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Autore: Luca Inglese
Sette corvi per sette anime
Storico Fantasy
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Sette corvi per sette anime
“Sotto l'Antico patto, Dio predisse il ritorno alla vita dei morti. Di coloro che furono martiri e giusti, saranno su questa stessa terra i nuovi governatori. E di coloro che furono ingiusti, saranno su questa stessa terra i governati. Votati all'espiazione delle colpe da loro attuate, durante il corso della loro precedente e miserabile vita”.

Esiste una teoria o di essa un credo, nel quale il cristianesimo ripone profonde radici avvinghiate saldamente agli albori della sua origine. A quei tempi venne affrontata e annunciata a tutti i popoli, la resurrezione delle anime, ma di tale credo, pare, esista in contrapposizione una diversa corrente di pensiero, rispetto a quanto scritto e annunciato. Essa affiora e passa di bocca in bocca, come una leggenda solamente bisbigliata e mai di fatto tracciata su carta, poiché intesa come blasfemia o pura e sacrosanta ipocrisia. Essa pare offrire una visione parallela a quest'unica comune ideologia. Per molti solamente frutto di una mente assai fantasiosa e poco credente. Per pochi infinitamente più concreta e veritiera dell'identica roccia sopra la quale noi tutti, oggi come allora, poggiamo i nostri calzari sin dall'alba della nostra creazione. Essa trae sostanza e linfa dal dolore più abbietto e atroce che essere umano possa mai arrivare a patire in vita. La tal condizione parrebbe attuarsi, solo, qualora un alito di vita risulti strappato dal petto di un tal giovine. Da colui il quale, sebbene acerbo e martirizzato, risulti pronto alla lotta e alla battaglia, impegnando in tal frangente ogni singola molecola del proprio corpo.
Siffatto eroe paratosi un giorno d'innanzi a codesto mostro, giunto qui (ora) ad usurparne la di lui libertà, e delle genti allo stesso annesse. Risulti poi perire inevitabilmente in maniera atroce e vile. E dopo tale sacrificio dello stesso misero corpo venga poi fatto appunto scempio e vilipendio. Tutto questo, mentre l'eroe in questione risulti difendere con il proprio corpo e con il medesimo sangue, l'incolumità dei suoi fratelli ed amici. E in tal senso, abbia poi terminato per volere altrui la propria esistenza, senza prima aver potuto gustare nella bocca, il piacere effimero ma veritiero, concesso solo e soltanto quando la vita risulti vissuta o sorseggiata goccia a goccia. Centellinata. Seguendo il giusto tempo nella giusta misura. Solo in tal senso parrebbe manifestarsi, nella tal leggenda, l'approssimarsi di codesta remota ma plausibile opportunità, concessa (si pensa) per volontà o misericordia, a pochi, pochissimi esseri mortali, caduti nella tal contingente esigenza, e poi - un istante dopo - appagati per questa loro accorata supplica elevata all'altissimo.
Fantasia o mito che parrebbe mai (negli scritti) trovare traccia o verità, oppure prove capaci di concretare siffatto accadimento o teoria, giudicata ancora e da molti, puro frutto di blasfema o ipocrita megalomania.
Nella tal leggenda però, verrebbe affrontata la remota possibilità che avrebbe, codesta anima, di trascendere la morte mutando l'unico volere presente nelle scritture, sostituendosi al destino oramai tracciato per gli altrui esseri, ritenuti d'innanzi all'altissimo “gli Ingiusti”, e in tal senso frapporsi all'espiazione delle colpe, oggi, spettanti a codeste vili carogne.
L'assolvimento delle condanne, quindi, sarebbe dunque commutata dall'avvento di codesti angeli ridiscesi in terra, già pronti a sostituirsi nei doveri di coloro i quali, all'epoca, furono in vita i loro aguzzini e carnefici.
Se si presta attenzione ed orecchi a tale diceria, parrebbe dunque possibile fare ritorno alla vita, al posto dei propri assassini, per espiarne le loro colpe e annessi peccati, tramutando però tale condanna e correlata maledizione, in un potere infinitamente più elevato e puro, messo quindi a disposizione della loro intera comunità, qui ivi ancora residente e di loro “piangente”. A disposizione dei loro discendenti, tuttora di loro ancora in lacrime per l'evidente e prematura dipartita. Come fossero questi i figli ed eredi di tali e cotanti martiri.
Se quindi quanto detto accadesse, per tali anime sarebbe appunto concesso ancora esistere. Offrendo così, con il loro ritorno, sostegno e conforto ad amici e parenti, oltre alla protezione che ciascuno di quei cuori (afflitti e putrefatti) andrebbero ancora cercando. E verso questi vegliare come fossero sentinelle, silenziose, pronte a difendere ancora una volta il sangue del loro sangue, questo, per generazioni e generazioni sino alla totale espiazione dei peccati a suo tempo attuati dall'altrui essere, qui, ritenuto meschino ed abbietto perché giudicato “ingiusto”.
L'anima dunque, verrebbe a riaffiorare in terra per essere votata al riparo e tutela di ogni ed eventuale torto o sciagura, che qui potesse mai manifestarsi da quel giorno in avanti. Sarebbero dunque apparsi, in tal senso, ulteriori occhi - vigili, pronti e onnipresenti, offerti a supporto del creatore, e per lui omaggiati a sua esclusiva disposizione.
In tale senso, sembrerebbe possibile persino barattare la propria anima, o per lo meno di essa il corpo. Ormai martoriato e non più servibile. Riuscendo a strappare un biglietto immediato di trasmigrazione verso il corpo di un altro essere vivente, ritenuto idoneo e congruo a codesto uso, come parrebbe ad esempio, essere quello di un animale. Valutato agile, scattante e pronto all'occorrenza a librarsi in cielo come solo un paladino risulti fare.
Forma scelta alla bisogna, ma ahimè, incapace di comunicare con chi, qui, rammenti ancora il loro ricordo. Ciò nonostante. Essere ancora presente e a loro accanto. Come solo un angelo custode risulti fare, ma questa volta concreto e non più astratto e immateriale. Presente da ora e per tutto il tempo che vi risulterà necessario, testimone immortale incapace di essere scalfito, né dal tempo, né tanto meno dalla morte, poiché ai tempi già soddisfatta a sufficienza del banchetto offertogli dalla loro misera carne.
L'unica reale possibilità che parrebbe concessa a codesti esseri paranormali (da tutti oramai accomunabili a veri e propri eroi), volta a comunicare con il mondo esterno. Parrebbe possibile solo attraverso le labbra di un testimone. Di un mortale tuttora e ancora vivo, che all'epoca dei fatti fosse anch'egli presente con i propri occhi puntati d'innanzi al loro eccidio, e poi verso di loro compartecipe del dolore ai medesimi paladini inferto. Solo in tal senso potrebbe rappresentare il ponte tra loro e noi, e quindi capace di udire le voci dei vivi e dei morti, e verso gli stessi esserne legato indissolubilmente come radici protese in terra. Poiché esso sarebbe a loro collegato come il sangue di un fratello si lega al sangue di un altro fratello. Il tal mortale verrebbe dunque investito da quel momento in poi, di ogni potere e voce su queste cosiddette anime, poiché Dio medesimo risulti averlo scelto, collegato e interconnesso tra questo mondo e quell'altro.
Tutto quanto parrebbe trovare il giusto incasella-mento nell'ideologia della trasmigrazione che l'anima avrebbe, di mutare dunque domicilio e residenza sino ad assumerne un altrui forma e natura, ma sempre viva e vegeta e inoltre dotata di memoria storica della loro precedente esistenza. Purtroppo ora già trascorsa ma ancora presente e viva dentro il loro cuore. Innestata per l'appunto per volere di un Dio e impressa nel loro DNA, come fosse il chiodo romano conficcato nelle carni di un mortale, oppure, da quel momento in poi diventare anch'esso un essere cosiddetto “paranormale”.
Durante il tempo di tali opere ed eventi le anime di chi, invece, al tempo ebbero a commettere siffatti ed efferati delitti, sarebbero invece state recluse e confinate in un luogo ben preciso, in attesa che potesse giungere un giorno (anche per loro), quella tanto agognata pace e libertà. Concessa solo a concepimento dei loro errori al tempo commessi quando erano ancora in vita, ma per tutto quel frangente, reclusi e imprigionati in un luogo posto alla mercé di venti e soprattutto, di tali e cotanti eventi.
Sarebbero state quindi condannate al patimento di una vita da condividere soltanto con i loro occhi, come anime in pena quali di fatto loro apparivano, essere avvolte nel silenzio e nel peregrinare della loro esistenza, in codesto preciso angolo di mondo.
Gli “ingiusti” sarebbero stati dunque testimoni visivi e coscienti, confinati nel tal luogo, dove l'unico compito a loro assegnato sarebbe stato quello di metabolizzare le loro colpe e abbracciare quel pentimento, che al seguito, si sperava sarebbe giunto anche per loro. Un giorno. Forse.
