Oggi sposi. Arrivò il 28 ottobre 2017, giorno delle nozze di Elena e Riccardo. In piedi, di fronte al guardaroba, Elena era indecisa. Pochi capi riuscivano ancora a vestire il suo corpo, appesantito dall'età e dalla gola. Ne provò un paio. - Forse questo, può andare. Mi chiudi la cerniera per favore? - Riccardo era già pronto, indeciso solo sulla cravatta. - Come sei bella! - Elena si guardò. L'abbronzatura resisteva per dare risalto ai suoi colori e al verde degli occhi, l'abito, due toni di grigio, era sobrio ed elegante, un po' di trucco, un po' di tacco, bella forse era esagerato, però gradevole. Riccardo la prese per mano e la portò vicino alla finestra, nello stesso modo in cui le aveva detto di essersi innamorato di lei. Le accarezzò i capelli, le sistemò i boccoli. Cosa avrà voluto dirle, sedici anni dopo? Iniziò il lungo preambolo: - Prima che tu faccia strane supposizioni, per evitare sospetti, considerate le mille domande di ieri sera per sapere dov'ero, anche se mi rovina la sorpresa, te lo dico - . La “sorpresa” anticipò qualcosa di piacevole. Gli sorrise: - Quindi dove sei andato? - - Sono sparito per un motivo - . - Quale? Dove sei stato? - - Ho fatto il giro dei veterinari qui intorno - . - Veterinari? - - Sì, per guardare le loro bacheche - . - Ma, perché? - - A Montevecchia ho trovato un cucciolo - . Elena sgranò gli occhi in un'espressione di stupore e sofferenza. Un altro cane? Proprio quel giorno? Pianse mentre ascoltava tutte le motivazioni, sensate, condivisibili ma fastidiose, che tentavano di opporsi all'onda incontenibile del suo dolore, ancora troppo intenso. Proprio quel giorno, il compleanno di Pedro, scelto apposta perché fosse con loro anche se era morto. Riccardo parlava e lei non sentiva. Finché tra le lacrime si aprì uno spiraglio, Elena comprese che il cucciolo era il suo regalo di nozze, come Pedro appena nato era stato il suo regalo di Natale. Un altro cane, Riccardo l'aveva ipotizzato persino quando Pedro ancora sano e forte invecchiava con loro. Parlarne le aveva sempre provocato una specie di esplosione nel cervello, non voleva sentire, non ci voleva pensare, non prima. E neanche dopo. Tra le parole, inarrestabili come il suo pianto, sentì una frase: - Quindi, se vuoi, andiamo a vederlo e, se per qualsiasi ragione non ti va, basta dire ci penso - . Rispose annuendo. Salirono in auto dove i peli di Pedro erano ancora sparsi ovunque, pronti ad incollarsi ai loro vestiti, resistenti come i ricordi. Era Pasqua, sei mesi prima, erano al mare. Lo avevano portato in spiaggia, a godersi il sole, che lo ritemprava e gli piaceva tanto. Lì Pedro sembrava dimenticarsi la propria disabilità: si trascinava sul carrellino, ciondolando da una zampa all'altra, la magrezza scheletrica nascosta dal cappottino imbottito, lo sguardo attento. Seduti sugli scogli, il pianto in gola, lui in braccio, annusava l'aria, guardava il cielo, i gabbiani planare, sereno e curioso come sempre del mondo intorno. Elena sperava in un miracolo, Riccardo era rassegnato all'inevitabile, stabilito per il giorno dopo. Era proprio questa deliberata decisione, diventata indispensabile, a sconvolgere Elena. L'eutanasia era un atto d'amore, restituiva dignità, interrompeva le sofferenze, tutto vero, tutto giusto, ma: doveva uccidere il suo cane, e non lo sopportava. La sera, l'ultima, lo aveva messo nella cuccia, quella rigida che lo aiutava a sostenersi, imbottita di cuscini, in cui ormai quasi spariva tanto era deperito. Avrebbe voluto dormire con lui sul divano per non interrompere il loro contatto fisico, Riccardo però aveva iniziato a protestare e, anche per non sentirlo brontolare, era andata a letto, così Pedro avrebbe pensato, forse, a una notte come tutte le altre. E lo era stata. L'aveva chiamata raspando con le zampe sui bordi