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Autore: Marina Cappelli
Due Solstizi a Mount Varana
Thriller, Shi-Fi
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Due Solstizi a Mount Varana
Non avevo scelto io dove andare, come non avevo scelto cosa essere e che lavoro fare. Niente, negli ultimi ventitré anni, aveva preso una sola volta in considerazione le mie volontà. Era da un bel po' che mi sentivo frustrata, scontenta e più mi guardavo allo specchio, più mi scappava da ridere.
Qualcosa dentro di me strideva così forte, che per più di una volta ho temuto si sentisse anche da fuori; solo più tardi ho capito che non era così, ma soprattutto ho scoperto che a stridere non era l'abnorme sulla normalità, o per lo meno così era solo all'inizio; via via che il tempo passava, ciò che iniziò a stridere era la normalità sull'abnorme.
Mi sono sempre chiesta quando la consuetudine smette di essere tale e inizia a essere eccezione. Non sono mai riuscita a rispondermi e non ho mai trovato nessuno capace di farlo.
Dimenticavo un piccolo dettaglio: neanche quel golfino fatto ai ferri da mia madre che indossavo durante il mio viaggio verso Varana, l'avevo scelto io.
Tanto per cambiare, pioveva.
Odio la pioggia. Odio guidare con la pioggia, occupare il tempo con attività idiote che non mi trasportano emotivamente, odio mangiare quando piove, fare sesso.
Quando piove vorrei solo restarmene rannicchiata sotto le coperte calde di un buon letto comodo. Anche il divano va bene, basta non essere disturbata.
Erano ormai quindici giorni che pioveva, ero talmente apatica che non avevo più controllato la mia posta elettronica da non so quanto tempo, il cellulare si era scaricato senza che me ne fossi accorta.
Verso le cinque del pomeriggio sentii suonare il campanello. Aprii la porta con la faccia ancora assonnata, il trucco del giorno prima e i denti da lavare. Numero Uno mi guardò pateticamente, sbuffando nel vedere il mio stato, simile all'avanzato stato di decomposizione di un cadavere:
- Ah, figliola. Quando ho visto che non rispondevi da nessuna parte, me lo sono immaginato. -
Mi scansai per farlo entrare.
Numero Uno è il mio capo, colui che mi ha insegnato a convivere normalmente con la mia parte abnorme, che mi permette di studiare e lavorare insieme, che consola mia madre e tutte le altre madri dall'anno in cui il Fiato Divino scese su Tremora. Una sorta di padre spirituale, anche se il suo comportamento è sempre stato molto distaccato e professionale, una cosa che quando ero piccola accettavo poco volentieri e a volte l'ho persino odiato per non avermi mai presa in braccio, quando piangevo davanti a cose che avevo fatto e di cui ricordavo poco o nulla. Così, col tempo, ho preferito aggirare l'ostacolo e non piangere più.
- Avevo una certa necessità di parlarti, avrei una missione da affidarti. -
Lavoro, cioè una qualsiasi attività capace di scuotermi da quel torpore fradicio di pioggia incessante. Il mio viso riprese immediatamente vita e colore, perdendo l'aspetto putrido da cadavere che cammina.
- Mi dispiace... - balbettai in segno di scusa per non aver risposto alle sue e-mail.
Numero Uno si sedette sul divano scansando la coperta a quadri che mia madre aveva confezionato all'uncinetto con le sue manine d'oro. Ignoro nel modo più assoluto l'arte femminile di annodare la lana in quel modo. Mi viene molto più facile entrare in un grande magazzino e svaligiarlo di tutto ciò di cui ho necessità impellente. Misi sul fuoco il bollitore per il caffè e mentre aspettavo mi tracannai mezza scatola di cereali come fossero stati croccantini. Numero Uno scosse la testa ridacchiando.
- Portami una tazza di caffè e siediti, voglio parlarti seriamente. -
Così feci e dopo il caffè anche il mio cervello iniziò lentamente a reagire a quel giorno iniziato ormai da svariate ore.
- 35 è sparito - iniziò senza mezzi termini, fregandosene del fatto che abbia sempre odiato quando si rivolge a noi con dei numeri progressivi, la cui progressione non ho mai capito che concetto segua. Io sono il numero 5, in tutto siamo trentacinque. Era sparito l'ultimo di noi.
- Lo conosco? -
- No, ma dovrai ugualmente ritrovarlo e anche piuttosto alla svelta. -
- Hai una foto di lui? -
- Chi ti dice sia un lui? -
- Ti ho chiesto se lo conoscevo e tu non hai battuto ciglio, anzi, a rafforzo mi hai detto che lo devo ritrovare. Cos'altro dovrebbe essere se non un lui? -
Numero Uno ha passato gli ultimi ventitré anni a mettermi continuamente alla prova. Non è mai riuscito a fregarmi.
Sorrise, io no, non mi aveva mai affidato un compito simile. Per la verità non avevo mai avuto compiti veri e propri, ero sempre stata indaffarata con robetta piuttosto leggera e d'ufficio, che in ogni caso mi teneva impegnata e mi distraeva dalle giornate in cui facevo fatica a uscire da sotto le coperte.
- Da dove dovrei cominciare? -
- Da una doccia bollente, poi metti in valigia un paio di straccetti e sali in auto verso Varana. -
Si era bevuto il cervello?
Varana era una piccola città ai piedi dell'omonima montagna, mi chiesi perché 35 avrebbe dovuto trovarsi così lontano.
- Non c'è un modo per contattarlo? -
- Lui non è come te, lui non sa capire, non sa difendersi, non ha mai imparato. Si farà ammazzare prima o poi. -
- Cos'è? -
Per la prima volta vidi Numero Uno abbassare lo sguardo nel rispondermi.
- Non lo so. -
Avevo davvero poco materiale per riuscire a trovare un mutante.

