Parigi, luglio 1888.
Paul si era alzato presto quella mattina, aveva indossato l'ultima camicia pulita e il suo vecchio cappellaccio ed era uscito in strada, incamminandosi di buon passo verso il II arrondissement, dove era in programma il primo dei suoi due appuntamenti della giornata. Parigi. Meravigliosa Parigi. Già a quell'ora brulicava di vita, di ogni genere di vita. Attraversando a piedi il buon pezzo della città che lo separava dalla sua meta, Paul ne assaporò i profumi, i sapori, i colori: soprattutto i colori. Magnifica l'atmosfera, magnifiche le architetture. Più d'ogni altra cosa, era magnifica la varietà infinita dell'umanità che vi abitava. Strada dopo strada, avvicinandosi al centro, Paul vide le vie popolarsi di uomini e donne di ogni età, impegnati nelle più diverse occupazioni. Dalla sua bottega, il panettiere sfornava baguette dorate, orgoglioso della fragranza con cui deliziava l'aria del quartiere; le signorine uscivano a fare una passeggiata di buon'ora e il sole era già così forte da dover aprire gli ombrellini; il vetturino di una carrozza salutava, incrociandolo, il suo collega al trotto, prima di immettersi cantando nella strada principale; due poeti, confrontandosi con voci acute da ragazzini, si accomodavano al tavolo all'aperto di un caffè, già presi dalla passione travolgente dell'arte, mentre il garzone tirava la tenda per far loro ombra. Paul era nato a Parigi e vi era ritornato dopo aver fatto il giro del mondo; ma in quell'estate del 1888 non poteva permettersi di viverci: non aveva più soldi. La stava attraversando a piedi, appunto per risparmiare il denaro di una carrozza. Anche la pensione in cui alloggiava, pur economica, gli avrebbe fatto credito soltanto per un altro paio di giorni. Ecco perché aveva organizzato quei due appuntamenti in un'unica giornata: per pagare un pernottamento in meno nella costosa capitale. La mattinata si annunciava caldissima. Paul aveva in tasca soltanto un pugno di franchi, una matita e un'agendina, che tirò fuori per esser certo di non sbagliarsi: il suo appuntamento prima di mezzogiorno era al Louvre, con un ricco mecenate dal quale sperava di ottenere finanziamenti; l'appuntamento del pomeriggio era a Montmartre, con un uomo ben disposto e influente nel mondo dell'arte, dal quale sperava di ottenere... finanziamenti. Sono le ultime due carte che ho da giocarmi, per questa stagione, pensava. Se va male con entrambi, tornerò subito in Bretagna a dipingere: la vita a Pont-Aven costa molto meno che a Parigi.
Studio per un violino
Il sole era già alto quando Paul arrivò, accaldato ma ancora presentabile, all'ufficio nei pressi del Louvre, dove aveva il suo appuntamento. Francois Henri Moreau lo accolse in uno studio monumentale, che sembrava una sala di museo, gremita di oggetti d'arte: quadri, fini ceramiche portoghesi e, più di ogni altra cosa, strumenti musicali ad arco e a corda, la grande passione di Moreau. Paul passò accanto a viole e violoncelli dalle forme sinuose e dalle vernici lucide, per poi soffermarsi sopra quell'oud: un liuto arabo che, con le sue decorazioni a forma di occhi e bocca, parve sorridergli. Lo interpretò come un buon auspicio per l'esito dell'incontro. Il padrone di casa indossava abiti preziosi e leggeri; quell'aspetto distinto metteva in soggezione Paul, nei suoi vestiti modesti, con quei baffoni incolti e i capelli sempre lunghi e spettinati. - Caro amico, è un onore avervi ospite nel mio studio: questo appartamento mi è stato concesso per la collaborazione con il Salon di Parigi, sapete? Ho pensato di trasferire qui la mia collezione privata. - - Il piacere è mio - rispose Paul, - vi faccio i più vivi complimenti: vedo pezzi davvero impressionanti. - - Non merito complimenti, lo dico senza falsa modestia, sono solo un collezionista: l'arte la posso ammirare, apprezzare, comprare, custodire; non creare. Non sono, e me ne rammarico, un artista come voi. - - Ma anche gli artisti hanno bisogno di mecenati e acquirenti che ne valorizzino il lavoro, per progredire - “mangiare” era la parola che Paul aveva pensato - quindi la vostra opera è ben meritoria, credetemi, per lo sviluppo delle arti. - - Oh, ne convengo; infatti, ricordo benissimo, dell'ultima volta che ci incontrammo, quando cercaste di vendermi uno dei vostri quadri! - - Senza successo, se ben