della cuccia per farsi pulire e girare sull'altro fianco. Lo aveva baciato e coccolato più a lungo del solito. Si erano guardati, lui fiducioso, solo a tratti smarrito, la luce intelligente degli occhi velata dalla consapevolezza di avere bisogno di lei più di sempre, lei straziata. Doveva farlo morire e non voleva, non voleva. Pedro stava male, era vero, ma forse, come altre volte, poteva riprendersi, migliorare, anche solo un poco. Aveva resistito a tanto, da così tanto tempo, nello sforzo di stare con loro. Al mattino purtroppo la situazione era peggiorata, Pedro aveva rifiutato anche l'acqua e non era più in grado di trattenere nulla, anche l'ultima flebile speranza di un possibile rinvio era sparita. Come due automi, Riccardo che voleva interrompere la tortura per tutti il prima possibile, Elena stordita che eseguiva solo ordini, lo avevano messo in auto dentro la cuccia, al caldo sotto la sua copertina, senza cappotto e senza guinzaglio. Per lui, abituato agli spostamenti, sarà stato un segnale, o forse una conferma. Avrebbe potuto pensare di andare in riva al mare, ma la strada non era la stessa, ed era in grado di riconoscerla. Nell'unico ambulatorio veterinario della zona, avevano aspettato, nonostante l'appuntamento, un tempo infinito in mezzo ad altri in attesa di visita. Avevano accarezzato il loro Pedro senza interruzione, coprendolo con le mani per proteggerlo dalla curiosità, entrambi in ansia e infastiditi per la percezione di paura e di morte che Pedro poteva sentire negli odori degli altri. E poi, chini sul suo muso, Elena lo baciava e Riccardo gli teneva la zampa mentre lo accarezzava. Gli aveva detto stai bravo, perché aveva brontolato mentre l'ago per l'anestetico entrava a stento nelle vene. L'unico lamento da anni, da quando si era ammalato. Poi un cenno: è ora. In un soffio non c'era più. Pochi istanti ancora insieme, e glielo avevano portato via con la cuccia, tornata vuota. Risaliti in auto, si era accasciata su Riccardo urlando per il dolore insopportabile. Ma, in quel momento, all'improvviso, tra le lacrime, sano, allegro, sorridente come quando le correva incontro sollevando appena le labbra e mostrando i piccoli incisivi, Pedro era lì, era lì con lei, in braccio, l'annusava, la leccava, le saltava addosso, le diceva, sì le diceva, di non piangere, sarebbe stato con lei, con loro, per sempre. Riccardo lo sento, è qui, mi sta leccando, mi parla ancora, gli aveva detto. Lui piangeva in silenzio, devastato e incredulo. Il breve tragitto sulle strade della provincia lecchese verso Montevecchia era quasi terminato, dopo la rotonda, due semafori. Le si spaccò ancora il cuore per il dolore atroce evocato dal ricordo mentre percorrevano il lungo viale alberato, un portico colorato in cui il sole d'autunno filtrava a lampi per riportarla alla realtà. Provò ad ascoltare Riccardo che stava parlando: - Sforzati di pensare che Pedro ha vissuto bene, sempre con il suo branco. Quante notti in vita sua ha dormito senza uno di noi? Quando è rimasto con tua madre, una a Levanto, l'altra a Milano. Lo abbiamo curato oltre il possibile, forse troppo. Rimpiango solo di avergli prolungato una sofferenza che potevo alleviare prima - . Elena invece era sicura di averne rispettato la volontà: rimanere con loro il più possibile, anche se non camminava più da solo, faticava pure con il carrellino, mangiava pochissimo ed era incontinente. Quando le si abbandonava sul petto, si addormentava lì, sotto le carezze, era dove voleva essere, per amore, ma era il suo desiderio. Era sicura, Pedro gliel'aveva detto, voglio stare con te. L'argomento era stato motivo di molte discussioni, non lo voleva riprendere, non in quel momento: - È colato il trucco? - Lui fece cenno di no e smise di parlare. Erano arrivati davanti all'ambulatorio e lei non