La dualità di febbraio.
Questa storia inizia in un paese straniero, in una città straniera dove, per tanto tempo, straniera mi sono sentita anch'io. Per essere più precisa, i primi tempi non sapevo neppure dov'ero finita. Poi, lentamente, mi sono abituata. Gli anni sono passati e su questa terra si sono radicati nuovi ricordi. Ho cercato di preservarli, di annaffiarli e coltivarli come se fossero nuove e fragili piante da difendere dal temporale. Febbraio mi ha donato una data memorabile. È passata una vita, ma è come se fosse oggi. I fiocchi di neve cadevano in modo caotico e il freddo penetrava nell'appartamento in cui mancava il riscaldamento. Gli ospiti non erano molti, e nemmeno i parenti. Alcuni di loro non erano venuti, ancora impegnati in liti e vecchi rancori. Gli invitati, che arrivavano separatamente o a gruppi, riempivano la casa di auguri, gioia ed entusiasmo. Un “llokum” e un bicchiere di acquavite erano tutto ciò che abbiamo potuto offrirgli per il nostro matrimonio. L'appartamento era quasi vuoto, ma il cuore lo avevamo pieno di sogni. Queste parole non sono mie, le ho citato da... ma sto divagando. Un difetto che le mie figlie sottolineano spesso. “Perché ti allontani dall'argomento della conversazione? Quello che dici non ha nessun collegamento con ciò che stavamo dicendo. Salti da un ramo all'altro, come Tarzan". "E, va bene, va bene, non ho ucciso nessuno". Il motivo per cui ho iniziato a raccontare questa storia non è quella data felice, ma un evento che ha cambiato completamente la vita della mia famiglia. Ma perché doveva accadere esattamente nel mese di febbraio? Quante volte me lo sono chiesta, senza ricevere alcuna risposta. Può un mese donarti una grande gioia e un dolore altrettanto grande? E ora, per che cosa lo ricorderò di più? Ma non voglio stancarvi. Inizierò immediatamente la narrazione, e spesso lascerò la parola alle mie figlie, vista la mia propensione a digredire. Ah, le ragazze!
Pagine vuote, giorni non vissuti
Era stata felice prima che quel giorno di febbraio cambiasse completamente il corso della sua vita, ma non se ne era mai resa conto. Luisa immaginava la felicità come un enorme uccello che scende dal cielo con il frastuono di un elicottero e dice: - Sono io, prendimi tra le tue braccia - . Avrebbe atteso invano ma non sarebbe mai arrivata in quel modo. E come poteva sapere che la presenza della felicità fosse così leggera e impercettibile, come la brezza che accarezza la superficie assonnata del mare? L'aveva vissuta, senza saperla riconoscere. Prima, non appena si sdraiava a letto, si addormentava subito al punto che Sotir la punzecchiava: - Beata te, come se tu premessi un bottone in pochi secondi e ti trovassi nel mondo dei sogni - . Adesso si rotolava nel letto. Chissà per quanto! E il suo sonno era pure agitato. Quando il sole bussava alla finestra, come la notte che lascia il posto al giorno, nella sua anima la preoccupazione si trasformava in speranza. Pregava che suo marito superasse questa situazione e di avere ancora tanti anni da vivere insieme. Lui lassù, capiva le sue preghiere in albanese? Ogni volta che le figlie le chiedevano come aveva dormito, aveva la risposta pronta sulla punta della lingua come se non avessero dovuto farle quella domanda: - E come posso dormire io, mentre lui è lì? - . - La porta della mia casa è sempre aperta, se vuoi venire - insisteva Ines. - Grazie, figlia mia, ma non posso fuggire lasciandomi sempre dietro le spalle appartamenti vuoti - . E istintivamente i pensieri andavano lontano, alla loro casa nella città di E. Ci andavano una volta ogni anno, massimo due, ma con la mente passeggiava ogni giorno nelle sue stanze. Si fermava nella cucina, dove una volta tenevano la stufa a legna e ora restava solo un fornello elettrico arrugginito, poi si sedeva con cura sulle poltrone invecchiate dal peso degli anni. Quasi come se temesse che potessero crollare sullo sfondo dei ricordi, si appoggiava sul divano e il suono che le sembrava di sentire, era come un lamento che le arrivava fino all'anima. Poi entrava nella camera da letto, dove passava il tempo con le sue figlie e lì si fermava più a lungo. Inizialmente quella casa sembrava essere inabitabile: era fredda e neppure i doppi vetri sembravano poterla proteggere dalla ferocia del vento di Krasta, ma successivamente le loro risate, la loro presenza e tutti i loro lunghi discorsi, l'avevano riscaldata e resa accogliente. Questo era il suo segreto. E adesso qui aveva una nuova casa, straniera, familiare, piccola ma in grado di accogliere tutti loro e tenerli uniti. Non voleva per nessuna ragione dover abbandonare anche questa, sognava che si riempisse di nuovo di vita. Un giorno le ragazze l'avrebbero percorsa come prima, i bei ricordi si sarebbero risvegliati dal letargo e dentro quelle mura sarebbe tornata la primavera.