rammento... - e su questo Paul non poteva sbagliarsi: non aveva venduto che due o tre quadri in tutto, nell'ultimo anno. - Avrei estremo rincrescimento, se vi foste ritenuto offeso dal mio rifiuto - si affrettò a dire Moreau - e sono contento che abbiamo la possibilità di incontrarci di nuovo, così posso dirvi, in tutta onestà, che i vostri quadri sono magnifici, per quello che ne può capire un semplice amatore come me. È evidente come la pittura sia la vostra passione, la vostra vita. Io vivo allo stesso modo le mie passioni, ma per arti differenti: la musica e la liuteria. - Moreau indicava con la mano le teche con i suoi gioielli: dal sitar indiano al mandolino italiano. - Avete detto bene: dipingere è la mia vita. Perdonatemi, allora devo aver frainteso la lettera che mi avete inviato. Avevo immaginato un vostro interessamento orientato alla pittura; qui a Parigi non avrei molte opere da mostrarvi; ma se voleste degnarvi di far visita al mio studio in Pont-Aven, vi metterei a disposizione tutti i dipinti che ho realizzato nell'ultimo anno: vi assicuro che il viaggio nelle Antille ha dato frutti che vi stupirebbero. - Moreau stava ascoltando solo per formale cortesia: non era interessato ai dipinti di paesaggi delle Antille, era chiaro, e non sarebbe andato fino in Bretagna per vedere quelle tele, né alcun altro quadro. Paul lo aveva capito dal primo sguardo, ma si sentì in dovere di provarci comunque. - Vi prego, basta - tagliò corto Moreau. - I vostri capolavori sarebbero sprecati per me, non intendo acquistarli; non sono la persona giusta per valorizzare quel genere di arte. - - Apprezzo la vostra schiettezza, ma allora per quale motivo mi avete scritto e fatto venire qua da voi, oggi? - Moreau sorrise e si avvicinò alla scrivania, aprendo il grosso cassetto centrale. - Ho un lavoro da commissionarvi. - Paul fu felice di udire quelle parole. Lavoro vuol dire paga. Magari con un bell'anticipo. Si accostò subito al tavolo. Moreau fece scivolare dall'ampia fronte stempiata gli occhialini con montatura argentea e aprì sulla scrivania un faldone pieno di fogli: - Guardate che meraviglia. - Dinanzi agli occhi di Paul apparvero, tracciati in inchiostro nero, disegni di forme tonde e serpeggianti; volute complesse, eleganti. In un primo momento non capì di cosa si trattasse; parevano figure astratte, ma al tempo stesso sensuali e familiari. Infine mise a fuoco: - ...Un violino? - - Questo non è un violino qualsiasi! È il re di tutti i violini! Questo è il Messia! - Moreau pronunciò quella parola come fosse avvolta da un alone di sacralità. - Il Messia... - ripeté Paul ancora perplesso. - In che senso? Perché questo nome? - - Così lo chiamava il mio maestro e ben riassume la sua fama: si tratta di uno strumento leggendario - Moreau batté con il dito sopra un punto preciso del foglio, la riproduzione fedele dell'etichetta: - i - “Antonius Stradivarius Cremonensis Faciebat Anno 1716” - /i - - Ah, uno Stradivari! - lesse Paul. - E come mai è chiamato “il Messia”? - - È una storia lunga, ma se siete interessato al lavoro, più tardi, con calma, ve la racconterò. Fu proprio il mio maestro, Jean Alard, ad attribuirgli il nome e a portarlo in Francia dall'Italia. -
[...]
Il signor Moreau tirò fuori l'orologio dal taschino, lo sbirciò e disse: - Volete farmi l'onore di essere mio ospite a colazione, al Café de la Comédie? Facciamo una passeggiata, nel frattempo parleremo dei dettagli; così avrete tempo e agio di riflettere sulla mia proposta. - - Con molto piacere - Paul accettò subito: a una colazione gratis non era proprio il caso di dire di no. Si era fatto tardi, ma aveva ancora tempo prima del suo appuntamento del pomeriggio e lo stomaco andava riempito in qualche modo. Avrebbe fatto della colazione un pranzo, risparmiando. - Porteremo queste con noi - disse Moreau; raccolse dal tavolo alcune carte e tutti i disegni del suo studio dentro una cartellina, poi chiuse con cura i lacci alle estremità e si mise il faldone sottobraccio e il cilindro in capo. I due uomini si avviarono verso il portone. Passando di nuovo davanti allo scaffale con l'oud arabo, Paul stavolta ebbe l'impressione che le decorazioni a forma di occhi e bocca dello strumento non fossero più sorridenti come prima, ma avessero assunto una smorfia tragica: strani scherzi della percezione.