Fantasmi viventi, visibili da quell'unico testimone prescelto all'origine dei fatti, poiché designato loro quale unico custode e padrone, ecco pertanto come risulti concepita o pensata la tal leggenda. Intesa. Come le due facce di un'identica medaglia. Quasi come fossero due famiglie ancora in lotta tra loro, frapposte, come l'odio storico dei Montecchi e di cotanti Capuleti. Tutto quanto sino allo scadere di siffatta ed efferata maledizione.


















CAPITOLO 1 – UNO STRANO RINTOCCO
CHIESA DI SANTO STEFANO - POCO TEMPO FA

Don Daniele era un uomo alto e robusto, tanto quanto poteva apparire la roccia della più imponente montagna del settentrione. Questo pretonzolo di campagna, giovane e aitante, risultava possedere un'unica indiscussa caratteristica, oltre alla sua naturale propensione a predicare la parola del Signore. Egli adorava senz'altro e oltre ogni cosa poltrire, sonnecchiare e ammuffire nel suo letto. Praticava, codesto sport, sin quando il sole ormai alto in cielo, preoccupato, iniziava a domandarsi: - Diamine, ma che fine ha fatto Don Daniele? -
Se di primo mattino qualcuno avesse manifestato l'eventuale esigenza di interloquire con il tal soggetto, poteva di certo trovarlo ancora affusolato sopra la sua branda come fosse un gatto ancora in procinto di fare le fusa.
Quel mattino, però, al tal pastore qualcosa doveva essergli andato storto, data la levataccia che la qui presente pecorella del Signore s'era vista costretta a fare. Persino il sole, vedendolo sortire così presto, sembrò incerto se domandargli oppure no, su cosa gli stesse capitando.
Daniele infatti aveva lasciato il suo letto ancora mezzo sfatto con l'intenzione di recarsi in visita (per la prima volta in vita sua) in cima alla torre addossata alla chiesa di Santo Stefano. Edificio o tempio del quale, lui, oggi, ne era finalmente l'indiscusso custode e annesso curato.
Lo era diventato, curato, certamente per successione, ereditando codesta carica in seguito alla dipartita del suo predecessore, il buon Don Natale Romildo.
L'edificio di antica formazione venne eretto, proprio lì, da mani sapienti e coscienti, all'interno di un territorio che, nei secoli, venne in seguito ad essere nominato: Cameriano.
Questo, di fatto, sembrava essere per molti e senza ombra di dubbio, un grazioso paesino di campagna, sorto ai piedi della grande e abbagliante città conosciuta in ogni angolo di mondo come Novara, e distante da essa solamente una manciata di chilometri. Poco o niente da quello che sembrava essere a tutti gli effetti, un groviglio di strade e di palazzi scintillanti, il cui luogo era il fulcro ed il regime di ogni attività, evento o credo, valevole e dittatoriale per l'intera provincia sparsa tutt'intorno.
Il povero Don Daniele, dopo una turbolenta notte trascorsa a girarsi e a rigirarsi da una parte all'altra del suo letto, arcistufo di rimanere sospeso in un dormiveglia inconcludente, s'era alzato borbottando parole incomprensibili.
Forse quell'inconsueta e anomala serata poteva trovare collegamento e ragione, nel sogno alquanto strano che la sua mente bislacca e arzigogolata aveva pensato bene di concedergli come intrattenimento notturno.
L'impressione di quanto immaginava aver visto, al risveglio, aveva ancor più accresciuto in lui l'esigenza di darsi una mossa.
Alle prime luci dell'alba, quindi, prendendo consapevolezza di ogni cosa, sebbene sembrasse reduce da una notte di bagordi e gozzoviglie, il pover'uomo cercò in qualche modo di alzarsi. Per qualche interminabile istante e ancora barcollante, fu però costretto a rimanere seduto, confuso, ubriaco e mezzo dolorante, per rendicontare a sé stesso quanto ipotizzava aver visto, oppure, semmai, immaginato di vedere. Per non parlare poi della sua povera schiena, ancora tutta rattrappita a causa della lotta intrapresa per ore e ore, con il cuscino.
Durante la notte (in verità), quell'anima in pena non riuscì mai ad agguantare un attimo di pace. Quel riposo che il suo corpo, sovente, era abituato a cogliere e gustare come fosse un bicchiere di vino al termine di un buon pasto.
Durante lo spazio temporale che risultò intercorrere tra il tramonto e l'alba, ciò che rimase impresso nella sua memoria parve determinare, per lui, i connotati del suo allucinante incubo. Sogno, nel quale la ricorrente immagine del povero Don Natale Romildo, suo predecessore, sembrava essersi guadagnata a tutti gli effetti l'indiscussa carica di protagonista.
Proprio quel parroco poi, che in quel preciso luogo aveva indossato i suoi identici panni per molti anni prima di lui, e verso il quale, Daniele, aveva sin da subito nutrito un profondo rispetto e senso di devozione.
Don Natale Romildo, in quel paese, aveva trascorso praticamente l'intera esistenza sin dall'inizio della sua carriera di predicatore. Ciò, sino al termine della sua vita condotta da comune mortale quale era. Era stato di fatti e a tutti gli effetti, l'unico curato della parrocchia di Cameriano a partire dagli anni 40 e sino a pochi attimi prima di mollare gli ormeggi, per giungere su altri lidi e verso altri mondi.
Parroco di uno dei borghi facenti parte integrante di un territorio ben più ampio, poiché fetta di un'unica torta riconducibile senz'altro al borgo di Casalino, distante soltanto pochi chilometri dallo stesso paesino. Gli altri nuclei, tra cui appunto Cameriano, invece, ne erano solamente le frazioni dello stesso, ma correlate ed agganciate al medesimo dall'origine dei tempi in cui, tutti loro, ebbero a gettare in terra le rispettive fondamenta, poiché forgiati come satelliti destinati a ruotare attorno al loro unico sole.
Nel sogno riusciva distintamente a rammentare il suo collega, in piedi e intento a sbracciarsi come un forsennato. Il pover'uomo, con ancora indosso la sua tunica d'ordinanza e con il viso paonazzo per lo sforzo, tentava invano di attrarre la sua attenzione. Se ne stava appollaiato come un uccello, lassù, in cima alla torre campanaria di Santo Stefano a Cameriano. Ad immaginarlo, lo vedeva tutt'ora urlargli parole prive di senso.
Per ironia della sorte, proprio quella costruzione sembrava essere, oggi, l'identico obiettivo che il tal soggetto era indaffarato a raggiungere. Sebbene Daniele quella mattina avesse giustificato l'esigenza di recarsi nel tal posto, per motivazioni di tutt'altra natura, forse... non era stato del tutto onesto con sé stesso. La curiosità spingeva quel prete di campagna a muovere i suoi passi un po' più veloci del solito.
Mentre stava coprendo il tragitto dalla sua abitazione alla chiesa distante solo un centinaio di metri, Daniele non poté fare a meno di ripensare a quella strana visione apparsa nel suo sogno. E nella tal questione, alle parole che invano e disperatamente aveva tentato di fargli udire.
Quell'immagine offuscata sembrava rammentargli uno di quei vecchi film privi di audio, dove i personaggi, chiaramente muti, riuscivano comunque a dialogare fra loro grazie a dei cartelli tirati fuori di tanto in tanto e fra uno spezzone e l'altro, per dare maggior senso e risalto all'intera vicenda.
Il poveretto, ormai De Cuius, aveva continuato per tutto il tempo ad agitare le braccia invano e da una parte all'altra come un forsennato, nella speranza di far comunque comprendere al suo successore ciò che le sue labbra desiderassero ardentemente dirgli.
Smaltiti i postumi della nottata appena trascorsa e desideroso, oltre misura, di far ritorno quanto prima alle sue faccende quotidiane, si era finalmente imposto di recarsi subito nel tal sito, per verificare di persona il funzionamento delle sue campane. Esse, infatti, erano lì piantate dalla notte dei tempi, sin dal primo giorno in cui Cameriano ricevette in dono quella bellissima chiesa.
Ora, di fatto, essendo libero da ogni impedimento in precedenza impostogli, poteva finalmente appurare quale fosse l'origine dei problemi che recentemente, stonando, le facevano sembrare scordate come una vecchia chitarra abbandonata.
Non gli era stato possibile verificare prima quel disservizio, perché il suo predecessore aveva imposto a tutti, lui compreso, il divieto assoluto di accedervi. Infatti, era sempre stata molto chiara la sua contrarietà affinchè nessun altro al di fuori di lui non avesse il permesso di salirvi.
L'allora custode, però, allo stato attuale non ora più presente tra i vivi e pertanto ogni vincolo in precedenza imposto, era crollato a terra come i blocchi di cemento che ressero in passato il ben noto muro di Berlino.
Da qualche tempo ormai aveva l'impressione che giungessero da lassù dei suoni stonati e un tantinello fuori dall'ordinario. Non sempre, certo, ma ogni tanto quel loro squillare gli faceva storcere il naso.
Oramai conosceva quel suono a menadito.