Non fu mai data una spiegazione logica al Fiato Divino e come per tutte le cose a cui non riusciamo a dare una connotazione scientifica, venne incolpato Dio. Da lì, la rassegnazione viaggiò veloce tra gli abitanti di Tremora colpiti dal Fiato, mentre gli altri ignoravano nel modo più assoluto tutta la faccenda. Noi avevamo vissuto in incognito, come bambini normali, provando imbarazzo e vergogna ogni volta che le nostre anormalità ci sfuggivano di mano.
A tre anni, facendomi beffe della rete messa da mia madre tutt'attorno alla ringhiera del terrazzino, principalmente perché non cadesse qualche mio balocco in testa a qualcuno, vi balzai sopra per raggiungere l'albero di fronte e potermi calare giù con comodo e andare a recuperare la mia palla di gommapiuma, finita al di là della strada. Mia madre sopraggiunse prima che potessi spiccare il salto nel vuoto e raggiungere così l'albero e mi vide passeggiare avanti e indietro per la ringhiera, cercando di prendere le giuste misure per il salto, in modo del tutto disinvolto.
Gridò, al che mi distrassi e scesi dalla ringhiera arrossendo, consapevole di stare facendo qualcosa che non dovevo fare, ma senza la più assoluta coscienza di quanto disumano fosse il gesto che mi preparavo a compiere e per il quale invece sapevo benissimo di averne le possibilità fisiche.
Io sono ciò che si potrebbe definire un gatto e dopo ventitré anni, questo, per quanto ridicolo a dirsi e a sentirsi possa essere, è divenuto per me un dato di fatto, fino a cambiare buona parte dei miei istinti e del mio modo di affrontare le cose. Numero Uno consigliò mia madre di iscrivermi a danza, quando avevo sette anni, per giustificare tutta quell'agilità. Solo più tardi fui indirizzata alle regole che dovevano integrarmi in una società che non mi avrebbe altrimenti mai accettata, che poteva arrivare al punto di temermi e di fare di me un mostro più o meno pericoloso, e per tali regole Numero Uno si innalzò a mio precettore.
Iniziavamo a essere in parecchi, ci ignoravamo. Un punto essenziale dell'indirizzamento di Numero Uno era quello di non riunirci in una setta a sé, quindi nessuno doveva rivelarsi, né ai propri simili, né a chi non era come noi, soprattutto. Un'infanzia e un'adolescenza di bugie. Un immenso gioco del nascondino, dove chi scopriva chi non avrebbe potuto comunque far tana, anzi, avrebbe dovuto far finta di niente.
Non so come abbia fatto ad accettare tutto questo, orgogliosa, menefreghista, a tratti opportunista, egoista quale sono diventata, ma estremamente sincera e coerente con me stessa. Per cui, quando posso, me ne resto in casa tra le mie coperte, e di uscire tra gli altri, giocando a far quella che si fa vedere e si nasconde, mi è sempre importato poco.
Numero Uno dava già per scontato che sarei partita per Varana e infatti partii. Nel bagaglio, rigorosamente a mano, ficcai il portatile, il cellulare, quattro paia di mutande pulite, una manciata di calzini, senza controllare che fossero ben appaiati, la mia inseparabile giacca di pelle e abiti per resistere una settimana, ma sapevo benissimo che sarei rimasta molto più a lungo.
[...]

Marina Cappelli

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