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Autore: Milka Gozzer
Il gatto di Depero
Romanzo Storico
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Il gatto di Depero
Mi chiamo Luigi Mario Nicoluzzi e sono morto. Ho vissuto attraverso quello che un illustre storico ha chiamato il “Secolo breve”. Nacqui il 7 dicembre del 1901 in un villaggio ai confini dell'Impero, Mori, a meno di un giorno di carrozza dalle brezze salubri arcensi e della riviera del Garda. Dalle finestre della bottega, verso marzo, si scorgevano colonne di mezzi con le penne colorate anticipate dal frastuono dei cavalli che scendevano come una folata di vento dal Nord e facevano alzare in volo stormi di passeri e polvere gialla sulla strada maestra.
“Guarda, sta passando il re!”
Io e mio fratello ci mettevamo in ordine la casacca e scrollavamo i piedi per togliere la segatura, ma, anche se sbattevamo forte, i trucioli di ulivo restavano aggrappati ai nostri capelli, alle maniche, alle scarpe e persino alle ciglia. La segatura ti si infilava dappertutto e spesso dovevi grattarti di nascosto, ché non era educazione, soprattutto quando passava il re.
Mia madre, che era nata ad Arco e aveva vissuto l'infanzia accanto ai nobili, teneva alle buone maniere. Ma io dubitavo che dai finestrini di quelle nobili carrozze potessero scorgere all'interno della bottega un ragazzino che si grattava il sedere per il fastidio di qualche truciolo volante. Le due minuscole finestre che si affacciavano sulla strada a una distanza di sessantanove passi dal ciglio della via avevano i vetri opachi e le cornici ricoperte di polvere e ragnatele dorate a causa dei residui del legno. Se dai finestrini delle carrozze avessero potuto notare qualcosa, in ogni caso non avrebbero avuto alcun interesse nei riguardi della bottega di un falegname che costruiva le gambe dei tavoli e delle sedie dove mangiavano e si sedevano i nobili stessi per discorrere amabilmente di politica e di poesia.
Nella bottega entravano tuttalpiù i loro domestici per gli ordini e il ritiro della merce. Il passaggio delle carrozze anticipava le commesse e, si sperava, le corone nelle tasche di mio padre. Quante gambe di tavolo avremmo dovuto preparare quella stagione? Mio fratello Italo si lamentava: “Star qui a lavorare questo nostro legname pregiato per quella cricca nobiliare. L'America è il nostro futuro, padre!”. Mio fratello maggiore era molto ambizioso. In famiglia era quello che aveva più fiuto per gli affari. Effettivamente è stato grazie a Italo se dopotutto siamo ripartiti e abbiamo potuto mangiare in tempi in cui anche chi era stato ricco e benestante se la passava piuttosto male.
Mi riferisco a un uomo in particolare. Un artista che, malgrado quello che è accaduto fra di noi, spero sempre di poter incontrare, sì insomma, qui in giro da qualche parte.
Nutro rispetto per l'arte; per gli uomini e le donne che creano ogni forma di arte. Capisco che oggi l'attualità ne imponga una certa visione riduttiva, ma io sono un po' all'antica. Amo la musica, scrivo e curo la calligrafia, coltivo i miei vezzi. Leggo alla rovescia e compongo frasi palindrome.
ora non aro
a voi giova
allega pagella
Disegno, dipingo, copio da altri dipinti, modello il legno. Le colonne barocche, il
rivestimento del parapetto del loggione e i palchi di testa del Teatro Zandonai sono opera mia. E suono, naturalmente. Con lo “strumento reale” ho partecipato a venticinque stagioni liriche. La prima fu con la Butterfly.
Sì, amo anche il teatro, certo, e conservo nel cuore una fotografia che il maestro Zandonai stesso ha autografato per me dopo un concerto dove lui aveva diretto noi orchestrali. Un'immagine di profilo, perché Riccardo aveva un bel profilo, profondo, e lo sguardo scrutava in avanti, chiaro e ampio come la “Z” del suo cognome, che disegnando la pancia di un otto decorava la punta del fazzoletto bianco nel taschino.
Riguardo all'arte e ai veri artisti, ripeto, non ho mai avuto pregiudizi e non mi sono mai piaciute le ingiustizie.
Può sembrare strano, ma quando sei morto non nutri rancore. I fatti belli e brutti ti appaiono come sulle pagine di un romanzo. Spesso mi sorprendo di aver vissuto quello che ho vissuto senza che io lo avessi cercato, a differenza di Fortunato che invece si dannava come un ossesso. Un fuoco aveva dentro, avrebbe potuto incendiare la mia bottega e tutto il legname ammonticchiato, se solo avesse voluto. Adesso che sono morto vedo chiaramente la natura di quel fuoco e penso ancora a quel dannato gatto. Sì, un gatto di legno. Rifletto spesso su quante possibilità ci fossero. Passo il mio tempo a formulare ipotesi, così, per non annoiarmi. Con il senno di poi è pieno il cimitero, diceva mio padre. Appunto.
