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Autore: Lucia Maria Collerone
Hortensia
Romanzo Storico
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Hortensia
Primavera 1939.
Se ne stavano lì, lunghi e distesi, l'aria fresca d'aprile sui visi morbidi e bianchi per l'inverno.
Il sole ne riscaldava lentamente la superficie, sciogliendo il ricordo del freddo imprigionato dalla brutta stagione. Il cielo piano e unico nel suo azzurro, senza una macchia di nuvola, faceva capolino tra i rami del mandorlo imperlato di fiori delicati, bianchi e rosa. Tanti fiori come un tappeto leggero, impalpabile; un alito di vento e diventavano ali di farfalla.
Si erano tolti scarpe, calze, e le braccia nude, senza il ruvido maglione di lana e la stretta camiciola di cotone, erano state liberate, e si poggiavano ora mollemente sul tappeto erboso e rilucente che sembrava impazzito di mille colori: l'erba alta era punteggiata da fiori di ogni natura e loro, uno accanto all'altra, sfiorandosi, ne erano parte, parte di quel regio mantello di cui si vestiva la loro terra, quando ancora la gelida mano non aveva lasciato il posto alla natura danzante, parte di quella deflagrazione di vita.
Hortensia guardò Mario e lui pensò che quel nome era proprio adatto a lei, anche se era inusuale. La pelle bianca, quasi trasparente si sarebbe presto colorata di un bellissimo colore ambra, e quegli occhi cangianti, attenti e vivaci si sarebbero posati vispi sul mondo, su di lui.
Hortensia pensò che gli occhi di Mario erano cirase nere, così profondi che ci potevi annegare, che sapevano la storia del mondo, e che lei e lui erano la Sicilia. Normanna lei, arabo lui, rappresentavano l'Isola fulgida, la culla del mondo. Così la chiamava papà suo e adesso, in quel quadro vivo di colori, aveva capito cosa voleva dire.
“Ortensia”, la sua voce era leggera come il vento.
“Hortensia con la H, Hortensia” precisò sorridendo la ragazzina, come a seguire un pensiero allegrissimo.
“Ma cosa cambia?”
“Cambia. È il mio nome. Hortensia. Tu lo devi dire proprio così. Lo hai sempre pronunciato in modo sbagliato. Eri un bambino e potevo capire, ma ora hai quasi quindici anni”, disse infilandosi uno stelo fiorito di acetosella tra le labbra e succhiandolo con veemenza.
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“Va bene, non ti annirbuliare. Hortensia con la H. Non lo sbaglierò più” promise il ragazzo, divertito all'idea che lei esigesse la presa in giro. “Allora, Hortensia con la H, da dove viene il tuo nome? Me lo sono sempre chiesto. Il mio lo so da dove viene. Le mie sorelle hanno tutte il nome della Madonna: Mariarosa, Marianna, Mariapia, poi, sono nato io e allora: Mario. Hortensia... da dove ci calà a tuo padre?”, si girò e si appoggiò sul gomito per guardarla.
La ragazzina aveva gli occhi chiusi e sembrava non averlo sentito. Affondata nell'erba boscosa e profumata, continuava a tenere dritto lo stelo che le spuntava dalle labbra, come se la sua bocca fosse la terra da cui quello spuntava. Mario pensò che era proprio un pezzo di prato.
“C'è una storia bellissima dietro. Mio papà, come sai, viaggia per tutta l'Italia, ma anche fuori. Un giorno, quando la mamma aspettava me, papà arrivò in una stazione in Lombardia, in un paese che si chiama Zelo Buon Persico. Arrivando con il treno, dal finestrino, vide un enorme cespuglio fiorito, con grandi bolle, fiori enormi composti da altri piccoli fiori azzurri. Chiese ai ferrovieri dove poteva trovare una piantina: loro gliene diedero una che portò a mamma. Nessuno in contrada Fontanelle e in tutta Agrigento aveva un fiore come quello nel suo giardino, lei si sentì unica e orgogliosa. Papà le disse che si chiamava Hortensia, e che doveva stare all'ombra e all'umido. La misero sotto il carrubo, mamma la curava con amore. I fiori azzurri, a un certo punto cambiarono colore, si fecero violacei e diventarono rosa: un rosa intenso, con sfumature fucsia. Per mamma fu un segno. Se fosse nata una femmina, come lei voleva, l'avrebbe chiamata Hortensia, perché i fiori erano carichi di magia, e lei voleva una vita magica per la sua bimba nuova. Sono nata io ed eccomi: Hortensia.”
