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Autore: Maura Mollo
L'Equazione profonda del Mare
Narrativa Erotica Umoristica
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L'Equazione profonda del Mare
Ritiro la mano. E un lungo e sofferto respiro mi esce dai polmoni, condito dagli occhi chiusi e da uno scossone della testa.
Sono disorientata.
Mi allontano.
Metto i gomiti sul tavolo e appoggio il mento fra le mani. I miei occhi guardano l'orizzonte, il mare. Ho bisogno di calmarmi e mettere in fila i pensieri.
Lui non lo sa e si preoccupa della mia reazione. Appoggia la sua mano sulla mia e mi accarezza per farmi stare meglio. Il suo pollice vezzeggia il mio polso, facendo su e giù lungo il nervo mediano.
Incredibile. Mi calmo.
Inclino leggermente la testa verso di lui e lo guardo.
Lui inspira e sorride, imbambolato sulla mia espressione imbronciata. Accorcia di nuovo la distanza fra i nostri visi. Sento il suo alito sulla faccia, mentre lui prende una boccata di ossigeno fra i miei capelli.
- Ho così tanta voglia di stringerti... -
Depongo le armi. Con questo mi ha messa al tappeto. Striscio sul ring fino ad aggrapparmi alle corde.
Per favore, qualcuno getti la spugna.
Tento l'ultima mossa. Poi giuro che mi arrendo.
- Non ti conosco. Non so nemmeno come ti chiami. Arrivi qui spavaldo e convinto. Mi baci come se fosse l'ultimo bacio sul pianeta. Mi riempi la testa di complimenti e moine e pretendi che io mi lanci fra le tue braccia solo perché sei bello da morire? Per cosa? Per ritrovarmi nel tuo letto? Una scopata è una scopata. Ti converrebbe semplicemente chiamare uno dei tanti numeri di telefono che ti hanno dato. Perché perdere tempo con me? Non ho vent'anni e gli ormoni assatanati. -
Mi fermo.
Cazzo, ho convinto persino me stessa! Tranne sul discorso ormoni. Quel bacio li ha purtroppo destabilizzati. Ma questo non lo confesserò mai.
Lui mi fissa. In silenzio. Aggiunge due tre centimetri alla nostra distanza e mi fulmina come fosse Zeus in persona.
Me, povera e misera mortale.
- Mi chiamo Daniel. Daniel Kurtz - inizia a sussurrare e io chiudo gli occhi. - Mia madre è italiana e mio padre americano. Questo spiega il cognome straniero. Ho quarantatré anni. Non sono arrivato qui spavaldo e convinto di farti quattro moine e portarti a letto. E sì, sono d'accordo, una scopata è una scopata. Per quello basterebbe senza dubbio uno dei numeri di telefono che mi hanno messo in tasca in questi giorni. Ma non è quello che voglio da te. Mi fido quando mi dici che non hai gli ormoni assatanati, ma il bacio che mi hai restituito non era da educanda. Questo mi fa dedurre che almeno un po' ti piaccio. Mi hai detto che sono bello da morire. Non lo so, ma tu non sei da meno. E i tuoi occhi mi confondono e mi fanno sentire un idiota. Perciò voglio conoscerti, perché quello che ho provato guardandoti e baciandoti non l'avevo mai provato in vita mia. E voglio capire. Voglio provarlo ancora. Non sto perdendo il mio tempo se è questo che ti preoccupa. Anzi, non l'ho mai impiegato così bene. Ci vorranno giorni mesi anni per riuscire a convincerti a darmi una possibilità? Non m'importa. Non è mia intenzione lasciar perdere. Il mio tempo è tuo. -
E io, muta!
Il mio io interiore ha appena fatto i bagagli e si è licenziato. Lo saluto con una pacca sulla spalla. Almeno ci abbiamo provato.
Apro gli occhi. È sempre a una distanza pericolosa, e mi guarda. Non so se ha voglia di baciarmi o prendermi a schiaffi.
Non so cosa dire. È stato più convincente di me. Dovrei dargli il mio portatile e chiedergli di finire lui il romanzo al posto mio. È decisamente bravo con le parole.
Mi arrendo.
Gli sorrido, stremata.
Mi schiocca un bacio sulla punta del naso e si alza.
- Ci facciamo quattro passi? - mi tende la mano.
Mi mordo il labbro. E con una smorfia di assenso mi alzo anch'io e ripongo tutta la mia roba da scrittrice disperata nelle borse.
Sono pronta.
Lui mi afferra la mano e parte.
- Hai un po' troppo peso sulle spalle. Il portatile lo prendo io. - non aspetta nemmeno una risposta, afferra la borsa porta pc e se la mette in spalla.
Mi stringe la mano e me l'accarezza. È una sensazione dannatamente piacevole.
Non chiedo nemmeno dove andiamo.
Camminiamo fianco a fianco. Lui con lo sguardo da Fabio Grosso ai rigori del 2006 che ci hanno consegnato la coppa del mondo, e io che sto ancora cercando di capire cos'è successo negli ultimi venti minuti.
- Non credi di dovermi dire qualcosa? -
Rimango perplessa a quella domanda. In questo momento potrei rivelargli anche il pin del mio conto in banca. Spero non si riferisca a quello.