Non ho rimpianti però, sono solo curioso. Un po' lo sono sempre stato. Se qualcuno di voi pensa che da morti si trascorra il tempo a dannarsi per gli errori compiuti in vita, ebbene s'inganna! Passo la mia morte proprio come ho passato la vita: ragionando e ripercorrendo con criterio i fatti e i risultati delle mie azioni e di quelle degli altri, perché ho sempre creduto che un certo ordine nell'esposizione di un avvenimento porti a una sua completa, migliore comprensione, e spesso anche a qualche sorpresa inaspettata. Devo ammettere che da vivo questo tipo di esercizio mi faceva innervosire quando individuavo i miei errori oppure prendevo consapevolezza delle malefatte compiute da altri. Il mio aspetto era testimonianza del mio carattere inquieto, come nell'arte talvolta la forma allude a uno stato d'animo: la rotondità per la leggerezza, gli spigoli per le difficoltà. Sono sempre stato magro come un chiodo, e consapevole che il mio aspetto non fosse affatto affascinante. Un naso troppo lungo e secco, un viso a forma di triangolo isoscele rovesciato, una stempiatura spiccata su una fronte che pareva non finisse mai quando la esploravo con il pettine allo specchio, sopracciglia rade che avrebbero presupposto la presenza sottostante di iridi chiare, ma invece, a differenza degli occhi verde-acqua di Anna, i miei erano semplicemente nocciola.
Gli occhi di Anna, la bellissima Anna, dotata come mia madre di un nome palindromo, li ho visti per la prima volta alla maratona del 1922, lì in mezzo alla folla che era accorsa nella piazza per fare il tifo per noi che correvamo in mutande per una medaglia di latta. Quel giorno persi il podio per rincorrere quegli occhi, non ho potuto più staccarmene, ma poi sono stati loro ad andarsene prima di me.
Adesso che sono morto faccio esattamente le stesse cose, con la mente intendo, ma per fortuna senza perdere la pazienza. Vi rivelerò subito un segreto. Quando sei morto riesci a vedere tutto ciò che è accaduto. Se vuoi, sì, anche i fatti dove non eri presente di persona e che nessuno ti ha mai raccontato. Se li cerchi, si fanno trovare. Quello che non puoi fare è tornare indietro per aggiustare le cose, riparare i torti, vendicare i deboli. Lui, il maestro Fortunato Depero, può essere annoverato tra questi ultimi. E anch'io conservo la mia porzione di colpa, almeno per quella storia del gatto.
Eravamo entrambi figli di padri senza grandi mezzi. Fortunato nacque nove anni prima di me, nel 1892, nel paese di Fondo in Val di Non, una valle che all'epoca non era famosa per le mele, ma per la quantità di preti e di suore che regalava alla Chiesa. La famiglia Depero era molto pia. Il padre puliva camini, ma in seguito fu assunto come guardia del carcere imperiale di Rovereto. Ecco perché le nostre vite si sono intrecciate.
Era un omaccione grande e grosso come un armadio il padre di Fortunato. Aveva un paio di baffoni neri e le sopracciglia ispide incrociate come un lupo, ma si commuoveva per un'inezia. Aveva una sensibilità, povera anima, che all'epoca non era concesso esternare a un umile padre di famiglia. Al suo figliolo voleva un gran bene. Vedeva che in quel suo ragazzo, che la madre aveva voluto chiamare Fortunato perché una mano al destino la si può dare anche con un nome di battesimo, c'era una luce speciale, il destino dei grandi.
La città di Rovereto in quei primi anni del Novecento era un fiorente centro di commercio e di cultura. Mio padre quando vi andava diceva che lì tutto funzionava a puntino, molto meglio che nel villaggio dove abitavamo. La posta veniva consegnata due volte al giorno, le vie erano pulite e ben illuminate, l'acquedotto raggiungeva tutte le abitazioni e non era necessario recarsi con i secchi al pozzo. Nessuno era analfabeta e i treni e gli altri servizi di trasporto erano puntuali e regolari. Presto tutto sarebbe mutato, ma intanto commercio, soldi, opifici e cultura dilagavano lì come in nessun altro centro del Trentino, neppure nello stesso capoluogo. C'era una scuola, la Realschule, la scuola reale dedicata alla regina Elisabetta. Se si voleva diventare un artista e non si avevano i mezzi per andare a Merano, a Vienna o a Torino, la Scuola Elisabettina era l'istituto adatto. Fu lì che Fortunato imparò le prime tecniche del disegno, della forma, delle geometrie.
Era una scuola speciale, che sfornò tanti artisti. No, io non la frequentai, per tante ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare qui e ora. Dirò solo che ci sono uomini destinati all'arte che lottano fino a sfinirsi per realizzarla. E poi ci sono uomini che si accontentano di contemplarla e sono felici di esserle stati accanto. Io faccio parte di questa seconda categoria.
