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Autore: Milka Gozzer
Le radici del muschio
romanzo
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Le radici del muschio
Quella notte una risata terribile lo svegliò di soprassalto come lo squarcio del fulmine in piena estate. Hector si drizzò turbato: non era superstizioso, però preferiva evitare di versare l'olio sul pavimento. Scalogna tremenda scalogna, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!, gli avrebbe detto Margherita, se fosse stata ancora accanto a lui. Il fuoco chiama le malelingue, ma una risata! Mai sentita una stranezza simile. Sto uscendo di cervello e arrivederci al secchio. I cassetti della mente quando sono colmi si aprono da soli e la roba comincia a rotolare dappertutto senza controllo.
Si alzò per bere un po' d'acqua. Lasciò vagare lo sguardo oltre la finestra: la luna splendeva placida, il profilo dei monti era nitido, in basso le luci dei lampioni di Borgoledo brillavano composte in fila indiana. “Zero temporali”, sospirò rimettendosi a letto. Con gli occhi spalancati in direzione del soffitto buio, ormai sveglio, si chiedeva cosa sarebbe accaduto. Da quando, tre mesi prima, era morto il suo datore di lavoro, il signor Polla, aspettava l'arrivo di una notifica di sgombero. Se n'era andato senza lasciare disposizioni, neanche un pezzo di carta per dire che Hector gli era stato fedele come ucane per quasi trent'anni.
A Borgoledo la gente chiacchierava di un'erede. La figlia di una parente dei Polla, dicevano, era in procinto di presentarsi lì per vendere la villa con il resto della proprietà, compresa la casa dove lui viveva, e liquidare senza tanti complimenti “quel segaiolo del polacco”, così lo chiamavano in paese. Borgoledo non era il suo villaggio natio, ma gli era sempre piaciuto. Non avrebbe saputo immaginare un altro luogo dove vivere dopo tanti anni passati alla Palazzina, accanto ai suoi padroni.
Adesso avvertiva il desiderio di Margherita. Se fosse stata accanto a lui, nel suo letto, si sarebbe sentito sicuro e avrebbe affrontato audace qualsiasi ostacolo. Certo, anche la notifica di sgombero della figlia della parente dei Polla. Forse quella risata che l'aveva svegliato nel cuore della notte dipendeva dal desiderio di Margherita. Un desiderio può trasformarsi in una fissazione e le fissazioni non portano nulla di buono.
Quel risveglio – una risata! – gli rodeva lo stomaco.

[...]
Che cosa disse il signor Polla al pranzo di nozze di Domenico, il miglior amico di Hector, in quel sabato pomeriggio, non se lo sarebbe ricordato nessuno, ma non era questa la questione importante.
Che valore aveva il significato delle parole? Ciò che contava era l'atto: non tutti avrebbero potuto pronunciare un discorso, nessuno a Borgoledo aveva terra, denaro, autorità come l'invitato che si mise a parlare. L'oratoria di un uomo si misurava con il valore simbolico che gli veniva attribuito.
Il Duce rappresentava un uomo oltre la legge. Anche per questa ragione era invitato ai matrimoni, ai battesimi, alle cresime, alle feste di ogni occasione. Il primo invito veniva spedito a lui e la sua presenza, o la sua assenza, avrebbe fatto parlare più della festa in sé.
Si dà il caso che in quel periodo si sentisse in forma gagliarda. La fama dei vini che produceva aveva consacrato la sua già solida sicurezza di uomo tutto d'un pezzo, che nulla teme perché per ogni problema ha sempre pronta la soluzione adatta.
Quando qualcuno vede aumentare il proprio potere, tende a essere munifico, non tanto per disinteressata generosità, ma per avvalorare la tesi secondo cui un atto di magnificenza serve per ribadire la grandezza del signore e l'insignificanza del resto del mondo.
Il signor Polla era convinto di dover dare un senso alla vita degli altri. È anche per tale intima certezza che cominciò il suo discorso con la prima persona singolare e non l'abbandonò fino al termine della sua oratoria, quando comparvero “gli sposi”, relegati grammaticalmente a complemento oggetto.
Questi ultimi si alzarono in piedi, e con loro tutti gli altri invitati, come in un'ola da stadio. Ci fu un lungo applauso, dal quale si astenne la prozia sorda che si era appisolata sulla sedia. La madre di Mita si sporse leggermente per nasconderla. L'illustre oratore non avrebbe comunque potuto scorgerla, perché si trovava nella parte più centrale della sala, al tavolo di testa degli sposi con la moglie accanto.
Isabella Polla partecipava raramente a tali occasioni. I suoi rapporti con la gente di Borgoledo erano cordiali, ma non sentiva il desiderio di approfondirli. Decise di prendere parte a quel matrimonio per un motivo che il marito non avrebbe compreso.
Non si trattava in realtà di una ragione precisa, quanto piuttosto di un sentimento vago che provava nei riguardi di Hector.

