Come le ombre.
Il ritorno nella casa di via Bardhyl a Tirana fu arduo. Quella dimora non era concepibile senza la presenza di mia moglie. Lei si sentiva così bene dentro quelle mura: puliva, ordinava, creava, dandole l'aspetto di una casa per le bambole. Di pomeriggio stava con Irma nella stanza da letto, parlava al telefono con le sorelle o guardava le sue soap opera preferite in TV. Gli istanti più felici erano quando comunicava con le figlie in Italia e contava i giorni fino al loro viaggio per Capodanno o durante le vacanze estive. In un giorno soleggiato ci sedevamo in un bar, oppure lei andava dai parenti. Quando iniziò ad avere problemi di salute, non perse mai l'entusiasmo: pregava Dio di lasciarla “così com'era”. Perché lei era felice, le bastava una famiglia che la adorava; nonostante le limitazioni non avrebbe voluto cambiare una virgola alla sua vita. Ma Dio non ascoltò le sue preghiere. Era strano non vederla passare nel corridoio, non sentire il fruscio caratteristico del vestito, il tocco leggero delle pantofole sul pavimento, il suo ritorno dalle visite e il vento dell'allegria che portava, sentirla parlare delle nostre figlie e del desiderio di vederle felici. A volte mi sembrava che fosse andata al negozio vicino a casa o semplicemente a buttare la spazzatura e da un momento all'altro sarebbe rientrata sorridente. Ma il tempo passava e lei non arrivava. Quando tardava a venire, noi le chiedevamo scherzosamente se la strada si era allungata o se il negozio aveva cambiato sede. Lei, con una risata ci spiegava che aveva incontrato una vicina o un'amica e si era fermata a chiacchierare. Non avevamo dubbi che fosse così. L'armadio con i suoi vestiti, che preservavano ancora il suo profumo, i cassetti del comò, dove tutto era messo in ordine, parlavano di lei, della sua presenza, della sua storia. Era impossibile immaginare che non sarebbe tornata a indossarli, a provarli o a sistemarli secondo il cambio delle stagioni. Nei giorni che seguirono, i parenti vennero a farci le condoglianze. Accanto alla tazza di caffè, secondo l'usanza, mettevano una banconota. Ci chiesero dettagli, come a voler colmare la distanza insormontabile dei giorni in cui Sharon non era stata bene, quando le telefonate non avevano potuto trasmettere il dolore e le lacrime. Fu una vera sofferenza parlare di quegli episodi del passato, come viverli per la seconda volta. I negozi, il parrucchiere, le strade affollate e polverose della capitale, dove mia moglie aveva camminato, fatto degli acquisti, incontrato delle persone, riempito l'aria con le sue risate, non tenevano più le sue tracce. Le vie sembravano deserte e svuotate. Ma i ricordi dentro di noi, quelli, nessuno poteva cancellarli. Mentre io e Irma ci muovevamo come ombre per la casa, cercando il senso di questa nostra esistenza o semplicemente noi stessi, un giorno squillò il telefono: mia figlia doveva presentarsi all'Ambasciata d'Italia per ritirare il passaporto.
Il cuore più leggero.
Chissà quando torneremo di nuovo in questo appartamento! Lo pensavo sempre, con la preoccupazione che fosse vuoto, che nessuno aprisse la porta e che potesse crollare nella nostra assenza. In effetti, lo trovammo così: rimpicciolito, con i mobili che sembravano vecchi, il muro del balcone che cadeva a pezzi. Aprii i cassetti e fissai i vestiti di mia moglie. Mi doleva il cuore. Quando partimmo per l'Italia, nel marzo 2006, lei non poteva immaginare che non sarebbe mai più tornata a casa, nel suo amato Paese. Ma la vita è imprevedibile. Iniziammo a preparare le valigie. Presi degli album fotografici che riassumevano i frammenti dalla nostra vita, della prima giovinezza, della famiglia. Quelle immagini mi avvicinavano al tempo in cui eravamo tutti insieme e condividevamo viaggi e gioie. Quanto lontano quel periodo, quanto irraggiungibile! Mia figlia prese le magliette e alcuni vestiti di sua madre. Li guardò con attenzione, li piegò con cura e li mise in valigia. Avevano la stessa taglia ed ero convinto che le stessero bene. Ma forse voleva solo averli come ricordo. Decisi di non chiederglielo, bastava poco per rompere l'equilibro fragile di cui facevamo parte. Il viaggio di ritorno andò bene. Le ragazze ci aspettavano all'aeroporto con tanta nostalgia. Nei nostri abbracci si sentiva l'affetto e il bisogno di essere vicini gli uni agli altri. In quell'inizio di giugno il crepuscolo era pieno di luce e i colori, rosso e grigio, si disperdevano ovunque nel cielo. Sentivo l'Italia più vicina. Forse perché il corpo di mia moglie giaceva lì, o forse perché anche in quei luoghi avevamo le nostre memorie. Appena arrivati nel nostro appartamento cominciammo a svuotare le valigie. Avevamo il cuore un po' più leggero. Adesso possedevamo un documento e speravo di ottenere anch'io il permesso di soggiorno. Ciò significava che non avremmo più camminato per le strade con un senso di paura e insicurezza, non ci saremmo più sentiti come persone senza nome, ma soprattutto, se avessimo avuto nostalgia per la patria, saremmo sempre potuti tornare. A tarda notte, quando mi sdraiai, sentii su di me tutto il fardello degli ultimi tempi. Abbassai le palpebre e le conversazioni degli amici e conoscenti, le visite dei parenti, i viottoli del quartiere, il parco e il centro di Tirana con il viavai rumoroso delle macchine improvvisamente si trasformarono in ricordi. Stralci di sogni.