Era abituato a udirle e ad apprezzarle come fossero parte integrante del suo corpo. La melodia, come un canto di donna, aveva scandito e accompagnato il suo quotidiano operare giorno dopo giorno, rendendo quelle quattro mura infinitamente più familiari e care di quanto potesse essere la sua vera casa.
Quelle campane, infatti, erano parte viva e pulsante della sua vita e della sua idea di famiglia, come la campanella che sanciva il termine della lezione per l'intera scolaresca, esse segnavano per Daniele quando mettersi al lavoro e quando, con il giungere del tramonto, prendersi una meritata pausa.
Erano per lui gioia pura forgiata nel metallo e nel ferro, riposta a decine di metri sopra la sua testa e sempre presenti qualunque cosa accadesse.
Doveva dunque fare qualcosa.
Non aveva mai potuto apprenderne il funzionamento prima, per i motivi già in precedenza indicati, ma adesso certo che sì. Ed ecco il perché ci stava andando.
La sua venuta in quel di Cameriano, mesi or sono, avvenne per esigenza della curia ma non certo per piacere del suo predecessore.
Per colpa di un cuore ballerino e anche un po' malandato, il povero Don Natale Romildo fu costretto a mollare parzialmente le redini del comando, quando i capi di Novara decisero, per il suo bene, di affiancargli un giovane fresco fresco di seminario, quale per l'appunto era Don Daniele.
Avvenne pertanto che il curato di Cameriano si vede quindi accostare, un tal dì, un certo ragazzotto gentile e premuroso, come una tata o una badante.
I suoi superiori l'avevano spedito qui, da lui, sotto forma di apprendista e aiutante tutto fare, affinchè in tal modo potesse apprendere da Natale, mentre lui, intanto, meglio prendersi cura della sua persona.
Ma il povero curato, iracondo e scorbutico, sebbene a collo storto dovette accettare quel dono, anche per non incappare in guai e rogne ben peggiori di quelle.
Don Natale Romildo era sì un anziano ultra ottantenne, ma a tutti gli effetti e ancora, un osso duro e coriaceo da spezzare. Poco incline ad assecondare il volere altrui e tanto meno a subirne gli influssi. Ecco perché, testardo come un mulo, era vissuto in quei luoghi sempre e soltanto facendo i conti con la sua solitudine. Sebbene fosse amato, coccolato e circondato dall'amore dei suoi parrocchiani, ad un certo punto, con la ragione che iniziava a vacillargli in seno, sovente i suoi amici lo avevano visto parlare tra sé e sé ad alta voce, come se lì attorno ci fosse qualcuno o qualcosa con cui valesse la pena dialogare, e a volte, persino litigare. Come spesso accade in questi casi, l'abitudine placa sempre l'approssimarsi di atteggiamenti giudicati all'inizio un po' strani e bizzarri, infatti, con il tempo e con l'avanzare dell'età, tutti arrivarono ad assecondare tali tendenze e in seguito, con il mutare delle stagioni e degli anni venuti al seguito, persino a non dargli nemmeno un gran peso. Pertanto, per la maggior parte di chi lo conosceva bene, era consueto e anche scontato scorgerlo all'angolo della piazza Castello, collocata a lato della chiesa, oppure di fronte alla piazza prospiciente le Scuole Elementari, indaffarato a parlare al vento, su questo o su quell'altro fatto.
Solo settant'anni prima, si fa per dire, anche Don Natale era giunto a Cameriano investito della carica che ancor oggi, dopo tutto quel mare di tempo, sembrava ancora deciso ad assolvere. E sempre qui, lui, aveva preteso di terminare la sua vita.
A nulla servirono le varie offerte avanzate dai suoi colleghi che lo volevano operativo in altre fazioni, ben più affollate e prestigiose come ad esempio in una delle grandi parrocchie presenti nella città di Novara, oppure dove lui, semmai, ritenesse meglio essere collocato.
Niente da fare. Qui egli desiderava restare, e qui lui alla fine ci sarebbe rimasto sino a che Dio, in persona, non fosse venuto a prenderlo.
- Muoia Sansone e tutti i Filistei! Cascasse il cielo, l'universo e tutto il resto del Cremlino! Il sottoscritto, da qui, non si muove, neanche se dovesse venire il Papà in persona a bussare alla mia porta! Questa è casa mia e questa, oramai, è la mia gente. Cribbio. Io qui resterò. -
D'altronde neanche Don Daniele poteva fargliene una colpa. Chissà cosa poi, la sua povera vita di prete di campagna aveva posto d'innanzi ai suoi occhi. Basti pensare che l'uomo in questione era già qui, presente ed officiante, pronto a professare la parola del Signore, quando in quel paese era in corso la seconda guerra mondiale. Aveva lui certamente conosciuto l'orrore e le brutalità del nazismo, e per colpa dello stesso seme all'epoca qui piantato, l'agghiacciante terrore che pareva scivolare lungo la schiena di chi, a quel tempo, veniva perseguitato e poi trucidato.
In quegli anni di certo oscuri come la notte, molti furono gli aneddoti e gli assassini perpetrati a danno dei figli di quell'identica terra. Basti pensare alle campagne circostanti Casalino. Luoghi, quelli, nei quali ancor oggi come allora, la terra è inzuppata del sangue dei suoi martiri, quali figli chiamati all'epoca “Partigiani”.
Persino nei libri di storia risulta possibile rinvenire episodi e descrizioni di fatti e aneddoti ai quali, quei poveretti, ebbero a quel tempo a patire lottando con il cuore e con l'anima sino allo stremo delle forze. Tutto questo, per tutelare e difendere l'incolumità delle famiglie qui residenti, o dislocate in ogni borgo riconducibile al Comune di Casalino.
Lui medesimo era stato uno dei precursori, nonchè dei sobillatori di chi all'epoca ebbe a contrastare l'operato di cotanto nemico.
Quell'uomo vestito di nero e dal colletto bianco, parve al tempo boicottare l'operato di un mostro o di un animale giunto qui, usurpatore, in cerca di libertà altrui. Propenso ad arraffare e sottrarre la terra ai suoi legittimi proprietari.
Natale e non solo, all'epoca adoperò ogni mezzo in suo possesso, lecito e illecito, per il solo fine di non dargliela vinta a quel popolo di senza Dio. Di quella gente che all'epoca dei fatti, sembrava qui giungere per appagare la sua follia e l'annessa pazzia, sorseggiando il sangue di queste povere genti come fosse il nettare più prelibato del mondo.
Ribelle tra i ribelli, qui, lui, era pronto all'occorrenza ad offrire cure e un rifugio sicuro, lontano dalla baionetta nemica, per coloro i quali lo richiedessero dopo essere sfuggiti o additati come i nemici dell'esercito tedesco e delle Camice Nere. Lui, senz'altro, fu il primo che si oppose contro la bramosia ed il potere di quei pazzi, quando si presentarono in chiesa, un giorno, durante la consueta cerimonia domenicale, capeggiati da ufficiale tedesco a caccia di uno dei figli di quella terra.
In quell'occasione, Don Natale Romildo ebbe ad offrir in cambio l'intero suo furore di prete reazionario e patriota, mostrando il leone che dormiva in malo modo dentro al suo petto.
Tuonando, solo, mentre tutto il resto dei presenti tremava (nascosto) sotto i banchi di quella chiesa. Arrivando a mostrare, a rischio di essere fucilato, cosa significasse avere coraggio.
Mostrandolo d'innanzi a una decina di nazisti e di camice nere, venuti lì proprio quella mattina e irrompendo nella casa del Signore come se fosse la loro, per il solo scopo di azzannar qualcuno.
Gli invasori arrivarono persino a minacciare lui e tutti i suoi compaesani, tanta fosse al momento la collera provata.
- Se non ci consegnerete il fuggiasco, metteremo a ferro e a fuoco tutti e quattro i paesi legati al territorio di Casalino! - urlò quell'ufficiale con la bava penzolante dalla bocca.
Se non fosse stato per Don Natale Romildo, quella volta, forse nei libri di storia, adesso e oltre a Roma ai tempi di Nerone, anche questo piccolo comune immerso nella campagna Novarese sarebbe ora ricordato per la medesima sorte. Ma per fortuna codesta atrocità minacciata per mano di un gruppo di folli ed esaltati, parve sciamare davanti al ruggito di questo singolo uomo postosi (solo) contro tutti, incutendo quel timore che solo tra belve parve essere l'unico in grado d'inculcare.
Cameriano, Casalino, Orfengo e Ponzana sarebbero certamente stati bruciati, e poi rasi al suolo, ma Don Natale a rischio della sua di pelle, disse in faccia a tutta quella marmaglia ciò che risultava pensare di loro.
Lo disse senza mezze misure e senza neppure mostrare un barlume di timore.
- Badate bene... animali che non siete altro! Badate a quello che dite, e badate a ciò che vi ripromettete di fare... perché qui, oltre a tutti noi comuni mortali, vi è colui il quale tutto vede e tutto sente. -
Urlando in faccia quelle minacce, prese nel contempo a puntare il proprio dito verso l'altare posto alle sue spalle, indicando il crocifisso dove era riposto il Cristo in Croce.