[...]
“Tu ci capisci di sogni?”
“I sogni sono la nostra esistenza parallela, quando sei lì ti ricordi della parte di qua e viceversa. Però i frammenti che compongono la struttura dei sogni, il linguaggio, lo spazio e il tempo sono diversi... perciò è difficile comprenderli, perché rispondono... ehm, a regole diverse”, rispose Mita togliendosi il grembiule.
“Ho sentito una risata.”
“Suona divertente. Ridere nei sogni, sognare qualcuno che ride... può essere che pensi che qualcuno rida di te.”
Hector ebbe un moto di impazienza. “Non c'era nessuno che rideva!”
Mita si volse a guardarlo. “Una risata può avere tanti significati. Ridere a bocca spalancata oppure ridere a denti stretti: il significato è diverso. Era di un uomo o di una donna?”
“Di un uomo, credo.”
Mita rifletté un istante. “Il riso femminile e quello maschile inviano messaggi differenti. Servono più parole per spiegare il riso che per il suo opposto, il pianto. Ridiamo per motivi diversi. Il riso talvolta è molto amaro. Il confine tra allegria e tristezza può essere tanto sottile da annullarsi. Ti è parsa una risata di puro divertimento, oppure sarcastica, beffarda, o una risata gioiosa? È una questione di tono. Fa differenza, a seconda del suono cambia il significato.”
“Era forte. Un tuono! Mi rimbomba ancora nelle orecchie!”
“In effetti, ci sono anche risate liberatorie. Forse trattieni qualcosa che preme per uscire, un sentimento intrappolato, e quando esce – bum! – provoca uno scoppio.”
“Ho acceso la luce e ho controllato sotto il letto... sai, a volte ti fanno certi scherzi... Sono venuto qui in cucina. L'altra notte ho fatto il giro della casa. Sono un idiota.”
“I sogni seriali lasciano una sensazione spiacevole. È come se ti arrivasse continuamente lo stesso messaggio da decifrare. Forse stai vivendo nel sogno una condizione che non riesci a risolvere.”
Hector annuì.
Mita rovistò nella sua sacca di stoffa consunta. “Ho dimenticato le carte nel salone rosso, quando è arrivata la signora. Dici che domani potrò passare a prenderle?”
“Ma è ovvio!”
“Parlerai con la signora?”
“È difficile fare discorsi”, rispose Hector massaggiandosi la nuca. “Il giusto sarebbe cominciare dal principio, ma la storia è lunga da raccontare a un'estranea.”
“Anch'io ho difficoltà a parlare”, convenne Mita.
Rimasero in silenzio come due amici solidali con la reciproca solitudine.”