I viaggi in Albania sono diventati meno frequenti, anche perché i problemi di salute aumentano. Vado per ritirare quella piccola pensione, ma di più per la nostra casa, che ogni volta mi incute un po' di tristezza, perché la vedo sempre più fatiscente e in piena solitudine. Non c'è nessuno che vive lì, tranne i ricordi. Loro sono vividi come allora, durante la notte mi attaccano e non riesco a dormire. Le piastrelle del pavimento tengono i nostri passi, così nello spazio gironzolano le parole che abbiamo scambiato negli anni. C'è un grande quadro appeso sul muro del soggiorno dove si vede una casa su un'isola. Raffigurava il nostro sogno di vivere tutti insieme da qualche parte, lontano dalla realtà e dalla politica, in un mondo migliore. Infatti, noi ci siamo riuniti in un altro Paese, anche se questo sogno era effimero, non è durato a lungo. Nel novembre del 2012 tornai a Tirana con Leda. Il tempo era brutto e piovoso. Durante il volo ci fu una turbolenza abbastanza forte e lei, un po' impaurita, si appoggiò alla mia spalla. Desideravo tanto andare nel paese natale, passeggiare nei sentieri dove ero cresciuto, nella foresta dove correvo, circondato dagli alberi che mi avevano fatto compagnia negli anni difficili dell'infanzia, vedere il rubinetto, o quel che ne restava, ma non ci riuscii. Non so se fu per la mancanza di tempo o semplicemente perché non me la sentii di affrontare una marea di emozioni. Andai a Durazzo per incontrare mia sorella maggiore, Xhemile, che viveva lì con il figlio sposato e i nipoti. La vita l'ha messa di fronte a prove difficili, ma mi ha sempre voluto tanto bene. Non ci vedevamo da molti anni. Ci abbracciamo con grande emozione. Per sfortuna, ultimamente era diventata cieca. Si se- dette vicino a me, mi teneva la mano tra le sue e mi accarezzava, pronunciando parole di affetto. Mi disse che era contenta di avermi incontrato prima di morire. Mi commossi, sentendomi ancora quel bambino povero, orfano, ma sicuro vicino a lei che cercava di darmi tutto l'affetto e l'amore che mi mancava. I suoi occhi, che una volta mi guardavano con tenerezza, ora fissavano il vuoto, un punto nello spazio. Il suo cuore sentiva la mia presenza e l'affetto. Presi con me quel ritratto, pieno di rughe e bontà. Fu il nostro ultimo incontro. Camminai per le strade della città di Elbasan e rammentai il tempo in cui lavoravo come radiologo, il boulevard dove passeggiavo con Sharon e le nostre figlie, la via che percorrevo per andare all'ambulatorio centrale, l'appuntamento con i pazienti, le soddisfazioni di quella professione nobile. Andammo nella zona dello stadio, dove si trovava il palazzo a forma di L, dove io e mia moglie avevamo vissuto per anni e avevamo creato la nostra famiglia, dove le ragazze sono cresciute e si sono istruite. L'edificio numero 45 era sempre imponente e silenzioso, come allora, ma adesso sulle finestre si vedevano i condizionatori, cavi e fili elettrici che cercavano di spezzare la sua armonia. Di fronte resisteva appena un piccolo palazzo di due piani, che mostrava chiaramente le tracce del tempo. In quel cortile giocavano le nostre figlie e lì, sul parapetto del terzo piano, Sharon le chiamava o le scrutava senza distoglierle lo sguardo. Quanta nostalgia! Improvvisamente mi sembrarono stralci di sogni e non di una vita vissuta. Facevo i passi uno a uno come se sentissi il peso degli anni. Allora mi salutavano, mi chiamavano “dottore”, mentre in quei momenti non mi riconobbe nessuno; c'ero solo io, con mia figlia che mi seguiva dappertutto e cercava di ripescarmi dal flusso delle emozioni. Fotografai nella memoria ogni passeggiata, ogni impressione, perché non potevo sapere quando sarei tornato di nuovo o se quella fosse l'ultima volta. In questi anni, mentre ho preso appunti su questo taccuino, mi sono chiesto spesso: Riuscirò a finire questo diario? Adesso capisco che non sarò io a scrivere l'ultima parola, ma gli eventi, le circostanze, la vita stessa. Posso solo dire che tutte le memorie, le immagini, i genitori, la mia infanzia, l'amore per mia moglie e per le nostre figlie, per tutte le persone che mi hanno voluto bene, rimarranno vivi e respireranno insieme a me, finché chiuderò gli occhi.
Irma Kurti e Hasan Kurti
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