Si alzò anche lei su un gomito e lo guardò in viso soddisfatta. “Ah, devo anche aggiungere che il mio secondo nome è Pesca, in onore del paese che ci ha regalato il fiore” concluse con una nota di orgoglio.
“Ma chi dici... pirsica di secondo nome! Ma nun ci criu mancu sa veni Gessù e mi dice che vero è!”, sbottò ironico e un poco arrabbiato il ragazzino, sentendosi preso in giro e rituffandosi nell'erba.
“Chiedilo a mamma, allora. Non è che ti devo convincere... il mio nome è Hortensia Pesca Giolai”, concluse ributtandosi sul prato e richiudendo gli occhi.
Il silenzio ridiscese su di loro, sipario di pensieri muti, ma carichi di parole.
Annusavano l'aria, i profumi erano tanti e lei adorava distinguerli, separare le fragranze, riconoscerli e, se poteva, dare loro un nome. Sentì l'odore del venticello fresco che veniva da sud carico del profumo della sab7
bia, del mare. Percepì l'odore dei fiori di mandorlo, persistente e pungente, con quella nota amara che si sentiva sempre nei dolcetti della nonna. C'era l'odore del tronco muscoso del mandorlo, di ombra e di linfa dalle radici. L'odore dell'erba, liscio e penetrante, e poi i fiori: il sentore aspro della margherita, forte come il colore giallo intenso della sua corolla; il papavero, sottile e altezzoso, l'odore intenso del suo possente rosso; u sucameli dolciastro e denso di umori, e poi le sparute, piccole margheritine, cariche di sogni e di domande.
Ci giocavano sempre lei e Mario: m'ama, non m'ama, m'ama...
“Per chi lo hai chiesto, Mario?” chiese Hortensia maliziosa, quando gliene vide una in mano, felice di scorgere il rossore che dilagava sulle sue guance brune, eredità degli arabi.
“Per nessuno, e tu?” chiese lui di rimando, affondando nelle sue pupille di mare.
“Io lo chiedo sempre per te, perché voglio essere sicura che ci vorremo bene per sempre, per sempre!” si buttò su di lui e lo abbracciò. Sorpreso l'abbracciò anche lui, le baciò la guancia velata dal rossore del primo sole e la fece rotolare accanto a sé. Cominciò a strappare l'erba, facendone coriandoli che cadevano molli e divertiti su di loro, iniziando una battaglia di verdi pezzi odorosi.
Scattarono in piedi e cominciarono a correre, scalzi; si rincorrevano ridendo tra gli alberi carichi di stelle lattiginose. Arrivarono fino al tempio di Demetra, dove si fermarono ansanti.
“Lo sai che qui veniva la gente a pregare?” disse Hortensia annusando l'aria.
Mario fece cenno di sì cercando di riprendere fiato.
“È colpa di Demetra se c'è l'inverno, lo sapevi? Il dio della morte le aveva preso la figlia e, per tenerla con sé sempre, le aveva fatto mangiare un chicco di melograno, così le rimaneva per sempre il desiderio di ritornare da lui. Quando la figlia stava con il marito, per sei lunghi mesi sulla terra cadeva il gelo e la natura era come morta; quando era con la madre, la natura risplendeva di bellezza. Adesso sono insieme” concluse cincischiando con uno stelo di un papavero, e schiacciandone il bozzolo verde per vedere che colore di petali celasse. Rosa chiaro.
“Lo senti questo odore pungente?” Annusava un odore che Mario non percepiva.
“L'odore della paparina sul pane.”
Fece no con la testa, in silenzio.
“Sento il profumo delle preghiere e delle suppliche.” disse Hortensia, aggirandosi tra le erbe a occhi chiusi.