[...]
Il prato incolto era stato rivoltato e si apriva alla vista disegnando buche discontinue. Un fronte di terra e di sassi lambiva a L il perimetro. L'area attorno alla villa era stata recintata. I ragazzini di Borgoledo salivano per arrampicarsi sulla rete, e restavano lì a dondolarsi e a guardare le ruspe e gli uomini con le orecchie protette da cuffie enormi. In certi punti, le fosse misuravano più di due metri.
Era affiorato un masso gigantesco, che richiese un giorno di lavoro per cavarlo dal terreno. Fu necessario ricorrere a un escavatore di grossa taglia con l'attrezzatura per sollevarlo e a un autocarro per trasportare la grande pietra, che lasciò nel terreno la forma di una caverna. Il macigno sfilò per la strada stretta di Borgoledo come un mostro minerale in gabbia. Venne alla luce un reticolo di fondamenta in pietra, una rete di canali che in passato servivano per il passaggio dell'acqua alle colture.
Sotto quel prato doveva esserci stato un giardino. E ben architettato! Gli scavi rintracciarono tubature di rame che aumentarono le sorprese e rallentarono i lavori. Emerse una rete idrica parallela.
Ma la parte più stupefacente fu il ritrovamento di una sorgente.
Era una fonte generosa da cui sgorgava acqua tiepida. Hector dovette intraprendere una complessa procedura burocratica presso l'ente idrico territoriale per legittimarne la proprietà. Non aveva neanche il tempo di respirare per stare al passo con le scadenze burocratiche e l'andamento dei lavori del giardino. La nipote del signor Polla al contrario se ne disinteressava completamente.
Il polacco aveva molte ragioni per rimpiangere il Duce. Di carattere non era mai stato un decisionista. Decidere era più complicato che eseguire. Un sistema ordinato costituiva il suo ideale esistenziale, era stato così fin da ragazzo.
Mise a punto un progetto del giardino. Disegnò uno schema di piantumazione in file regolari all'interno di aiuole quadrangolari; poiché il terreno era in lieve pendenza pianificò terrazzamenti sostenuti da un fronte basso per impedire dispersioni d'acqua: era il minimo per ottenere la resa degli alberi.
Prevedeva già le obiezioni di Daniela. Le vedute della nipote del Duce gli erano oscure. Troppi “forse” nei ragionamenti di quella donna. Un giardino forse privo di recinti, forse con le vasche, forse con le fontane o forse con i canali. Che diavolo vuole, un giardino dello smarrimento!?
Omar e Mita erano rintanati tutto il giorno nel salone rosso. Facevano tante storie per non muovere un dito. Il giorno che li aveva messi al corrente del macigno di due metri di diametro da spostare, avevano alzato le spalle come di fronte a un'inezia paragonata a quanto accadeva dentro quel computer.
“Buonasera a tutti”, disse Hector entrando nella stanza.
Omar si alzò come una molla. “Vado a prendere le pizze. Che volete?”
Il polacco si abbandonò su una sedia dopo averla liberata da una t-shirt stropicciata. Gli rivolse uno sguardo vuoto. Al termine di una giornata di lavoro, la prospettiva di una pizza era sconsolante. Un sostanzioso piatto di polpette al sugo, ecco, questo gli ci voleva, altro che la pizza rinsecchita nel cartone! E gli ci voleva una bella bevuta, per distrarsi, in trattoria con il suo amico Domenico, a raccontargli di quanto aveva dovuto faticare per liberarsi di quel masso. Ma soprattutto a dedurre la logica della fonte di acqua misteriosa: la sorgente rinvenuta tra gli scavi, un vero mistero. E poi a sfogarsi di quanto l'avevano fatto tribolare quelli dell'ente territoriale. Si passò una mano sulla fronte con gli occhi fissi alla cintola dei calzoni di Omar, che stava oltrepassando le natiche, diretta mollemente verso il basso.
Pensava con tristezza che avrebbe dovuto restare lì a rosicchiare pizza secca e presenziare a un'altra – come le chiamava la nipote del Duce? – riunione strategica per decidere il futuro giardino. Santo cielo! Era un uomo di azione, per quel giorno aveva già dato. La sera era fatta per rilassarsi, bere in compagnia, a mille chilometri dalle conversazioni enigmatiche. Non gli importava un fico secco delle adesioni al sito, delle chat, delle email, dei dibattiti di amici e nemici che manco conosceva. Questioni senza senso. Avvertì la pesantezza calare sul callo del piede sinistro.
Il cellulare di Omar vibrò. “Porto cibo per tutti: state all'erta”, lesse Omar, felice. Era un messaggio di Daniela.

Milka Gozzer

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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