e con lui la tensione nella stanza. L'aria, immobile, rifletteva in ogni angolo polveroso la sua rabbia muta. La sua voce risuonò piatta e fredda. - Sai quanto tengo a lei e, nonostante ciò, hai ordinato la sua esecuzione. È esatto? -
- Sì, vedete... - si trovò a balbettare il vecchio con incertezza, - sa anche lei, mio signore, che potrebbe ostacolarla. Ho pensato di evitarle l'inconveniente. -
Galien sospirò per mantenere la calma. - Ti ho specificatamente ordinato che non deve morire. Lei è mia! - Incupì le ultime parole. - Chi è stato designato per compiere la missione? -
Il vecchio esitò. - Il figlio di Lorten, il Cavaliere del Drago. Ho detto che solo la sua mano è in grado di compiere questo vitale compito - balbettò ancora. Lo sentiva nelle viscere dello stomaco: quella era adesso una brutta situazione.
- Una buona notizia! Lui non avrà il coraggio di farlo. - Garvat sembrò rilassarsi, d'un tratto l'aria divenne più respirabile. Aggirò con calma la scrivania e si mise a un passo dal vecchio ricurvo che, in quell'istante, parve perdere altri dieci centimetri. Gli occhi di Galien erano gelidi, privi di ogni emozione. L'espressione che aveva sempre quando stava per compiere qualcosa di terribile. Con una mano si scostò il mantello, scoprendo un fisico asciutto e in forma, visibile anche da sopra il caftano. Estrasse una spada da cerimonia, l'elsa tempestata di indicoliti, e la puntò alla gola del vecchio. - Sei a conoscenza della sorte di chi non esegue gli ordini - sibilò.
L'anziano iniziò a tremare come faceva solo negli inverni più rigidi. Implorò perdono, pietà, ma sembrarono tutte parole inudite.
- Tuttavia hai fatto di peggio: hai cercato di eliminare una delle cose a cui tengo di più. - Galien lo guardò con disprezzo prima di abbassare l'arma e gettare un'occhiata alla porta di legno. Riportò lo sguardo su Garvat. - A dire il vero, non posso assassinarti. -
Il pover'uomo chiuse per un attimo gli occhi, entusiasta per non dover spirare.
- Non vestito così, per lo meno. Devo presidiare a un appuntamento importante, di certo sarebbe fuori luogo se mi presentassi insudiciato di sangue. Capirai, spero... - Galien aveva una voce persuasiva, ammaliante. Nonostante potesse modulare il timbro vocale, per lui quello rimaneva uno dei toni più semplici da simulare.
Il vecchio annuì in velocità, gli occhi brillanti.
Galien continuò, ammirando la spada: - Vorrei avere io il privilegio di trapassarti con la lama, ma ho una certa fretta; sarà un altro a occuparsene. -
La sequela dei lamenti dell'anziano Garvat fu pietosa. Ora era in ginocchio, tanto tremante da non reggersi nemmeno sulle gambe.
Galien uscì lasciando volteggiare il mantello dietro di sé. Un ghigno che non poté scorgere nessuno gli si disegnò sul volto.
In quell'attimo di solitudine il vecchio si alzò e brancolò fino a raggiungere la porta. Un barlume di speranza balenò in lui, ma nel momento in cui la maniglia si piegò, questa morì. Ad aprirla fu un uomo di bell'aspetto che brandiva una spada con l'elsa nera e oro. Veniva chiamato Novak, “Raffica”, già da molti anni. Quell'arma non aveva nulla a che vedere con quella cerimoniale di Galien; questa aveva un aspetto brutale, ricordava la morte. Era scheggiata, il filo tremolante dalle ammaccature recenti.
Garvat barcollò all'indietro fino a inciampare e cadere a terra. Novak si diresse verso di lui, sembrava non aspettare altro. Si stava divertendo come fosse il suo passatempo prediletto, quello di uccidere.
Caricò il colpo e affondò la lama.




1
Risveglio





Stava correndo, ma non sapeva da quanto. Sentiva solo il pressante bisogno di distanziarsi da quell'incubo. Sotto i suoi piedi vi era erba bagnata: non doveva aver smesso di piovere da molto.
I suoi primi ricordi risalivano a poco prima.