- Verrà il giorno in cui sarete giudicati! E potete sin d'ora credere alle mie parole... quando per voi giungerà quel momento... sarete soli... soli davanti a tutti i vostri peccati, e lì, in ginocchio, voi vi prostrerete pregando. Implorando, persino, che egli non abbia a riporvi tra gli “Ingiusti”! Proprio tra coloro i quali, in vita, avranno a macchiarsi di ignobili e vili gesta... badate bene! Colui che vede e sente tutto... tutto di noi un giorno giudicherà. E sempre un giorno di voi, tutti, si rammenterà! Dio m'è testimone... non vorrei certo essere nei vostri panni. -
Quelle parole suscitarono parecchio scalpore per l'impeto, l'audacia, e il peso che parevano recare appresso. In tal modo. Dette in faccia a tutti loro. Gli stessi, nonostante l'avanzare ancora di minacce e d'insulti verso l'uomo vestito di bianco, sembrarono, di fatto, mitigare il loro ardire, poiché evidentemente colpiti più di quanto volessero far intendere da tale abbagliante coraggio, tanto, da costringerli ad abbandonare poi ogni ulteriore rimostranza e far dunque ritorno al resto di quella sgangherata comitiva.
Da quel momento in poi, il parroco locale fu praticamente paragonato ad un eroe in terra e appoggiato, nell'esigenza, da tutti i suoi confratelli in azioni o premeditazioni ritenute sovversive e mirate a supportare i figli e gli amici in quella disperata e sanguinosa battaglia.
Se soltanto Daniele si sforzava nel ripensare ai racconti o piuttosto, a quanto appreso nei libri di storia, sui frangenti e sugli aneddoti negli stessi riassunti di quella terra, in quel abitato dove oggi si trovava lui medesimo ad operare, anche solo immaginare l'orrore da Natale patito, rendeva il suo mentore ancora più imponente di quanto lo immaginava il giorno prima.
L'opportunità di Daniele nutrita di restargli accanto, anche solo per fargli compagnia, già di per sé bastava al giovane per renderlo euforicamente orgoglioso di essere lì.
Tutto sommato era impossibile poter serbargli rancore, verso il tal collega di tonaca, per una reazione improvvisa e apparentemente sopra le righe che poteva aver manifestato, di tanto in tanto, per colpa di quel carattere sanguinario e difficile da gestire.
Anzi, a dirla tutta, poteva solo imparare osservando quale e quanta fede il medesimo risultasse aver cullato in cuor suo, e a che vetta o livello la stessa fosse in fine giunta.
- Magari... - pensava tra sé - potessi raggiungere quel livello. -
Daniele era certo non gli sarebbe bastata una vita intera per apprenderlo. Ma nonostante i tentativi del nuovo arrivato, spesi per aggraziarsi il tal collega, poco o niente riuscì ad accaparrarsi.
Dulcis in fundo e ripensando ai momenti vissuti, c'erano state parecchie stranezze a rendere ostici i rapporti fra loro. Ad esempio, giusto per far chiarezza: una tal mattina era giunta in visita la ditta incaricata dalla curia per la manutenzione della torre campanaria, il curato ebbe ad andare letteralmente su tutte le furie.
- State lontani. - tuonò brandendo il bastone da passeggio - Soltanto il sottoscritto ne è responsabile! - urlò con gli occhi ancora iniettati di sangue, per colpa di una follia oramai pronta a pervadergli l'intero corpo.
Seguitando imperterrito ad avanzar minacce verso quei tapini, se solo avessero continuato ad insistere di salirvici sopra.
- Se solo provaste ad avvicinarvi... la vostra zucca assaggerà il mio bastone infinite volte! Sono stato abbastanza chiaro? -
A quel tempo apparve perciò assai difficoltoso, da parte del nuovo venuto, poter apprendere realmente la natura di quell'astio che sembrava sfoderare come una pentola d'acqua bollente pronta a schizzare il suo contenuto tutt'intorno, se solo si azzardava qualcuno a sollevare il coperchio.
Per Daniele, risultò pertanto arduo riuscire ad intendere cosa potesse girargli in quella sua testa di ultra ormai avvizzita dagli anni, ma per rispetto all'uomo e per i chiari segni di una malattia oramai all'ultimo stadio, cercò sempre e comunque di soprassedere.
Tutto quanto, veniva poi nascosto per buon senso da parte del suo fidato collaboratore, che riusciva sempre a trovare le parole giuste per rimandare tali opere a data da destinarsi.
A questo punto, apparve dunque giusto ed ovvio lasciar scorrere il tempo senza troppi scossoni e dando così, corso, agli eventi e alla natura che sarebbero giunti presto a mettere tutto quanto al giusto posto.
Tutte le cose quindi andarono avanti come Don Natale desiderava andassero, sino al momento dell'ineluttabile conseguenza del caso. La tal data, ricordava bene, giunse una sera quando Daniele accorso al richiamo del suo superiore arrivò al suo capezzale pochi istanti prima della fine. Nell'attimo in cui gli afferrò la mano, il pover'uomo la strinse nella sua con una forza sconcertante, così forte da lasciare il suo testimone a bocca aperta.
Daniele attese pazientemente e lì accanto, che la candela della sua vita potesse spegnersi il più dolcemente possibile. Come dolcemente tentò lui, invano, di parlargli dandogli in tal modo conforto. Nel contempo, di rimando, non diede peso al suo vaneggiare e a quelle sue strane parole che di primo acchito gli parvero prive di senso e di logica.
- Se ti ho trattato male figliolo, devi scusarmi... io ne sono stato responsabile per tutto questo tempo, ma ora, data la mia condizione non posso più fare niente per loro. Toccherà a te continuare. Come mio successore dovrai assumerne l'onere e tutto il peso che ne comporterà. Dovrai farlo per loro e per il potere che ti sarà concesso. -
Daniele non risultò comprendere perché mai gli stesse dicendo quelle parole, ma seguitò a farlo sfogare, augurandosi che in tal modo la sua mente, persa nel vuoto, potesse in fine trovare un barlume di pace.
- Dio m'è testimone. Conferisco a te, povero mortale, tale onere e cotanto potere. Fanne buon uso, esso sarà per te il tuo primo e unico dovere: tutela la loro incolumità e ascolta ogni loro richiesta... lassù... lassù... guarda lassù! -
Poi, dopo aver terminato quelle parole disarticolate, il povero curato, ormai prossimo alla fine, alzò la mano per indicare con la punta del suo indice traballante, la cima della torre campanaria. Proprio là sulla sua sommità, dove le campane avevano sempre assorbito l'attenzione per tutto il tempo in cui Daniele era giunto in quella parrocchia.
- Che cosa intende dirmi con queste parole, Padre? Non capisco il significato. - domandò dunque, confuso, non riuscendo più a reggere la tal situazione.
Ma oramai era troppo tardi per Natale. All'uomo restavano solo pochi istanti di vita, attimi che il poveretto spese racimolando le poche forze ancora in possesso per riuscire a spiegarsi ancora una volta.
- Lassù Daniele! Guarda lassù! Lì loro stanno... Lì loro si trovano ancora. -
Dopo avergli offerto quell'ennesimo vaneggiamento, il pover'uomo tacque esalando il suo ultimo respiro. Poi tutto fu pace e silenzio.
Daniele con le lacrime che solcavano il suo viso, fece lui stesso un sospiro di sollievo ipotizzando, finalmente, per l'anziano, il raggiungimento di quella tanto agognata pace.
Era trascorso un mese oramai dopo la sua morte e tutto, lentamente, stava tornando alla normalità.
Per le esequie di Don Natale, lui personalmente decise di occuparsi dell'omelia affiancato dal Vescovo di Novara.
Durante la funzione, a stento si riusciva a trovare uno spiraglio tanto sembrava gremita quel giorno la chiesa.
Alla notizia, infatti, la gente s'era data appuntamento accorrendo da ogni dove.
Tanto sembravano essersi spinte le sue gesta, compiute all'epoca da quell'uomo presente all'ora come adesso n quel luogo. Quelle sue misere spoglie, ora appoggiate a terra, sembravano mostrarlo ancora e continuamente.
Tanti gli atti e i meriti che tuttora seguitavano a vivere, presenti negli occhi di chi, quel giorno, fu seduto tra i banchi, stipato contro la parete, oppure traballante in precario equilibrio nei pressi della porta d'ingresso. Tutti tentavano di gettare un'occhiata all'interno accomiatandosi così da un caro e buon amico.
A domandare in giro, quel giorno, sembravano essere giunti sin lì, anche persone che si erano messe in moto la sera prima, e che avevano compiuto un viaggio di chilometri e chilometri, per rispetto e devozione nei suoi confronti, da parte di chi un tempo, aveva lui salvato con le sue gesta e con il suo cuore.