Un elefante con la coda di scorpione.
Il vetturino salutò con ossequio Moreau, sollevando il cappello; pareva lo conoscesse bene, probabilmente passava ogni giorno a prenderlo intorno a quell'ora. - Buongiorno, Charles! Andiamo al caffè, ma fai la solita deviazione, per favore: voglio far vedere a quest'amico l'“elefante”! - comandò Moreau. La carrozza procedeva con andatura regolare e i vigorosi cavalli, battendo al piccolo trotto il selciato delle strade più trafficate della capitale, sbucarono sul lungo Senna. Paul contemplò beato la moltitudine di suoni e colori tutt'intorno: i riflessi argentei dell'acqua frastagliata di mille increspature, i barcaioli in lontananza, i cappelli variopinti delle donne sotto il sole, gli imponenti edifici con le facciate esposte a mezzogiorno. Paul si domandò se il suo daltonico compagno di viaggio potesse percepire, in quella scena, emozioni simili alle sue, o se invece la sua tavolozza più limitata gli precludesse a vita il godimento pieno di quel colorato spettacolo. Non aveva ben capito cosa significasse quel riferimento a un elefante; se ne rese conto soltanto quando la carrozza arrivò in prossimità del Campo di Marte. Le quattro zampe di quel mostro poggiavano sul suolo del giardino, sopra altrettante piattaforme megalitiche. Dai basamenti si proiettavano in alto, molto inclinate verso l'interno, quattro gigantesche travi fatte d'ossa di ferro intrecciate. L'inclinazione era tale che la pancia e il corpo della bestia parevano volersi sollevare a fatica, sotto la spinta poderosa degli arti meccanici. Non aveva la testa, il mostro, ma quattro spalle possenti, quattro scapole che sporgevano fuori dal dorso, a sbalzo. Moreau fece fermare la carrozza subito dopo il Ponte di Jena: - Vedete? Eccolo lì! Quello è il nostro nemico! - tuonò, puntando il dito verso l'elefante. Paul osservò da vicino la struttura reticolare di quel confuso ammasso di metallo. Numerosi operai erano al lavoro nel colossale cantiere di cui tutti i giornali avevano parlato, per più di un anno, col nome di “Tour en fer”, la torre di ferro. La costruzione incompleta arrivava già a un'altezza superiore a quella della cattedrale di Notre-Dame, ma non era neppure al secondo livello e dava nel suo complesso l'idea di un tozzo ma smisurato gazebo. - Il progresso! - continuava Moreau. - Guardatelo lì, il simbolo del progresso: potete giudicare da solo di quali bruttezze va adornandosi oggi la nostra città. - - È presto per giudicare: l'opera non è finita - ribatté Paul. - Già, a questo mostruoso elefante manca ancora la testa e la proboscide... o piuttosto una velenosa coda di scorpione! La guglia! Una punta che dovrà innalzarsi, secondo il progetto, fino a oltre trecento metri d'altezza! - - Sarà l'edificio più alto del mondo - Paul alzò gli occhi fino al punto del cielo in cui sarebbe arrivata la sommità della torre. - Esatto: l'edificio più alto del mondo! Non vi ricorda nulla questa idea? Il desiderio di arrivare fino al cielo! Non è altro che la storia biblica della torre di Babele, con la differenza che oggi l'ingegno dell'uomo dispone di sufficienti innovazioni tecniche per realizzarla sul serio. Riuscite a immaginarla, quando sarà finita, quella coda di scorpione? Quel pungiglione, colmo del veleno dell'orgoglio umano, puntare osceno e impertinente all'insù? - - Avete così poca stima dell'ingegno umano? È lo stesso che ha prodotto i violini che tanto amate - obiettò Paul. - Ma l'ingegno di un uomo dovrebbe sempre tendere verso il bello, per gli altri uomini e per il Signore, non idolatrare un'industria disumana e profana! - insisteva Moreau. - Voi avete ben presente come oggigiorno si sono moltiplicate di numero le alte ciminiere delle fabbriche, che deturpano il paesaggio e ammorbano l'aria? Ebbene, cos'è questa Tour en fer, se non un monumento alla ciminiera? I nostri politici lo impongono come il simbolo stesso del progresso: una modernità fatta di bulloni e acciaio nudo, che sovrasta dall'alto l'intera città per celebrare il dominio della Macchina sull'Uomo. - - Veramente io avevo letto che era concepita per celebrare il centesimo anniversario della Rivoluzione del 1789 - ricordò Paul. [...]
Paolo Santaniello
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