[Prima]

La ragazza si svegliò al centro di una larga strada polverosa color della sabbia. Annusò odore di terra, bruciato, sangue e morte. Le diede il voltastomaco. Come se avesse intrapreso una rissa, o come se fosse stata vittima di un pestaggio, le doleva il corpo. Qualche ematoma e ferita non mancavano.
Si mise in piedi a fatica, e rimase sconvolta dalla visione che le si presentò: le case, in gran parte, erano in macerie. Alcune ancora lambite dalle fiamme che continuavano a essere alimentate dalle travi tra le pietre cinerine. Tuttavia, non era quella la cosa più terribile: nei corpi degli abitanti non vi rimaneva più fiato. Il loro sangue imbrattava la terra. Gli arti, mutilati, giacevano incomposti e privi di ordine.
Non era ciò che sperava di vedere, soprattutto dal momento in cui si rese conto che non era in grado di ricordare come fosse arrivata lì, cos'era successo, chi era lei.

Udì il lieve rumore di passi leggeri tra il vento, svelti, ma non vedeva nessuno. Il suo istinto la fece scuotere e si diresse verso la prima casa abbastanza stabile. Scavalcò le macerie che ostruivano l'entrata e richiuse dietro di sé la porta imbrattata di rosso. Si appoggiò con la schiena a essa, scivolò a terra e si prese un attimo per capire ciò che poteva. Si guardò le mani, la pelle candida; erano sporche di terra e sangue, qualche callo indicava che non era estranea ai lavori. Era una serva, o una domestica? Forse era abituata a usare la spada? Ma chi, lei? Una donna? Per il momento sapeva solo che non era un reale.
Controllò le ferite. Una le solcava il braccio destro, un'altra il fianco sinistro. Sotto la maglia scoprì un altro orrendo taglio. Non aveva idea di come curarlo, ma forse in quella casa avrebbe trovato qualcosa che poteva servirle. E infatti in un'altra stanza scovò un secchio d'acqua e se ne servì per pulire la ferita dalla polvere. In un armadio vi erano delle bende che applicò sulle ferite.
Diede una rapida occhiata ai vestiti che indossava. Brache scure e una maglia piuttosto sobria. In vita portava una semplice cintura di cuoio e da un fianco pendeva un coltello racchiuso in un fodero. L'impugnatura era piegata su se stessa ed era interamente formata dallo stesso metallo. Si trattava di un chiodo ribattuto e forgiato come coltello; il tipico strumento per tagliare erbe e lacci, di lunghezza misurava poco più di una mano. Di fianco a esso pendeva un sacchetto di stoffa. Abbassò lo sguardo e vide un paio di stivali in pelle blu scura che le arrivavano poco sotto le ginocchia. Sentiva, in qualche modo, che quei vestiti non erano i suoi. Era come essere un pesce nel nido di una rondine. Uscì all'esterno, decisa ad andarsene: quello non era il suo posto. Notando la situazione del villaggio, e la sua, capì di aver combattuto contro chi aveva compiuto quel gesto disumano, e di essere sopravvissuta. Non sapeva per grazia di quale Dio respirasse ancora.
E non sapeva se fosse un bene.
Mise una mano sul viso cercando di ricordare qualcosa. Senza guardare dove metteva i piedi, sbatté su un corpo. Era quello di una donna stesa a faccia in giù. Assieme a lei giaceva la sua collana. Un medaglione con al centro una pietra rossa come il sangue.
Appena la vide, per istinto, portò la mano al piccolo sacchetto appeso alla cintura e ne estrasse una pietra rossa grande come il suo palmo; ricordò qualcosa.

Due ragazzi. Un prato sconfinato. Il ricordo era confuso, non riconosceva i volti dei giovani ma lei aveva le orecchie a punta come quelle di un elfo, eppure non lo era.
- Guarda! - esclamò con voce squillante e allegra.
- Che cosa? - le rispose il ragazzo voltandosi.
Lei scosse la mano. Impugnava una roccia di color rosso vivo con una forma tondeggiante.
Bastò un solo sguardo di lui per renderlo serio. - Ma sei scema? - sputò tra i denti. - Avevamo deciso: quella sarebbe dovuta restare là! -
- Sentivo che avremmo dovuto portarla con noi. -
La roccia aveva delle incisioni: due linee oblique a formare un triangolo aperto, e una terza al centro che saliva verso l'altro.
- Loro sanno dove si trova, e la seguiranno. - Il ragazzo spostò il peso da un piede all'altro; era nervoso.
- Dobbiamo raggrupparle tutte, però - spiegò lei, come se fosse una scusa sufficiente.
- Ormai saranno già qui. - Lui si guardò intorno, ansioso: - Li abbiamo già affrontati e ci siamo salvati per puro caso. Ricordi? Questa volta non ce la faremo; gettala! -
- No! -
Le afferrò il polso e lei fu costretta a lasciare la presa. La roccia cadde a terra con un tonfo lieve.
Le mise le mani sulle spalle: - Lo sai che non possiamo portarla con noi: loro sanno dove si trova, potrebbero essere già qui. Andiamocene. -
Aveva ragione e lei lo sapeva. Annuì e iniziarono a correre per mettere più distanza possibile tra loro e quel sasso che sembrava avere un significato importante. La camminata si tramutò in fuga.
Il giovane correva senza rivolgerle un solo sguardo.
Lei socchiuse le labbra, voleva scusarsi, dirgli che aveva compreso lo sbaglio. Avrebbe voluto dirgli che si sarebbe impegnata con tutta se stessa nella missione quando un'ombra grande, nera e minacciosa, si avventò su di lui atterrandolo al suolo. Era scesa dal cielo.
La ragazza s'immobilizzò, sopra al corpo del suo amico c'era uno di loro, quei mostri neri come la morte che evocavano la paura più viscerale.
Qualcosa la colpì alla nuca prima che potesse urlare dal terrore. Mentre perdeva i sensi, si sentì trascinare da quelle bestie. Le scuse ancora sulle labbra, e lui che non le avrebbe mai potute udire.
Fu tutto nero.