Parole pensati e ricolme di commozione, quelle che ebbero ad offrire quel giorno Don Daniele ed il Vescovo. Partorite per tutti i presenti e non solo, che s'agganciarono ai cuori amplificandone la consistenza, per poi essere nuovamente espulse e rese libere dalla loro comune e sincera commozione.
Natale Romildo occupava dunque posto, quel giorno, tra i suoi simili. Tra gli stessi suoi fratelli che prima di lui, anni e anni addietro, lo avevano preceduto giungendo in cielo già ai tempi del conflitto mondiale o subito dopo.
Ora però a conclusione, per Don Daniele era giunto il tempo di scendere in campo. Assumendosi da circa un mese a quella parte, in quella terra, ciò che in precedenza era appartenuto al suo predecessore.
Per quanto lo riguardava, il suo animo si sentiva più che mai pronto. Da quel momento in poi, ogni cosa, anche la più semplice e ovvia, si sarebbe svolta con ponderazione e cognizione di causa.
La sua cognizione e la sua causa.
Don Daniele era deciso a mettercela tutta, infatti, l'identica sera, poco prima d'imbattersi in quel curioso sogno, il pretonzolo rincasava immerso sino al collo nei pensieri e nei crucci del suo lavoro.
- Ancora oggi e ancora una volta, la parola di nostro Signore ha tenuto botta! - rifletteva fra sé soddisfatto, mentre rincasava dopo aver terminato anche per quel giorno il suo lavoro.
Una volta giunto sull'uscio di casa, il suo sguardo si arrestò per un attimo a fissare il cielo sopra la sua testa. A quell'ora, sembrava tingersi di un colore azzurro opaco, con ai bordi sprazzi di un nero che avido avanzava pretenzioso le mani e tutto il resto su quanto natura offrisse nei paraggi.
- Accidenti! Nemmeno me ne sono accorto ed è già sera! -
Daniele esausto e con un buco nello stomaco grande come un burrone, non vedeva l'ora di gettare le scarpe, levarsi gli abiti e soprattutto, mettere finalmente qualche cosa sotto i denti.
Si sentiva svenire dalla fame. Il suo stomaco aveva e da un pezzo, iniziato a lanciare brontolii eloquenti. A ripensarci bene, tante erano state le cose da fare in quella giornata da fargli persino saltare il pranzo.
Finalmente però, adesso, di scuse non ve ne erano più e tutto era stato accomodato. Poteva quindi e finalmente rifocillarsi a dovere.
La sua mano era ancora indaffarata a tribolare con la serratura di casa, e con la chiave che sembrava recalcitrante a ruotare al suo interno. A guardarla incespicare, pareva intenzionata a fargli passare la notte all'agghiaccio.
- Dai che c'ho fame, cavolo! - disse.
Stava per perdere la pazienza e gettarla nel prato lì vicino, quando uno strano rumore lo colse di sorpresa raggiungendolo alle spalle.
Incuriosito andò cercando il senso di quella curiosità così stridula.
Voltatosi di scatto, lo stupore parve colmare ogni suo dubbio.
I suoi occhi si fermarono sopra al balcone collocato nei paraggi dell'ingresso di casa sua.
Su di esso, ordinatamente come soldati sull'attenti, stavano appollaiati tre enormi e paffuti corvi. Tutti quanti ben disposti in fila e uno accanto all'altro.
Se non fosse stato per il vento apparso all'improvviso, avrebbe di certo pensato che quelle figure altro non erano, se non statue oppure fantocci piazzati lì da qualche burlone o buontempone.
Invece, a contraddire quella supposizione, la brezza intrufolatasi come una suocera nel mezzo di un discorso, s'insinuò carezzando di loro il candido piumaggio.
Dal colore nero più della stessa notte, scaturì dentro di lui un senso di timore per non dire soggezione.
La cosa che più gli fece accapponare la pelle, fu l'atteggiamento che l'intero gruppo imperterrito sembrava possedere. Essi se ne stavano lì, fermi, a fissarlo come se un discorso dovesse iniziare da un momento all'altro.
Fu quindi istintivo per l'uomo, se non ovvio, trovare una maniera per scacciarli da dove al momento sembravano aver trovato domicilio.
- Sciò! Via bestiacce! Prrr! -
Daniele si preoccupò che non rimanessero troppo a lungo per non sporcare l'ingresso della sua abitazione. Ma purtroppo, per lui, quella condizione non sembrava essere destinata a mutare così rapidamente.
I morsi della fame dentro al suo stomaco, portarono la sua attenzione verso altri luoghi e verso altri orizzonti. Ecco perché stufo e anche un po' scocciato, terminò di inveire contro i volatili, per scomparire dietro alla porta di casa.
- D'altronde... - pensò il religioso - Qua di cibo non ne troveranno di certo, pertanto, quando ne sentiranno l'esigenza... leveranno le tende ed il disturbo. -
Detto fatto, alzò i tacchi per primo e lasciò i suoi ospiti a fare quattro chiacchiere con la notte ormai giunta anche lei all'appello.
La fame e la stanchezza erano al momento l'esigenza più rimarcata per il tal curato, che oramai appariva essere esausto oltre misura.
Per il povero Don Daniele, quelli era stati giorni e settimane intrisi d'impegni senza mai un attimo di pace. Adesso però, per fortuna, l'equilibro stava arrivando ad offrirgli un po' di ordine. Le cose sembravano pian piano assumere una dimensione più comoda e rilassata, e il futuro che lo stava attendendo non sembrava più essere tanto oscuro.
Infatti, quella sera Daniele si concesse una vera e propria scorpacciata, tanto da tenerlo impegnato al suo tavolo per ben due ore buone. Terminato ogni cosa presente nel suo frigorifero, al povero pastore non restò altro da fare che svenire come un sacco di patate sopra il suo letto e sotto il peso di tutti i suoi affanni.
Prese sonno nel suo giaciglio in un baleno, con entrambi gli occhi ridotti a infinitesimali fessure, prima ancora di toccare le lenzuola e augurarsi buona notte qualcosa venne a tormentarlo.
La mattina seguente di buon'ora, Don Daniele decise di alzarsi dopo una nottataccia al quanto travagliata e schizzare fuori da casa, rapido, prima ancora che il gallo potesse spalancare gli occhi.
Con l'asta in ferro ben salda e impugnata tra le sue mani, la stessa che teneva da sempre riposta per abitudine a lato dell'altare maggiore, fece scattare la botola che consentiva l'accesso al campanile della sua chiesa. Una volta aperta la spinse verso il basso, sino a ribaltarla in un unico movimento alla medesima obbligato. Prassi questa, che veniva inevitabilmente imposta per far successivamente ridiscendere sino al punto in cui, lui, ora, risultava trovarsi.
Fatto quello e una volta dischiusa del tutto, la scala avrebbe permesso al tal curato di accedere al piano superiore del locale, da dove la torre sembrava poi svilupparsi libera sino al suo vertice. Ciò, di fatto, per metri e metri, sino alla parte terminale. Una volta giunto a quella quota, avrebbe poi dovuto oltrepassare l'ulteriore botola in ferro, presente e rappresentante l'unico passaggio concesso per il piano di calpestio soprastante. In tal modo avrebbe appreso, finalmente, la magnificenza e il panorama a disposizione, oltre naturalmente a capire perché mai le sue campane avevano deciso di entrare in sciopero.
Daniele prima di tutto doveva percorrere, con l'ausilio delle sue sole gambe, l'intero sviluppo delle scale in legno presenti al suo interno e che nello stesso risultavano per l'appunto snodarsi sino in cima al campanile. Quei gradini in legno che ora fissava dubbioso, a prima vista, conferivano un certo turbamento per via delle pessime condizioni in cui risultavano mostrarsi,
La struttura sembrava essere al quanto traballante, ciò nonostante, l'apparente rischio valeva comunque la pena di essere corso. Al di sopra, avrebbe poi toccato con mano ciò che da secoli e secoli concedevano a tutti, nessuno escluso, il buon giorno, segnando ogni ora, minuto e secondo della vita di quella piccola comunità di paese.
Daniele avanzò, traballando, ad ogni suo passo. Malgrado la paura, riusciva comunque ad avanzare mal celando un certo disappunto. Nonostante questo, tra un sospiro e uno scossone, con un ampio sorriso dipinto in viso e con l'adrenalina che sembrava pulsare prepotentemente nelle sue vene, raggiunse la sua ricompensa spalancando la botola sopra la sua testa.
Facendo leva con entrambe le mani, nonostante il peso, con una spinta decisa riuscì finalmente a ribaltarla. Levato quel panello di mezzo, il suo capo venne sommerso come sotto ad una doccia, da un mare di piume e di sterco.
Ma anche questo non parve arrestare la sua curiosità.
Una volta giunto al piano superiore e richiusa la botola dietro le sue spalle, un improvviso senso di conquista parve raggiungerlo come uno scalatore in procinto di raggiungere la sua vetta, così anche lui si sentì vivo come non mai.
Finalmente l'uomo ebbe il privilegio di ammirare il panorama, l'unico e il solo che quel posto pareva offrire a chiunque avesse avuto l'ardire di compiere quella scalata.