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“Io non sento un bel niente. Come al solito li senti solo tu tutti ‘sti odori. Ci siamo allontanati troppo, fa ancora buio presto, ritorniamo o mia madre mi scorcia vivo.”
Hortensia annusò ancora un poco l'aria, sembrava non voler andar via. Allora Mario la prese per mano e la trascinò. Era lui quello che, da quel momento, avrebbe dovuto tenerla con i piedi per terra: chissà in che mondo era finita stavolta, con tutte quelle storie che raccontava e inventava.
Si ritrovarono sotto l'albero che custodiva il loro vestiario. Si sedettero sul prato e in silenzio cominciarono a rivestirsi.
“Andiamocene a casa di corsa, che tardi è: devo aiutare mio padre con le bestie. Mi vado a coricare presto che domani c'è scuola. Dai, andiamo!” le prese le mani e la tirò su con impeto, facendola saltare come una molla. “... e ora corri come il vento Hortensia Pirsica, sennò mia madre mi tira il collo come a un pollo.”
Cominciarono una corsa precipitosa e urlante, sulle pietre levigate del sentiero antico e sacro. Sfiorati dalle foglie del cappero, ancora addormentate nel sonno dell'inverno, senza fiori né cucunci saporiti, i due ragazzini volavano come folaghe nel cielo senza confini.
A Hortensia piaceva farsi trascinare in quelle corse folli e si sentiva leggera, inebriata dalla paura che un poco le saliva dallo stomaco. Correva accanto a Mario, si fidava di lui, non l'avrebbe mai fatta cadere, mai, ma sempre le avrebbe concesso un attimo di assoluta pazzia che la faceva sentire felice.
I polmoni aperti per la corsa assorbivano tutti i profumi della terra e dei suoi doni verdi. Lei si sentiva parte di quel mondo: aria, erba, fiori, luce, tronchi.
Quando, alla fine, arrivarono in pianura, Mario rallentò la corsa e si fermarono. La guardò con occhi illuminati e le disse con il fiato corto: “Ti piacì Hortensia con la H?”
Lei sorrise e rispose ansimando: “Sono stata uccello che vola e mi sono riempita di aria profumata di vita frondosa, di nuvole.”
Lui la guardò sorridendo, adorava il suo modo di dire le cose, sembrava più grande di quello che era: una ragazzina con un gruzzolo di anni stretti tra le dita e con le parole dei libri.
“Ti lascio a casa e corro da mia madre, che a quest'ora già vannia come una pazza chiamandomi dalla vanedda” disse riprendendo il passo veloce, nel sentiero segnato dagli immensi alberi di olivo argentei, ritti come i faraglioni nel mare che aveva visto ad Acireale, quando vi era andato con suo padre.
“Ho paura che arrivi la guerra” gli urlò di botto la ragazzina.
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Mario si fermò, la guardò di traverso e tornò verso di lei.
“Ma che pensi dentro ‘sta testolina bionda? La guerra, e che ci trasi ora?” disse, picchiettandole il centro della fronte con l'indice. “Andiamo a casa che vero tardi è.”
“La sera, a volte, sento il suo odore nell'aria e mi spavento” disse sottovoce. “Sento la puzza della polvere da sparo che viene dal deserto con la sabbia: là c'è la guerra.”
Erano arrivati davanti a una casa a due piani, dispiegata in una lunga facciata di pietra, interrotta a intervalli regolari da finestre di legno di verde brillante; su un lato vi era abbarbicata una buganvillea enorme, dall'altro una lussureggiante uva americana mescolata all'odoroso gelsomino, a formare una pergola odorosa.
La porta, protetta dalla issina di legno, anch'essa di un bel verde brillante, custodiva tra le sue stecche di legno orizzontale l'interno della casa lontano dalle brutture del mondo.
Mario spostò lo sguardo verso il grande carrubo e vide l'enorme cespuglio straripante di fiori rotondi, di un colore rosa delicato che a volte diventava indaco. Era quella la pianta di cui portava il nome quella creatura strana e composita. Le baciò la guancia morbida e aggiunse: “Bella mia non ci pensare alla guerra, e se guerra sarà, io ti proteggerò. Ni vidimmu dumani, Hortensia Pesca.”