Un uomo si riconosce anche da come affronta la morte. Io posso ben affermare di aver avuto una dipartita serena, e, se considero tutta l'acqua che è passata sotto i ponti dall'inizio di questa storia, devo ammettere di essere stato molto fortunato.
Lui invece, malgrado il nome con il quale lo hanno battezzato, non ha avuto fortuna. Con tutte le peripezie della sua vita, Fortunato Depero avrebbe dovuto ricevere infinite ricompense, e non mi riferisco soltanto a questioni materiali. Non esagero quando affermo che è morto tra gli stenti, battendo i denti per il freddo. A vent'anni avrebbe disegnato una smorfia sulla sua bizzarra faccia caucasica. Si sarebbe fatto una scorpacciata di ravioli cucinati da Rosetta e poi sarebbe uscito di gran carriera e avrebbe ricominciato a combattere più risoluto che mai. A sessantotto, dopo una vita in cui la tua arte è stata fugacemente celebrata e diffusamente derubata, le forze ti mancano. Anche se hai il cuore di combattere fino all'ultimo respiro, quello che ti resta addosso è una vecchia camicia da notte di flanella troppo leggera per le prime gelate e l'umidità novembrina di una vecchia casa la cui stufa si è inghiottita ormai da tempo tutta la legna da ardere.
A sessantotto anni riusciva a malapena a rimanere seduto sul bordo del letto con lo sguardo rivolto altrove, nel vuoto, verso una finestra dove un cerchio di luce opaca proiettava un bagliore pallido. Una luce stremata come il suo corpo che sussultava sotto un'umida veste da notte. Avrei dovuto correre da lui con quel maledetto gatto di legno in mano e spiegargli per filo e per segno come sono andate le cose. Ora non starei qui a pensarci.
Vi raccontavo della falegnameria che mio padre possedeva a Mori ai primi del Novecento. Perché viene fuori la bottega di mio padre adesso? C'è sempre un motivo, fidatevi. In ogni caso, quando si è morti i pensieri saltellano qua e là in uno spazio siderale e, talvolta, senza una ragione precisa, ritornano nello stesso punto e si affacciano alla memoria come oggetti curiosi che non ricordavi più di avere maneggiato.
[...]
“Ce ne voleva di coraggio a salire su un piroscafo al porto di Genova in autunno nel 1928 con in tasca qualche indirizzo da verificare allo sbarco e scarsi mezzi finanziari: gli aiuti che dovevano arrivare sfumarono poco prima dell'imbarco. Ci voleva volontà per esplorare il mercato americano smozzicando appena qualche parola di tedesco – Depero non sapeva l'inglese –, eppure Fortunato era molto più avanti degli americani quando decise di traslocare oltreoceano con le sue idee, con i suoi pupazzi smontabili, pronto a trasferirli nell'arte decorativa e nella pubblicità. L'arte è fare e disfare e rifare.
Il verbo riciclare non era ancora diffuso, ma Fortunato già lo conosceva. Nel Trentino dove era nato si pronunciava di frequente questo adagio: “No se buta via niente”, comprensibile senza bisogno di traduzione, che indicava come in una casa con pochi mezzi materiali occorresse non gettare neanche un avanzo di crosta di pane. Molti suoi coloratissimi quadri di stoffa furono realizzati usando stock di materiali rimasti inutilizzati durante le sperimentazioni per il teatro che in Italia non trovarono mai un palcoscenico, ma a Broadway diventava reale ciò che nella penisola era pura utopia.
I manifesti per lo spettacolo dei Balli Plastici – vi ricordate? –, quei manifesti che mancavano nel baule verde dove invece c'era il bozzetto del gatto, se li era disegnati lui stesso per la necessità di richiamare gente al suo spettacolo. Furono il primo passo verso il nuovo mondo della pubblicità.
Oggi sullo schermo compaiono miliardi di réclame che durano pochi secondi. C'è qualcuno che, anche in questo istante, si concentra per inventare un messaggio accattivante. Qualcuno che probabilmente ignora il fatto che ci fosse una volta qualcun altro che impiegava il suo talento per inventarsi un quadro pubblicitario. Fortunato era un pittore che si rifiutava di isolare la sua arte dentro il perimetro di una tela. La proiettava ovunque, anche sulla bottiglia di un aperitivo. Chi direbbe oggi che il flacone a forma di calice rovesciato del Campari è stato inventato cent'anni fa?
“La vostra arte durerà per sempre, maestro” gli dissi con trasporto salutandolo poco prima della partenza per l'America.
“Sai, Mario, è ora di finirla con il riconoscimento dell'artista dopo la morte” rispose.
Scoppiai in una risata aperta. Sentivo già nostalgia di lui e mi augurai di rivederlo presto.

Milka Gozzer

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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