L'aria fresca del mattino scivolò dolce dentro ai suoi polmoni, carezzandone nel tragitto le di lui narici. Il suo sguardo invece, rapito, spaziò in ogni dove. Da quella posizione la vista sembrava appagare ogni desiderio che uomo potesse mai avanzare in natura.
Benchè il degrado e la sporcizia presente in quel luogo fosse palpabile, il panorama era senza dubbio mozzafiato. Tant'è che l'unico testimone presente al momento, rimase per un certo tempo incantato di fronte a quanto i suoi occhi sembravano ammirare.
- Che sbadato che sono, quasi dimenticavo perché sono qui! -
L'uomo dunque, facendo mente locale, si mise con dovizia ad ispezionare l'intero apparato campanario palmo a palmo. Verificando ogni centimetro di quel groviglio e guazzabuglio di rotelle, molle e leve, che proprio là in cima azionavano e dello stesso regolavano, qualsiasi movimento ondulatorio capace di produrre il tanto e noto scampanio e annesso suono. Tutto quanto, presente e funzionante sin dalla sua nascita.











CAPITOLO 2 – LA VITA DI UN UOMO, QUI, TRA LE MIE MANI
CAMERIANO: OGGI, ALL'ALBA

Don Daniele, dopo aver finalmente raggiunto la sommità della torre campanaria, a ragion veduta si apprestò a verificare quale potesse essere la causa di quello strano scampanio (mezzo stonato) che negli ultimi tempi si udiva provenire proprio da codesto luogo. Suono o cicaleccio, con ogni probabilità generato da una eventuale errata regolazione dell'impianto, o guasto, che sin da subito ipotizzava potesse trattarsi. Tale probabilità sembrava, ora, storpiarne l'abituale e aggraziato cinguettio, rovinando ogni poesia o melodia che sino ad ora aveva prodotto.
Daniele sapeva quanto fosse essenziale il corretto suono che le medesime dovevano garantire. Essenziale come un'azzeccata campagna pubblicitaria per un noto marchio di moda. Più valida era, e più sapeva arrivare diritta al punto. La cosa poteva valere anche nel suo campo, anche se in tal caso veniva rivolto in un ambito decisamente diverso. Pertanto, si era dunque arrampicato sin lassù per trovare finalmente le risposte che da qualche tempo andava cercando.
Quel mattino, cascasse il cielo, l'avrebbe scovato, riparato e in fine risolto. Punto e basta.
L'improvvisato investigatore, dopo aver passato al setaccio ogni centimetro di quanto i suoi occhi inesperti potessero intendere e comprendere, dovette in fine arrendersi sconsolato all'evidenza dei fatti. Malgrado tutta l'attenzione e l'impegno che poteva metterci, quale uomo di fede lui era, non poteva pretendere di sostituirsi ad un esperto del settore. Infatti, sconsolato, arrivò dunque ad abbracciare la possibilità di non arrivare mai a capo di nulla senza l'aiuto di un tuttofare.
Per giungere al nocciolo della questione, al povero curato altro non toccava fare se non aprire il portafoglio e far prendere aria a quei quattro soldi che teneva riposi al suo interno.
- D'altronde non c'era poi tanto da stupirsi. - pensò sbuffando.
Tutto quel armamentario era stato esposto alle intemperie per anni e anni (abbandonato) senza che nessuno vi potesse mettere mano, ma nonostante quella supposizione all'uomo qualcosa non gli tornava. Se osservava con attenzione l'intero apparato, una cosa era subito evidente. Nonostante il tempo e l'incuria, a prima vista tutto risultava essere in buono stato di conservazione, perciò era ovvio ipotizzare che forse il problema doveva essere di tutt'altra natura.
Il suo sguardo si posò allora su alcune scalfitture presenti ai lati di ciascuna di quelle campane. Quei segni ora presenti sopra ciascun bordo, sebbene potessero fornire un alibi e una logica ai suoi dubbi, generavano un ulteriore incognita nella sua testa.
- Com'era possibile che qualcuno o qualcosa li avesse mai prodotti? - si domandò dubbioso.
Era come se a un certo punto, qualcuno si fosse divertito a picchiarvi contro con un martello o con un affare appuntito, perché semmai, soltanto in quel modo si sarebbero potute ricavare. Era anche ovvio, inoltre, che per accedere a quel posto occorreva possedere un lasciapassare. E guarda caso, lì attorno, le chiavi della botola le possedeva lui e nessun altro, quindi anche questa ipotesi doveva essere per forza scartata.
- Mah... forse sto viaggiando troppo di fantasia. - riflette.
Stava per gettare la spugna e fare dietro front quando un vento improvviso lo raggiunse sferzandogli il viso e l'intero corpo. Daniele fu costretto ad indietreggiare di qualche passo per non cadere sotto il peso e la forza che, molesta, tentava di fargli perdere l'equilibrio.
Ricompostosi poi, i suoi occhi furono nuovamente attratti da quel panorama che davanti a lui risultava spaziare in ogni dove, permettendo al suo sguardo di rimanere ancora per un attimo incantato. Quella vista era davvero fuori dal comune, e non gli permise certo di fare subito ritorno alle sue faccende.
Se spingeva la sua vista verso Est, era possibile distinguere l'intero promontorio e al suo centro la città di Novara. Nel cuore, poi, vi trovava spazio il cupolone di San Gaudenzio, quale emblema e suo principale simbolo.
Voltandosi poi dall'altro lato, verso Ovest, si poteva abbracciare (con un suo solo sguardo) l'intero abitato di Cameriano, e poi, verso Sud, Casalino, e più in là ancora, addirittura intravedere la morfologia della pianura padana infrangersi sui fianchi aggraziati come quelli di una donna del Monferrato, distante da qui solamente alcune decine di chilometri.
Nel tentativo di scorgere meglio quanto in lontananza i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco, Daniele si sporse in avanti, poggiando entrambe le mani sopra il freddo marmo che delimitava l'intero parapetto. Nel punto esatto dove le sue mani incontrarono la pietra, il peso del suo corpo impresso sulla medesima parve innescare un ingranaggio nascosto al di sotto dell'identico pianale. Così facendo venne a mostrarsi, a lui, qualcosa che era rimasto celato in quel luogo da chissà quanto tempo.
La lastra sembrò cedere di colpo sotto le sue mani, e poi muoversi di qualche centimetro causandogli, ovviamente, un certo spavento. Tante' che pensando di finire sfracellato di sotto, scattò via come una molla dando retta al suo istinto. Allontanatosi di qualche passo dall'apparente pericolo, l'uomo rimase stupito del fatto che null'altro invece successe.
La lastra ritorno invece nella sua posizione originaria e stranamente, ora, tutto gli apparve come se non fosse mai capitato.
Dopo un sospiro di sollievo, la curiosità parve spingerlo ancora una volta a cercar ragione su quel fatto. Carponi a terra, un'occhiata rivolta alla base della lastra rivelò la presenza di un oggetto infilato nella fenditura sottostante. C'era qualcosa custodito ed alloggiato al suo interno, ma per ottenerla doveva rimettere in moto l'ingranaggio.
- Probabilmente un tesoro! - pensò divertito.
Quell'oggetto sembrava sbucare fuori ogni qual volta il marmo soprastante veniva pigiato in un certo modo.
Le sue mani ritornarono a poggiarsi sul parapetto per il tempo necessario affinchè l'oggetto fosse nuovamente alla sua portata.
L'uomo, senza tergiversare oltre, vi ci infilò la mano dentro nel tentativo di agguantare ciò che i suoi occhi stavano già assaporando. Tutto questo prima che il tal ingranaggio potesse riportare la lastra al punto di partenza.
Una volta insinuatasi nella fessura come un esperto scassinatore, oltre all'oggetto in questione, i suoi polpastrelli percepirono il freddo metallo di un arnese molto simile ad un martello.
La sua attenzione però, alla luce dei fatti, era concentrata esclusivamente sul primo dei due tesori in esso custoditi. Dopo averlo impugnato, lo estrasse senza perdere altro tempo e soprattutto, prima che la sua mano venisse schiacciata sotto il peso di quella grossa pietra.
Una volta ottenuto il premio, se lo passò da una mano all'altra per osservare meglio le sue fattezze. Si trattava semplicemente di un vecchio taccuino rivestito con una fodera in cuoio, proprio come quella che si adoperava una volta. Appariva impolverato e probabilmente anche datato, certo, ma si trattava pur sempre e soltanto un quaderno con delle pagine ingiallite e mezzo stropicciato. Sopra si poteva comunque leggere con chiarezza una scritta. Sebbene la polvere fosse presente e copiosa, Daniele realizzò subito quanto quel mucchio di fogli potesse celare al suo interno. E nell'attimo esatto in cui realizzò tutto quanto, le sue mani iniziarono a sudare per l'eccitazione. I suoi occhi si spalancarono a conferma di quale scoperta avesse appena fatto e l'euforia, sprigionata dalla sua voce, prese il sopravvento sul suo animo.