Hortensia lo vide andare via correndo sulla terra sabbiosa e imperfetta del vialetto: lo seguì con lo sguardo fino a che non girò l'angolo tra le ginestre e sparì alla sua vista.
“Non ho bisogno di essere protetta da te” pensò corrucciando la fronte come invasa da un pensiero molesto. “So proteggermi da sola. Ci vuole chi protegge te, che non non senti il puzzo di morte che sento io.” Rabbrividì. Si strinse nel maglioncino, come a proteggersi dalla paura che le prendeva il corpo, tremò per un attimo, così decise che sarebbe stato meglio entrare a casa. Sentì già dall'esterno l'odore del finocchietto che le solleticava le narici e si mescolava al profumo molle e denso delle lenticchie. La pasta di San Giuseppe. Questo stava cuocendo nella pentola di coccio. Si sentì rassicurata da quel profumo: sapeva di famiglia, di unione. La guerra sparì dal suo cuore.
Stava per scostare la tenda rigida di legni verdi, paralleli come binari, quando vide da lontano una figura stagliarsi nella luce mutevole del sole che calava. Guardò meglio, spingendo lo sguardo con forza al di là della luce infuocata del tramonto.
“Nonno, nonno mio!” Lasciò che la tenda si richiudesse con uno schiocco e corse da lui. Aveva la gerla sulle spalle che lo incurvava. Doveva esse10
re piena du beni di Diu che mai mancava a casa loro, grazie al lavoro delle campagne del nonno.
“Hortensiù, bella mia, ancora pedi pedi sei, sta scurannu. Dove sei stata?”
Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e glielo porse.
“Le prime sono.”
Prima di aprire il fazzoletto, Hortensia annusò l'aria. Sapeva di tanti odori: sparaciello, finocchietti, lattuga, cipollette, finocchi e... fragole.
“Fragole nonno, fragole!” disse esultando e aprendo avida il fazzoletto.
“Sì, curuzzu mi, sangu mi. Fragole per te, bella di nonno tuo.”
“Lo facciamo il gioco, nonno?” disse saltellandogli accanto, sempre bambina, e assaggiando golosa la fragola che si sciolse in un rivoletto sanguigno agli angoli della bocca.
“Avanti facciamolo, ma cammina: che sono stanco e voglio posarlo ‘sto peso” aggiunse sorridendo e spingendola un poco. “Allora, che odori senti? Che ho portato a casa?”
“Quante cose sono, nonno?”
“Sette cose. Una già la sai.” E le pulì un rivolo di fragola dal mento. Le mani del nonno erano ruvide, callose, ma leggere come un sospiro, così strofinò la sua guancia alla manona del nonno, come un gatto affamato di coccole.
Il nonno sentì le fusa e aggiunse amore ad amore.
“Sparaciello... cipolletta... finocchi... lattuga... finocchietto...” la voce entusiasta, ancora infantile, si fermò. Hortensia chiuse gli occhi e annusò. Sorrise, poi, trionfante, guardò suo nonno con uno sguardo furbo, che lo fece sorridere, e disse:
“Non sono sette nonno, sono otto!”
“No, davvero, solo sette.”
Fece cenno con il capo che non era d'accordo con lui e aggiunse orgogliosa di sé “Asparaci...”
“Sì, brava! Hai visto sette, con le fragole”
“No, nonnino mio, c'è un altro odore. Di erbe amare...”
L'uomo, chinandosi, posò la gerla davanti alla porta. Rovistò nella sacchina che gli pendeva di lato e tirò fuori un mazzo di sanacciuoli.
“Dimenticavo. Sono per la frittatina. E chi ti batte, vero nicaredda?”
Hortensia si tuffò tra le braccia del nonno che le baciò la testa profumata di fiori di campo e l'amò ancora più teneramente, se fosse stato possibile.
Hortensia entrò a casa festante, chiamando la mamma e la nonna. La porta si chiuse e lasciò le paure fuori, in quel cielo infiammato di sole che tingeva di melagrana le nuvole.
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Lucia Maria Collerone

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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