Prologo Mio padre mi fece accomodare su uno sgabello, i piedi rimasero penzoloni perché era troppo alto; avevo solo sei anni, quando mi avvicinai per la prima volta al pianoforte. Lui si sedette accanto a me, non mi lasciava mai da sola. Ero la sua principessa e lui il mio principe: mi amava, come solo un padre può amare sua figlia. - Ti faccio vedere come il tuo papà suona il pianoforte, tesoro - mi disse con voce dolce. Appoggiò le lunghe dita sui tasti con delicatezza, come se stesse accarezzando il mio volto, e una dolce melodia si librò nell'aria. Con gli occhi sgranati dalla meraviglia, io sorrisi e misi le mani sopra alle sue. Mio padre non aveva potuto studiare in una scuola di musica a causa della guerra, così un organista di una chiesa aveva avuto la pazienza di insegnargli quella nobile arte. Si recava tutti i giorni nella piccola casa di Dio, dopo aver aiutato suo padre nel giardino, e passava delle ore insieme al suo maestro, travolto da sonetti, ballate e dalle più grandi opere dei più importanti musicisti della storia. Quando diventò abbastanza bravo, prese il posto dell'insegnante, iniziando ad animare ogni domenica la messa della mattina. Dopo la mia nascita, la sua passione sono diventata io, almeno così diceva quando mi portava in giro. Perciò aveva deciso di insegnarmi a suonare il pianoforte, voleva che le sue due più grandi passioni si fondessero. Passavamo giornate intere su quei tasti, e lui non alzava mai la voce con me, mentre crescevo insieme all'amore per la musica. A volte mi sottraeva alle faccende di casa per farmi esercitare. - Un giorno tu prenderai il mio posto, tesoro. - Io non capivo cosa intendesse, o forse l'avevo intuito, ma non volevo accettare che succedesse. Non potevo pensare di svegliarmi una mattina senza poter più andare a chiamarlo nella sua stanza, oppure di non suonare insieme a lui in chiesa. Scacciavo sempre l'idea, avevo tutta la vita da passare con mio padre. Eppure quel momento arrivò, troppo presto, freddo come un giorno di inverno senza luce, senza calore, senza sorriso; si avventò sulle nostre vite con prepotenza, come una lama che trafigge il ghiaccio. Avevo solo dodici anni, età in cui gli adulti ti nascondono la realtà per non farti impressionare; o magari non me lo fecero sapere perché dire la verità a una bambina avrebbe significato ammettere l'ovvio. Era il 4 gennaio 1960. Avevo un vestito lungo color glicine, coperto in parte dai miei lunghi capelli biondi, talmente biondi che sembravano quasi bianchi. Ero andata, come al mio solito, in chiesa a provare, convinta di trovare mio padre ad aspettarmi. Ero stata in paese a fare acquisti e avevo perso la cognizione del tempo. La chiesa era vuota, buia e fastidiosamente silenziosa. - Papà? - chiamai, senza ottenere risposta. Quell'atmosfera gelida mi stava entrando nella pelle, e avevo timore di andare oltre la soglia, come se ci fosse qualcosa in agguato lì dentro. Un animale feroce. La verità. E invece tutto taceva. Non so cosa mi fece indietreggiare e tornare a casa. Cominciai a sudare freddo, avevo paura; una paura matta che non sapevo spiegarmi. Il mio cuore batteva all'impazzata, come se già sapesse cosa stava succedendo ancor prima della mente. Pensai che probabilmente papà avesse fatto tardi; mi stavo facendo inutilmente prendere dal panico, quando avrebbero potuto esserci un sacco di ragioni per cui magari lui non era in chiesa. Eppure un assurdo presentimento si avvinghiava alla mia anima e la strangolava, mi sentivo come se fossi caduta in un lago ghiacciato e sopra di me spirasse un vento inverosimilmente gelido. Davanti a casa trovai dei miei