- Accidenti! Sogno o son desto? Queste sono le memorie di Don Natale! - urlò euforico.
Lesse febbrilmente le parole impresse sulla prima pagina, le stesse che sembravano dare inizio al racconto della sua vita. Le lesse con un tale desiderio di sapere, di comprendere, che quasi quasi, se fosse stato un panino, erano già tutte in fondo al suo stomaco.
Per lo stupore, le parole gli uscirono di bocca come se stesse urlando tanto sembrava marcato il suo trasporto. Ciò che quel libricino pareva custodire al suo interno, era certamente fonte di profonda ammirazione da parte di questo lettore. E nel contempo, origine di una gioia smisurata. Finalmente avrebbe fatto luce su molti punti e aspetti ritenuti da lui oscuri, ma che adesso trovato ragioni e consapevolezze su molte reazioni che in precedenza lui medesimo non aveva trovato logica o ragione, per quelle sue sfuriate improvvise e fuori luogo.
Adesso, per davvero, le cose si facevano per lui interessanti. Tra le mani sudate stringeva un oggetto dal valore storico chiaramente inestimabile. Persino più prezioso di uno scrigno ricolmo d'oro.
- Caspita! Che scoperta che ho fatto! - urlò tutto euforico.
- La vita di quell'uomo. Anzi, di quel gigante, è ora qui, stretta tra le mie mani. -
Un ampio sorriso prese prepotentemente forma sul suo viso.
L'idea di aver ritrovato lungo la propria strada ancora tracce di quello strano personaggio, adesso, quando pensava di averlo perso per sempre. Gli sembrò come ricevere un dono per la festività natalizia.
- Eccoti Natale. Ti ritrovo un'altra volta. Evidentemente non ti eri ancora stufato del sottoscritto se sei venuto ancora a cercarmi. -
Disse divertito e con la pelle d'oca pronta ad increspare la sua pelle.
Poi dopo quella breve riflessione, la curiosità parve nuovamente prendere il sopravvento su di lui, e l'uomo non perse altro tempo in convenevoli. Aprì immediatamente il taccuino soffermandosi sulla prima pagina. Rilesse le prime righe annotate con cura sopra, senza prendere nemmeno fiato e affannosamente le inghiottì una ad una tanto sembrava esserne affamato.
Ne divorò ogni singola sillaba impressa sopra il tal foglio, come se non avesse un domani. Sapeva bene quanto quel preciso momento risultasse contare, per lui e per l'intera comunità qui presente, i cui membri seguitavano a condurre le rispettive esistenze ancora ignari di tale scoperta. Esistenze dove il tal narratore sembrava aver tracciato solchi profondi attraverso le sue gesta, tutte riconducibili ad un preciso momento storico e tutte quante, guarda caso, narrate nell'identico taccuino ora stretto tra le sue mani.
Significava, in un certo senso, lasciar parlare la storia e le gesta di un uomo che lì, in quel di Cameriano, tutti giudicavano essere un vero e proprio eroe.
Non c'era poi tanto da stupirsi dell'eccitazione che in tal contesto risultasse pervaderlo. Quel prete aveva letteralmente fatto la storia e scritto in quel paese il destino di tutte i suoi abitanti durante il corso della propria esistenza.
Nella prima pagina trovava spazio la data e il luogo da dove il suo racconto iniziava a prendere vita. Prestando attenzione a quelle prime annotazioni, Daniele non poté trattenersi oltre dal pensare quanto, per quell'uomo, quella data in particolare avesse rappresentato un momento di cruciale importanza, al punto da spingerlo poi, ad iniziare la narrazione e le annesse memorie.
Di certo doveva aver scandito indissolubilmente l'esistenza e la vita di quest'ultimo, rileggendola ancora con maggiore attenzione un brivido improvviso parve pervadere la sua schiena.
Facendo mente locale su quanto la storia sembrasse offrire, di per sé, in quel preciso aneddoto e giorno, per Don Daniele iniziò la lettura di quel fantomatico manoscritto.

Memorie di Don Natale Romildo
Parrocchia di Santo Stefano
Venerdì 30 marzo – anno del Signore 1945 - ore 20.00 della sera.

“Sono appena rientrato. Faccio fatica ancora a comprendere ciò che i miei occhi hanno visto. E meno che mai... ciò che pare io abbia udito, subito dopo aver visto quello che so' per certo di aver visto!
Se mi guardo allo specchio... Ho ancora i calzoni e gli stivali ricoperti di terra, e soprattutto del loro sangue.
La loro voce e le loro grida mi ronzano ancora nella testa come se fossero tutt'ora qui con me! Dannata guerra che sia maledetta per l'eternità!”

La lettura era appena iniziata ma Don Daniele dovette chiudere immediatamente il manoscritto, qualcosa lo stava disturbando. Avvertiva una strana sensazione pizzicargli la schiena. Si voltò, era come se qualcuno o qualcosa lo stesse scrutando. Da subito pensò essere solo frutto della sua immaginazione ma poi, quasi d'istinto, volse il proprio sguardo alle sue spalle verso l'origine di quella strana sensazione.
Nulla davanti a lui.
- Che sciocco che sono. - pensò d'essersi immaginato ogni cosa, persino quell'impressione.
Poi quanto appena percepito, ancora una volta venne a bussargli in faccia.
I suoi occhi rimasero sgranati incrociandone altrettanti, ora, pronti a rinnovargli lo stupore poc'anzi percepito.
Daniele rammentò immediatamente d'aver incrociato, proprio la notte scorsa, rincasando, tre grossi uccelli. Gli stessi che s'erano appollaiati sopra al davanzale del suo balcone.
L'espressione presente ora davanti a lui, gli parve alla pari se non identica alla loro.
Al tempo come anche in quel momento, il giovane prete venne colto alla sprovvista dall'identica soggezione percepita dentro il suo petto.
Non fece in tempo a reagire, perché un improvviso sbattere d'ali giunse a lui sorprendendolo un'altra volta.
Lo stormo di corvi incrociati poche ore prima, come la notte scorsa, erano venuti a cercarlo ancora una volta.
Uncinati al davanzale del parapetto, stavano ora appesi ben sette esemplari di corvidi adulti. Immensi. Straripanti di piume e tutto il resto.
Imponenti a vederli.
Tutti e sette s'apprestarono ad osservare ogni mossa dell'umano senza battere ciglio.
La cosa che più sembrò inquietare il suo animo, non parve essere quanti fossero, né tanto meno quanto possenti e tozzi si mostrassero. Era l'indisponente atteggiamento da tutti adottato ad agitare l'uomo e di esso il ventre.
Stavano fermi, appollaiati, a vederli e persino immobili.
Parcheggiati sopra il parapetto del campanile in attesa di qualcosa, lo fissarono come solo un uomo poteva fissare un altro uomo.
- Ma questi sono animali, come diamine possono guardarmi in questo modo? - si domandò ancora.
Di solito gli uccelli tendevano sempre a fuggire quando nei paraggi faceva la sua comparsa un essere umano, ma questa non pareva essere l'unica opportunità opinabile. A ragion veduta, semmai, era lui a maturare l'esigenza di fuggire e di scappare a gambe levate, non certo loro.
Daniele non mosse un muscolo. Si trattenne. Non un suono uscì dalla sua bocca.
La gola gli parve secca come solo il deserto poteva offrirgli.
Paralizzato dalla testa ai piedi, per quella improvvisa e inaspettata apparizione di gruppo, rimase lì preda dei suoi dubbi.
I loro occhi, non temendo il suo sguardo, continuavano imperterriti a mantenere salda la presa su di lui.
Percependo il suo smarrimento, l'intero branco prese a sbattere le ali e a gracchiare come selvaggi in procinto di scendere sul piede di guerra.
Forse l'istinto di questi era più incentrato nello smuovere il suo stato, più che intimorirlo, ma facendo in quel modo ottennero soltanto d'agitarlo ancor di più.
Daniele, già pronto a tagliare la corda, vacillò del tutto quando una voce dentro la sua testa parve manifestarsi improvvisamente.
- Prete! Sei venuto, finalmente! Ti stavamo aspettando. -
Evidentemente scombussolato, perdendo il controllo del suo corpo iniziò a barcollare da una parte all'altra con le gambe che non riuscivano più a sorreggere il suo peso, né tanto meno la sua volontà.
Indietreggiando di qualche passo, non si accorse di essersi inavvertitamente avvicinato troppo alla botola presente al centro di quel pavimento, e adesso, proprio sotto i suoi piedi.
Il vuoto materializzatosi in un istante, l'assorbì accogliendolo senza concedergli avvisaglie. Il suo corpo, inerme, sparì risucchiato nella caduta che portò al seguito la sua avventata distrazione.
Daniele cadde scomparendo dentro a quel passaggio e il nulla sopraggiunto poco dopo lo ingoiò in un sol boccone. Poi, dopo un volo di circa due metri, finì con lo sbattere violentemente il capo contro il pianerottolo in legno posto sottostante a quel piano. Il povero curato rimase lì, privo di sensi, per parecchie ore.