Era quasi uscita da quel posto di morte quando oltrepassò un cartello mal messo, ricoperto di muffa e imbrattato di sangue. Nel legno marcio era incisa una parola: “Aldfoward”. Non lo vide nemmeno.
Non capiva perché si fosse risvegliata lì. Quali atrocità poteva aver compiuto quella gente per meritare un simile destino? Domande sparse nacquero nella sua mente, alle quali non poté dare una risposta.

Il tempo sembrava prendersi gioco di lei, davvero non era in grado di contare i minuti. Pochi attimi, per lei, potevano essere un'ora, e un'ora potevano essere pochi attimi. Il dolore degli ematomi e delle ferite sembrava attenuarsi e poté, almeno in quel frangente, tirare un sospiro di sollievo.
Domande. Soltanto domande alle quali una risposta non era neppure certa. In quel luogo, dove regnava il dubbio, era come vagare nel buio cercando una luce che, forse, neppure esisteva.
Stanca anche di camminare, si lasciò cadere sull'erba. Il cielo era solcato da nuvoloni gravidi che preannunciavano la fine... o un inizio?
Riprese fiato e forze prima di guardarsi intorno. Ovunque guardasse non vedeva altro che uno sconfinato prato verde, se non fosse per la chioma di un albero che emergeva all'orizzonte, staccando così da quella monotonia.
Osservò di nuovo il cielo. Al tramonto non sembrava mancare molto e ancora non pioveva. Recuperò le forze e si diresse verso l'arbusto solitario.

Il nero del cielo era inesorabile: non una stella, non una luna, era tutto immerso nell'oscurità; si sentiva sola. Guardò nella direzione di quel villaggio maledetto ma non ve n'era traccia, intravedeva appena la linea dell'orizzonte. Aveva la nausea, si allontanò un po' e vomitò. Le sue gambe erano molli, le girava la testa e iniziò a piangere, rannicchiata ai piedi dell'albero. Stava scaricando l'adrenalina che quel terribile giorno le aveva fatto compagnia. Senza accorgersi, scivolò nel sonno. L'orrore vissuto si trasformò in un incubo che la tormentò per l'intera notte. Vedeva persone che correvano e che urlavano, inseguite e poi brutalmente scomposte da quegli esseri neri della sua visione. Lei era lì, assisteva a tutto ma nessuno la guardava, come se fosse solo un fantasma.