sapeva decidere. Pensò all'opportunità di aiutarne un altro e dargli una vita serena, l'unica motivazione in grado di muoverla in quel frangente. Il cucciolo, Brando all'anagrafe, aveva tre mesi, arrivato da un canile tra i peggiori della Calabria si trovava in quei giorni in stallo a Merano, da un'amica della veterinaria, Martina, che lo aveva chiamato Rocket. Si poteva vedere solo in foto e la distanza metteva Elena al riparo da un coinvolgimento immediato. A prima vista era una specie di jack russel, pelo corto e duro quindi, non setoso e morbido come quello di Pedro. Era l'ultimo di una cucciolata di nove, tutti già sistemati, compresa la mamma. Dallo schermo del telefono spuntarono delle orecchie diritte molto pronunciate, tese a parabola e occhietti vispi, intensi, che fissavano l'obiettivo. Lo osservò affidandosi all'empatia, ma non sentì nulla, finché si concentrò sugli occhi, simpatici, sull'espressione, interrogativa ma buffa. Rispose sì, quasi sussurrandolo. Petra, la veterinaria, telefonò subito all'amica per prendere accordi. Sarebbero passate tre settimane durante le quali era prevista la valutazione degli adottanti a casa loro da parte di un'altra volontaria, formalità. Risalirono in auto, Riccardo contento, Elena frastornata. - Allora, che ne dici? Ti piace il tuo regalo di nozze? - Gli diede un bacio per ringraziarlo e commentò sorridendo: - È bruttino, ma ha una bella espressione - . - Non è brutto! Ha solo delle orecchie spropositate. Hai visto che orecchie? - Risero all'unisono. Elena insistette: - Rispetto a Pedro è bruttino, chissà come sarà una volta cresciuto - . - Non credo crescerà molto - . - Non dirlo, anche Pedro sarebbe dovuto rimanere piccolo - . - Già, lo chiamavo il somalo. Cresceva prima in altezza e poi in lunghezza, sempre magro - . - Fino a 11 chili, mai ingrassato, perfetto - . - Mi manderanno un video del cucciolo, per vederlo meglio. Come lo chiamiamo? - - Non vorrei cambiargli il nome, come con Pedro - . - Com'era piccolo! Non riusciva neanche a salire uno scalino - . Intatto nel ricordo, arrivò il profumo di Pedro, già battezzato così: stava in una mano, appena preso in braccio, annusato e baciato vicino alle orecchie, ripiegate a busta, morbide come tutto il corpo. Profumo di latte, di un esserino indifeso, biondo, portato per le spalle, penzoloni, con un panciotto rotondo, lo sguardo che chiedeva cosa stesse capitando. Si era affidato a lei appena l'aveva guardata, leccandola per assaggiarla. - Era bellissimo. L'ho fissato negli occhi e mi ha parlato - . Riccardo non replicò. Elena era convinta di parlare con Pedro, anche se parlava solo lei, ovvio. Il raziocinio gli diceva che era una fantasia, la romanzata interpretazione delle espressioni di Pedro, che lui stesso interpretava ad alta voce, fuori campo, ma per ridere, e deridere bonariamente cane e padrona. Gli era rimasto però il dubbio che ci fosse tra quei due una comprensione, una trasmissione del pensiero, una sintonia speciale. Non credeva alla telepatia, ma non era il momento di contraddire. Arrivarono in anticipo sull'ora fissata per la cerimonia di nozze. Forse per la prima volta da quando abitavano a Cassago Brianza, Elena osservò con occhio interessato il palazzo municipale: costruito di recente in stile fascista da una giunta sedicente di sinistra, sintesi architettonica del secondo ventennio del secondo millennio. La giornata di sole scaldava anche lui. La sala consiliare in cui si stavano dirigendo pareva quella di un vecchio cinema di oratorio, con le sedie pieghevoli rosse, vuote, infissi neri, vetrate, un tavolo, tre bandiere, il gonfalone e Mattarella in foto. Il suo matrimonio si sarebbe celebrato lì, in quella stanza senza storia, senza arredi, senza fiori, a parte il suo bouquet. Più minimalista non l'avrebbe potuto