Per sua somma fortuna però, il legno contro il quale ebbe a cozzare la testa, oltre ad un evidente bernoccolo, gli permise anche di attutire la sua rovinosa caduta prima che potesse farsi davvero male. Tale condizione fu sufficiente, però, per lasciarlo privo di sensi, a terra, per tutto il resto della mattinata.
Quando riprese conoscenza e conoscenza, era ormai pomeriggio inoltrato e il sole ormai alto nel cielo si stava già intrufolando all'interno della botola, illuminando dunque il suo povero volto martoriato dalla caduta.
Appena riuscì a rinsavire, un'immagine parve piazzarsi al centro della sua testa. L'incubo avuto la notte precedente sembrò ancora una volta cercarlo, e trovandolo, Don Natale Romildo continuò imperterrito ad attirare la sua attenzione.
Guarda caso e per ironia della sorte, anche Daniele adesso si trovava in quel preciso luogo. Dopo essersi ripreso e con la testa che gli girava ancora per via di un emicrania decisa a non molarlo nemmeno per un attimo, si rimise in piedi.
Adesso era giunto per lui il momento di relazionarsi a quel sogno e decidere da che parte stare.
Era ovvio che tutto questo volesse dirgli qualcosa, e sebbene il suo istinto lo spronasse ad andarsene via, c'era una voce dentro di lui che lo vincolava a cercare la pedina al momento ancora mancante sulla sua scacchiera.
Con il palmo della mano si tastò il bozzo che sentiva pulsare sopra la sua testa. Doveva essersi formato in seguito al violento urto avvenuto con il pavimento poco tempo prima. Era gonfio e faceva pure male, ma di sangue non ve ne era traccia. Studiò la sua condizione e in fine, facendosi forza, decise di ritornare in cima al campanile.
- Non sono certo venuto sin quassù per farmi spaventare da un branco in uccelli troppo cresciuti, oppure dalla mia immaginazione. - disse scocciato e con fare spavaldo.
Esternando appunto il suo attuale disappunto, prese a risalire a tre alla volta i gradini della scaletta piazzata davanti a lui. Una ragione a tutto quello che gli stava capitando doveva pur esserci e lui, testardo, l'avrebbe trovata.
Una volta issatosi di nuovo in piedi, facendo sforzo con le braccia nel tentativo di superare un'altra volta la botola, Daniele arrivò nuovamente a presiedere quel locale come uno scalatore dopo aver speronato la sua montagna.
Si concesse precauzionalmente un'occhiata indagatoria. Con suo sommo stupore tutto gli apparve sgombro e libero da uccelli o da quant'altro.
Il suo animo di rasserenò arrivando persino a supporre di esserseli solamente immaginati.
- Probabilmente era stata solo un'illusione. Esattamente come il sogno avuto in precedenza. - pensò.
Dopo aver fatto un sospiro di sollievo e abbassato il proprio sguardo verso il pavimento, incrociò a terra il manoscritto che era finito lì, al suolo, dopo che lo aveva smarrito nell'attimo esatto in cui si stava apprestando a cadere giù di sotto.
Si chinò per raccoglierlo e una volta preso tra le sue mani un brivido parve raggiungere ancora una volta la sua persona, agguantandolo di soppiatto. Quella stramaledetta sensazione di sentirsi osservato si era nuovamente presentata e questa volta, purtroppo, a bussare alla sua porta era un soggetto di ben altro stampo.
Un bisbiglio apparso nel suo orecchio risultò dissipare, per lui, anche quel flebile barlume di coraggio che tanto aveva lottato per riconquistare.
- Prete! Sei dunque giunto finalmente. Alla buon'ora! Era da tempo che attendevamo la tua venuta! Abbiamo seguitato a chiamarti ancora e ancora! A furia di picchiare contro queste stramaledette campane (che tu ami tanto), stavamo iniziando a pensare di doverle sbatterle giù di sotto, affinchè ti decidessi a raggiungerci! Sei dunque pronto a sostituire il tuo predecessore? Mi auguro tu abbia inteso finalmente cosa ora ti aspetti? -
L'uomo udendo quella voce e della stessa il senso di quelle parole, iniziò a balbettare cose prive di senso. Sapeva per certo che in quel luogo non poteva esserci anima viva, se non lui. Eppure in piedi d'innanzi alla sua persona, ora, se stava piazzata un'immagine sbiadita di un uomo. Restava lì, ferma, a braccia conserte ad attendere una sua risposta. Nel frattempo tamburellava, spazientito, le proprie dita sulle rispettive braccia tenute ad incrocio sopra il suo petto.
Attendeva così che il tal mortale riuscisse a ricomporsi dallo stupore avuto e nel frattempo, l'identico tipo, rimaneva lì imperterrito a fissarlo con quel suo fare contrariato.
Si trattava dell'immagine sbiadita di un uomo. O per meglio dire: di un soldato. Portava ancora indosso la sua divisa di un colore grigio e dalle tonalità chiare a tratti sbiadita, come del resto era l'intera sua figura. Appariva tutta logora e sgualcita. In certi punti addirittura rattoppata alla bell'e meglio, ma nonostante quella condizione due fattori gli balzarono subito all'occhio.
Il primo: aveva una spilla che teneva appuntata sul proprio petto a forma d'aquila con le ali spiegate.
Il secondo fattore invece sembrava essere riposto sul suo braccio sinistro, anch'esso capace di intendere alla perfezione la sua provenienza. Infatti, la tal fascia portata nella parte superiore e quasi all'altezza del petto, conferiva l'eloquente appartenenza del soggetto al regime Nazista. La medesima risultava possedere un colore rosso accesso e riportante al suo centro il simbolo di una svastica. Segnali, quelli, già di per sé sufficienti a far luce su ogni suo attuale interrogativo che in quel contesto potevano giungere dalla sua mente.
Quel soldato, o immagine sbiadita del suo ricordo, sembrava appartenere ad uno dei battaglioni all'epoca presente in quei luoghi. Proprio uno di quelli che durante il furore della guerra, sicuramente s'era divertito e non poco, a banchettare con la carne e con il sangue in ogni angolo di quelle strade e di quei fossi sparsi ovunque tra le campagne circostanti.
Non fu tanto l'immagine che parve manifestarsi davanti ai suoi occhi a scuoterlo nel profondo del suo animo, quanto, bensì, lo sguardo che il medesimo portava indosso.
Triste e vuoto come solo un oceano privo di pesci potrebbe addurre in paragone.
Immenso e smisurato come solo il dolore e lo smarrimento più abbietto sembrava recarvi al seguito, da elargire all'essere che in tal luogo risultasse desideroso d'addentrarsi.
Daniele sforzandosi non poco, prese lentamente coraggio e recuperò in un certo modo la dovuta calma del caso, obbligandosi a respirare. Dopo poco arrivò il tempo di porsi anche qualche domanda.
- Fermati te ne prego! Per adesso è inutile avanzare quesiti al sottoscritto. - lo ammonì l'identica presenza prima che potesse parlargli.
A Daniele sembrò riuscisse a leggergli nella mente e inoltre, senza nemmeno chiedergli il permesso persino a comunicarci.
- Le domande che tu mi vorrai fare, arriveranno a suo tempo. Per adesso ti basti quello che hai trovato e quello che tu, con i tuoi occhi, ti è stato concesso di vedere. -
Avrebbe voluto rovesciargli una cascata di interrogativi, avere ragguagli e risposte. Insomma, sapere almeno il perché se ne stava lì ad aspettarlo.
Ma stette zitto rispettando la sua volontà.
Comprese del suo interlocutore la necessità e l'obbligo di ascoltarlo, e così fece.
- La tua mente non è ancora pronta a comprendere. Ciò che stai cercando, lo troverai racchiuso in quel libro. -
Alzò la mano per indicargli quanto lui teneva saldamente stretto fra le sue braccia.
- Il mio consiglio è anche quello dei miei fratelli! Scendi queste scale e chiudi la botola. A mente sgombra fai ritorno alla tua dimora. Apprendi ciò che ti servirà sapere dalle parole che il nostro precedente custode risulta aver tracciato su quel taccuino.
Esse sono la sua eredità.
Corrispondono a pura e sacrosanta verità, stanne pur certo. In quelle pagine potrai trovare ogni ragione, ogni vincolo, ed ogni scopo che ci spinge ora ad essere qui. Attendenti.
Adesso e per il tempo che verrà! - s'interruppe l'essere augurandosi avesse inteso.
- Ora è tempo che tu vada. - gli disse.
Daniele decise di dar retta a quelle parole. E senza avanzar pretesa si diresse verso la botola per accedere al piano sottostante.
Questa volta però lo fece senza l'obbligo di cadervici dentro.
Stava per scomparire con la testa all'interno del vano riposto sotto a quel pavimento quando, un pensiero, improvvisamente, lo venne a cercare.
- Il mio consiglio è anche quello dei miei fratelli? -
Così aveva sentito dire.
- ...ogni ragione che ci trattiene qui? -

Luca Inglese

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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