***
Una sera mentre spolverava gli scaffali della libreria, aveva trovato il diario di Sotir dentro a un sacchetto di cellophane. Ogni volta che si imbatteva nelle sue cose, si innervosiva: - Questi poveri sacchetti sono la tua fissazione, ci hai riempito tutta la casa - . Ma questa volta rimproverarlo le faceva male al cuore. Le sembrò normale, il marito voleva soltanto proteggerlo dalla polvere. Appena vide il bloc-notes lo riconobbe subito, lo vedeva sovente in mano a Sotir o sul tavolo, su cui spesso scriveva senza staccare lo sguardo dalla televisione. Lo estrasse con cura come se avesse trovato un tesoro. Lo aprì, lo sfogliò e rimase a bocca aperta quando vide che in esso non erano appuntate le sue squadre preferite e nemmeno i risultati delle partite. Distinse la data del sedici Febbraio, cioè il giorno prima che lui avesse l'ictus e provò un brivido. Il pensiero che non dovesse toccare quel diario cominciò a roderla sempre più. Era tentata di chiamare una delle figlie, ma poi cambiò idea. Presto sarebbe stata mattina, doveva avere pazienza. Sfiorò con le dita quel taccuino grigio scuro e sentì un nodo alla gola. Dunque era un diario e Sotir aveva scritto fino al giorno prima dell'incidente. Lanciò uno sguardo alle pagine vuote, rappresentavano i giorni in cui lui non aveva potuto scrivere, i giorni non vissuti, imprigionato come era nel letto d'ospedale. Quella mano che per anni aveva buttato idee e pensieri sulla carta, adesso era inerte, chiusa a pugno. Si asciugò una lacrima allontanando il diario da sé. Gli altri la consideravano una donna forte, ma lei non poté trattenere la commozione. Una volta quando avevano messo Sotir sulla sedia a rotelle, Luisa rimase immensamente impressionata mentre lui, con la mano buona, aveva preso la destra, che non poteva più muovere e l'aveva spostata. Quell'immagine la seguì tutto il giorno come un'ombra. Che cosa provava suo marito adesso, rendendosi conto di non poter comandare metà del corpo o di non riuscire a parlare? Lui che fino al giorno prima cucinava e passeggiava! Era arrabbiato con la vita? Sembrava insidiosa, come se gli avesse teso una trappola senza dargli il minimo segnale. Le prime settimane era stato nervoso, si toglieva la maschera di ossigeno e cercava di alzarsi. Non capiva perché si trovasse lì e perché il suo corpo fosse preda di un tranello, dal quale non poteva uscire. Un giorno aveva tentato di chiederle qualcosa, ma dalla bocca riuscì a emettere soltanto suoni indecifrabili. - Che cosa dice? - domandò Luisa sconvolta a sua figlia. - Non riesco a capirlo - . - Forse ci chiede che cosa gli è accaduto e perché si trova qui - . Luisa cominciò a raccontare per filo e per segno di come avevano avvisato il pronto soccorso, come avevano rotto il vetro e tutto il resto, ma Emma l'aveva interrotta dandole un leggero colpo sul braccio, per spiegare in poche parole al padre che aveva subito un ictus. Gli occhi di Sotir si coprirono di un velo di malinconia, a cui loro due non poterono sottrarsi. Era stato un medico, sapeva benissimo di cosa stessero parlando e quali potessero essere le irreversibili conseguenze.
Irma Kurti
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