Doveva essere presto perché il sole stava sorgendo. Rimase a terra ancora una decina di minuti ad assaporare il sole che le baciava timidamente la pelle. I capelli poggiavano sull'erba. Erano arruffati, ma lunghi e lisci, superavano almeno il seno. Erano castani e viravano al rosso. Con una nota di stupore, a mano a mano che l'intensità della luce dell'astro nascente aumentava, notò sempre più dei riflessi azzurri. Anzi, guardando meglio, alcuni fili dei capelli erano realmente trasparenti, sempre rossicci, ma con sfumature azzurre. Incredibile! Anche se, a dire il vero, non sapeva quale fosse la normalità.
Guardò l'albero, non doveva essere più alto di quattro metri. Abbassò gli occhi e vide che a un ramo era appeso un filo di pelle nera con un ciondolo lungo circa un dito. Si alzò per vedere da vicino e notò come il dolore delle ferite si fosse dileguato; quella dormita, seppur tragica, era stata rigenerante.
Prese tra le mani il ciondolo grande poco meno della sua mano, rappresentava una spada molto particolare, molto strana. La guardia era formata da ali imponenti, nere e lucide, se non fosse stato per quelle, avrebbe potuto essere scambiata per una lancia. Erano finemente lavorate, si vedevano le venature nelle ali. Si domandò quanti anni di pratica alle spalle aveva collezionato l'artigiano che le aveva realizzate. L'impugnatura era formata da sfere tonde e lucenti, eccetto l'ultima. Infatti, il pomolo era un'ultima sfera color rosso vivo, quasi pulsante, ornata da un abbellimento in oro che si arrampicava sinuosamente su di essa. La lama sembrava essere realizzata in diamante cristallino: un minerale raro e resistente. Era molto ricercato soprattutto per la creazione di armi.
Quella lama così particolare sembrava appena trasparente e se rivolta al sole scagliava piccoli lampi di luce. Per completare l'opera, erano stati intagliati dei fori ben studiati. Era pesante, per la sua piccola dimensione.
Vide che appeso poco più in là, alla sua altezza, pendeva anche un tascapane e una veste nera. Si avvicinò curiosa, pensando che il giorno precedente non c'erano... o forse non li aveva visti. Afferrò la stoffa scura e l'osservò bene. Era un lungo mantello di lana cotta con un ampio cappuccio. Quando prese il tascapane si accorse che aveva un certo peso. Estrasse del pane nero, carne secca e una borraccia di metallo rivestito con del cuoio scuro. Aveva sicuramente visto giorni migliori, date le ammaccature e l'usura nel rivestimento. Si guardò intorno, come se si stesse accingendo a rubare. Aprì il tappo di sughero e bevve un solo sorso dopo aver constatato che conteneva dell'acqua. La richiuse in fretta e si accertò ancora una volta di non essere stata colta in flagrante.
Ripose la borraccia nel tascapane, chiedendosi chi si fosse fermato per la notte e perché non l'avesse svegliata. Se così fosse stato, quella persona sarebbe tornata? Si domandò cosa avrebbe dovuto fare, a quel punto. Aspettare qualcuno che, forse, non sarebbe mai arrivato?
Non voleva affatto scegliere, ma dopo un'infinità di passi attorno all'albero, decise: sarebbe rimasta per un altro giorno all'ombra di quell'amico verde. Occupò il tempo cercando delle risposte a domande che non avevano né capo né coda. Si guardò le mani callose e si domandò se fosse una serva o una contadina. Magari una prigioniera? Forse era una criminale fuggita alle guardie. Prese tra le mani il coltello, non aveva l'aspetto di una cosa che si usava in battaglia, ma più un utensile per lavori quotidiani.

Il tempo da trascorrere era tanto e inevitabilmente si trovò a fantasticare sul proprietario di quel tascapane. Lo immaginò alto e bello, giovane, con capelli biondi e occhi verdi, spalle larghe e un fisico da guerriero. Chiuse gli occhi e lo immaginò avvicinarsi sulla schiena di un imponente frisone, le porgeva una mano e le diceva: “Mi chiamo Druwald. Sono qui per salvarti, penserò io a te”. Sfoggiava un sorriso d'incanto e la sua aura emanava protezione.

In lei sentiva un vuoto e una solitudine deprimente, che la faceva quasi soffocare. Era come se le mancasse qualcos'altro, oltre alla memoria. Qualcosa che le dicesse chi era, qualcosa che avrebbe potuto usare per aggrapparsi al suo passato, come a comunicarle che lei esisteva anche prima di quando si era alzata nella città rasa al suolo. Neppure il suo stesso corpo era sufficiente per colmare quello squarcio che si sentiva dentro.
Vide il sole marciare pigro, adesso era sullo zenit. Addentò qualche pezzo di carne secca. Alzò le spalle. “Io ho fame, se Druwald ne vuole, dovrà sbrigarsi ad arrivare”, si disse. Era consapevole di stare aspettando qualcuno che probabilmente nemmeno esisteva.
Scacciò le lacrime, non era più certa di nulla, forse avrebbe dovuto alzarsi e andarsene. Sperava davvero, con tutta se stessa, che passasse qualcuno, qualsiasi persona. Mercanti, schiavisti, banditi... era disposta a unirsi anche a loro, pur di non essere più da sola.
No! Qualcuno sarebbe dovuto arrivare, non sarebbe stata sola, sarebbe arrivata una brava persona, sarebbe arrivato qualcuno come il Druwald che immaginava.

Il sole, in procinto di morire, aveva diminuito le distanze con la lunga linea verde dell'orizzonte. La notte era ormai prossima e la intimoriva. Il silenzio era straziante, la calma dimorava.
Si addormentò solo quando fu notte, e solo quando le stelle brillavano.

Eleonora Zaupa

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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