immaginare. Avevano deciso di non dir nulla a nessuno perché in cuor loro erano già sposati, e non avevano voglia di festeggiare. Mancava a entrambi, in modo straziante, la presenza dell'unico individuo davvero partecipe della loro vita insieme, ma Elena lo vide. Pedro era lì, al suo fianco, attento a capire dove mettersi, per migliorare il contatto tra loro senza intralciare. Era lì anche suo papà. Non aveva potuto presentarlo a Riccardo che lo aveva conosciuto attraverso i suoi racconti e lo chiamava con rispetto il professore, qual era stato. Elena si sentì abbracciare, sentì la sua voce, calda, complice, ciao Ninin, come sei bella, le diceva anche lui, e sorrideva nel vederla contenta. Sua madre invece non c'era. Allontanò il pensiero da lei: almeno quel giorno, non doveva rovinarglielo, neanche da ectoplasma. Era intervenuta a sufficienza in passato. Elena guardò la cravatta quasi sgargiante di Riccardo, unica nota estranea alla sua quotidiana insofferenza ai canoni. Io sono un non stirato, aveva ribadito anche quella mattina. Si accorse di essere osservato e sorrise, forse quel taglio di capelli era troppo innovativo per il suo viso squadrato, più adatto a una seria sforbiciata militare. Il sindaco che ascoltò il loro sì era una donna, minuta, dimessa anche nell'abito. Mostrò il dono comunale, l'attestato della cerimonia scritto su un papiro infilato in un rotolo di legno che pareva un mattarello. Elena trattenne l'espressione incredula e la risata, spontanea ma fuori luogo, Riccardo lo prese e ringraziò. La moglie di uno dei testimoni scattò una foto ricordo e uscirono. Non ci fu il lancio del riso, né del bouquet, né la folla di baci sulle scale del palazzo, solo loro due emozionati, felici.
Giatt Il cuccioletto, Brando/Rocket/Giatt, teneva ben nascosta agli umani fino ad allora incontrati una particolare sensibilità d'animo. Ne aveva purtroppo già viste di tutti i colori e la sua prima reazione di fronte al mondo in qualunque forma si presentasse era il tremito. Si appiattiva, tremava e faceva pipì ovunque si trovasse. Da quando era entrato in casa di Martina e di suo figlio Karl a Merano aveva iniziato a tranquillizzarsi, tremava molto meno e in quei giorni, ignaro del suo futuro prossimo, cercava di ricapitolare le sue esperienze in una specie di bilancio per essere sicuro di non dimenticare niente. I suoi ragionamenti, arruffati uno sull'altro, si facevano percepire come un sommesso borbottio, un respiro pesante, che si poteva cogliere quando, come tutti i cuccioli, riposava. Parlava da solo per tenersi compagnia, ma ne era inconsapevole. Era come un bambino, privo delle nozioni basilari insegnate nei primi anni di scuola, si muoveva a istinto, anche questo purtroppo condizionato dalla sofferenza patita. Credeva di essere Brando, da quando viveva lì lo chiamavano Rocket, era un po' confuso, al momento però il suo nome non era tra le sue preoccupazioni. Inanellava pensieri in libertà mentre avvertiva una temperatura diversa da quella a cui era abituato da quando era nato, in piena estate, in Calabria: - Quando esco di casa sento freddo sui polpastrelli e l'aria mi punge il naso, come tanti piccoli rovi invisibili; fanno male, i rovi, me li ricordo bene, quando eravamo ancora tutti insieme, la mamma ci leccava subito se ci graffiavamo. Una volta mi sono ferito sulla testa, mi ha leccato fino a quando il sangue si è fermato, ma mi è rimasta la cicatrice. Qui mi sento al riparo. C'è un pavimento di legno, tiepido e sempre pulito, e io ci tengo a non sporcarlo, la mamma mi ha insegnato a lavarmi sempre bene le zampe, prima davanti e poi dietro, le lecco tutte finché sono pulite. Ho tanti giochi; il mio preferito è il pollo di stoffa, e anche l'osso di gomma, lo mastico perché la bocca un po' mi fa male e un po' mi prude, come se