- Ancora non mi hai detto come ti chiami. -
Ha davvero la capacità di farmi sentire un'imbecille. Stai tranquillo, la fascia da deficiente dell'anno è già mia, non è necessario ribadire il concetto.
- Mi chiamo Sara. Sara De Luna. E i miei genitori sono italiani. -
Sia chiaro, io la fascia da deficiente me la voglio tenere stretta.
Lui ride e mi molla la mano per abbracciarmi.
Mi sento vagamente rigida. Ma lui non si scompone e lascia il suo braccio sulle mie spalle mentre con la mano mi massaggia il deltoide.
Forse ho trovato il mio personal trainer.
A questo punto la mia spalla è sua.
Riassumiamo: mi ha toccato e accarezzato le mani, il mento, il viso, i capelli, e adesso le spalle con deltoide annesso. Ci “conosciamo” da circa venti minuti... fammi fare due conti... no, le statistiche non giocano a mio favore. Se continua così, fra due ore circa ricomincerà il giro sul mio corpo. Tanto più che sono molto più bassa di lui. Con il mio tascabile metro e sessanta gli arrivo giusto alla spalla.
Arriviamo verso la fine del lungomare. Finora non abbiamo parlato molto.
Spera di conoscermi telepaticamente?
Sara, smettila di farti domande, tanto finora non ne hai beccata una.
Vedo una panchina seminascosta dagli alberi.
Brivido.
Lo guardo per cercare di capire se la sta puntando.
Sì. Il suo sorriso Durban's lascia ben poco all'immaginazione.
E adesso? Che intenzioni ha? Qui c'è un po' troppa poca gente e quella panchina brilla come se avesse la scritta “pomiciare” sullo schienale. Sinceramente dubito che voglia raccontarmi la sua vita in stile Forrest Gump.
Mi blocco.
Ha capito che mi sento a disagio.
Io ho capito che lui ha capito. I miei piedi non si muovono più. Mi stringe la spalla per incoraggiarmi da bravo personal trainer qual è, e mi si avvicina all'orecchio.
- Puoi fidarti di me. Voglio solo stare un po' per i fatti nostri. -
A questo punto i miei piedi sono di cemento armato. Primo, il tono di voce che ha usato era identico a quello utilizzato da Ragetti per liberare Calypso dalla sua forma umana ne i pirati dei Caraibi. Secondo... c'era un secondo punto, ne sono sicura, ma l'ho completamente dimenticato.
Cazzo.
Quest'uomo mi sta mandando al manicomio. Mi costringo ad avanzare, ripetendomi che l'adolescenza l'ho superata e so ancora tenere a bada un maschio, anche se è figo come Daniel Kurtz.
Mi siedo sulla panchina con la borsa sulle gambe.
Ecco, sembro seduta in autobus. Dov'è il pulsante per chiamare la fermata?
Lui mi vede, sorride e fa finta di nulla.
Stronzo.
Si leva la borsa pc dalla spalla e si siede accanto a me. Mi prende la borsa dalle gambe e la sistema accanto a quella del pc, dal suo lato.
Grazie! E adesso, dove lo trovo Captain America per farmi prestare il suo scudo? In giro non c'è nessuno. Dio, mi sento tornata in prima elementare. Sola, di fronte a un insegnante che vuole vincere la mia timidezza e mi fa andare ancora di più nel pallone.
- Sei molto più agitata di prima. - commenta.
Ma va'! Mi sa che gli cedo la fascia da deficiente.
- Pensavo volessi passeggiare... non imboscarti. - reagisco.
Ma sì, chi se ne frega. Chiamiamo le cose col loro nome.
- Credi che ti abbia portata fin qui per approfittare di te? -
Se continua a prendermi per il culo gli tiro un pugno sul naso e lo stendo.
Il mio umore passa immediatamente da timida e spaventata bambina a Tyson-ti stacco l'orecchio.
Mi afferra le gambe e se le posiziona a mo' di coperta sulle sue. In questo modo la distanza fra noi è abbondante e mi sento più al sicuro. Naturalmente lui inizia ad accarezzarmi le gambe, per fortuna al sicuro nei pantaloni.
E così, anche le gambe si aggiungono alla nostra lista di parti del corpo toccate. Il tempo trascorso insieme è di soli trenta minuti circa.
Non la vedo bene.
- Tu non parli molto. - ha un tono ammaliante. Sorride.
Io non parlo molto? Io non faccio altro che parlare. Solo che non lo faccio ad alta voce. Poi, diciamocelo chiaro, sei tu quello che vuole conoscermi. Parla, chiedi, fai.
No, “fai” è meglio di no.
- Nemmeno tu parli moltissimo. Dimmi, cosa vuoi sapere? - e mi metto comoda. Mi lascio accarezzare le gambe e penso, ma sì, al limite mi rimette la lingua in bocca.
La cosa nemmeno mi dispiace.
- Vorrei tanto sapere cosa ti passa per la testa. Perché non parli con me, ad alta voce, invece di parlare fra te e te, di me. -
Cazzo.
Come fa a saperlo?
Sgrano gli occhi e divento un peperone. Per fortuna è sera e la luce sta scemando. Sono stata sgamata come una principiante. Presto Sara, corri ai ripari, corri ai ripari.

Maura Mollo

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