dovessi mangiare il mondo. Mi danno acqua e cibo e mi portano fuori, ma non tantissimo, se no prendo freddo. Comunque, preferisco. Girare per strada mi spaventa, ci sono troppe gambe, e troppi scarponi. Sono alti quanto me, fanno rumore, mi fanno molta paura. Mi ricordano cose talmente brutte che d'istinto mi appiattisco fino a sparire nella coda, e non sento più niente, non capisco più niente. Ho sentito Martina parlottare, chiedeva quando. Ma quando cosa? Non ho capito, poi ha detto ciao Petra e mi ha grattato la pancia. Intanto mi parlava, ma quando parla così io non capisco niente, mi sembra che farfugli, o forse le brucia la gola, ich ich ich, l'unica cosa chiara è ia, lo ripete di continuo, mah, prima o poi capirò. Mentre parlava mi ha dato i biscottini. E alla fine era contenta. Poi è arrivato Karl e hanno chiacchierato tra loro, era allegro e triste, come Martina, e ha chiesto ancora quando. Martina mi ha chiamato per la pappa; mentre mangiavo ho sentito Karl che diceva che manca meno di un mese. A cosa? È diventato triste e non ha parlato più. Poi Martina ha detto che è molto romantico un cane come regalo di nozze e lei era emozionata guardando la foto. Lei chi? Che foto? Boh! Mi faccio un pisolino - . Si raggomitolò. Non si accorse che mentre ragionava tra sé gli si era avvicinato qualcuno. Non lo vide infatti, né lo sentì, né con l'olfatto né con l'udito.
da Primi rudimenti (cap. 8) Devo dire che ho determinato molte delle loro scelte. Mi hanno sempre considerato un famigliare e valutato le mie necessità come fossero le loro. Comunque, sul camper dormivo sotto il tavolo. Quando lo hanno venduto, siamo andati in Sardegna, in una casa e dato che ormai ero grande, mi lasciavano uscire da solo al mattino a gironzolare nella macchia lì intorno. Libertà totale, profumi meravigliosi, tutto da scoprire. Peccato non sia durato tanto. Perché? Perché mi sono ammalato. Non riuscivo più a stare in piedi bene perché le zampe dietro non mi tenevano, Elena aveva paura che mi ferissi, mi trovassi in difficoltà, non riuscissi a tornare. Malattia bastarda, una roba brutta e genetica. Cosa vuol dire? Me l'hanno passata i miei genitori, non so chi dei due, e non si può guarire, mielopatia degenerativa. Mah! Senti, sarebbe ora di dormire, sto qui con te, fino a quando ti addormenti, va bene? Giatt! Dorme già. Meglio così. Vado di sopra. Dormono anche loro, sembrano tranquilli. Mi metto qui, vicino a Elena. Ecco, sento il suo calore e il suo odore. Sul suo petto come quando ero tanto piccolo che ci stavo allungato da una spalla all'altra e lei mi grattava sotto le zampe dall'ascella ai polpastrelli, e siccome io le allungavo e le dicevo che era bellissimo, continuava, fino a dormire insieme. Vorrei essere ancora vivo. E mi andrebbe bene anche non essere figlio unico, con quel tontolone buono e simpatico, a cui spiegare tutto come un fratello maggiore. Ci ho provato, Elena, ho resistito più che ho potuto, ho mangiato per te, anche quando non avevo più fame, ma ho dovuto arrendermi. Sono arrivato a un punto oltre il quale non potevo più resistere. Te l'ho detto quella mattina. Lo so, cercavi di rimandare, non volevi, così ho rifiutato anche l'acqua, e ti sei arresa anche tu. Fammi appoggiare il muso sul bordo del letto, vicino a te, per sentirti respirare. Come faccio a dirle quanto desidero toccarla ancora? Baciarla sulla punta del naso, farmi baciare in mezzo agli occhi. Resto per guardarla quando si sveglia, come facevo a casa, aspettando che aprisse gli occhi. Mi vedeva, mi sorrideva e mi accarezzava. Dormiva ancora e sarebbe stata ancora a letto, ma io avevo bisogno di uscire e mi portava subito. Aspetto, finché Giatt si sveglia. Si alzerà per non lasciarlo piangere - .
Amelia Belloni Sonzogni
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