parenti che non vedevo da una vita. Zia Concetta, una sorella di mia madre che veniva a trovarci solo a Natale, perché era ancora zitella e non voleva passarlo da sola, non voleva farmi passare. - Che succede, zia? - sbraitai. - Devo andare da mio padre - continuai, mentre lei mi bloccava il passaggio. Mi prese per una mano e mi allontanò nuovamente dal mio obiettivo. - Tuo padre non sta tanto bene, Vale. - - Che cos'ha? - chiesi spaventata, come se sapessi già come sarebbe continuata la conversazione. - Febbre alta - mi disse lei, mentre io correvo in casa. Travolsi tutti, non mi curai neanche di dire - permesso - o - scusate - . C'era il mio papà in quel letto, e tutte le persone curiose non avevano alcun diritto di essere là. Andai dritta nella sua stanza e trovai mia sorella in piedi fuori dalla porta. Aveva la faccia pallida, potevo notarlo anche alla luce fioca della lampada. - Michela, che fai qui? - domandai. - Non riesco a entrare. Ho paura. - Aveva otto anni allora, ma era abbastanza alta per la sua età; del resto i nostri genitori lo erano, quindi non poteva essere altrimenti. La presi sottobraccio ed entrammo. Tutti uscirono per lasciarci sole con lui, anche la mamma. - Gli farà bene vedervi insieme e unite, come siete sempre state - ci disse. La stanza era avvolta da una luce tenue: le persiane erano serrate, per tenere il freddo fuori. C'era solo l'abat-jour acceso che illuminava il volto di nostro padre, disteso nel letto sotto alle coperte. Tossiva. Michela non comprendeva. Io avevo visto il viso di mia madre come non mi era mai apparso, scavato e scosso; negli occhi si rifletteva il suo cuore spezzato, talmente tanto da esserne rimaste solo le briciole. Avevo capito. Il mio compito, in quanto primogenita, era quello di mandare giù quel boccone amaro e di sostenere mia sorella. Papà era madido di sudore, aveva gli occhi chiusi e respirava a fatica. Lo chiamai timidamente. Lui aprì appena gli occhi; aveva una benda umida sulla fronte, forse per cercare di far scendere la febbre. - Principesse - mormorò, accennando un sorriso. Noi ci appoggiammo sul suo petto che si sollevava a fatica. - Ora sei tu l'organista di famiglia, Vale. - Io mi alzai di scatto; sentirmi dire quella frase aveva reso tutto definitivo, ma non ero capace di affrontare la situazione. - No, non sono pronta. Non puoi lasciarci. Starai bene, vedrai. - Anche Michela sollevò la testa, guardò me e poi papà, capì senza volerlo. Lui sorrise. - Lo sei. - Chiuse gli occhi, ma respirava ancora. - Papà... non andare via - mugolai, come se la mia voce riuscisse a trattenerlo con noi, strappandolo a quel qualcosa che lo stava trascinando giù. Mamma ci raggiunse e si sedette accanto a noi, recitando il rosario. - Papà... ti prego. No - urlai con tutta me stessa. La litania delle preghiere nelle orecchie accresceva il mio panico. - Ave Maria, piena di grazia... - recitavano le donne, mentre io continuavo a gridare di non lasciarmi. Mia madre mi accarezzò la testa, e solo così mi calmai. Appoggiai il capo sul petto di nostro padre, come mia sorella; mi ricordai di quando eravamo piccole e avevamo paura dei mostri. Rimanemmo cullate dal suo respiro sempre più lento e affaticato, finché ci addormentammo. I momenti passati con lui fecero breccia nella mia mente, sembrava un film, uno di quelli che trasmettono nei cinema d'essai. E più vedevo il suo viso nei miei pensieri, più il cuore sanguinava e le lacrime scendevano a fiumi. La mattina dopo, eravamo tutti per strada vestiti di nero, le donne con i veli sul volto e gli uomini con i cappelli. Al momento di dargli l'ultimo saluto, mi parse di vederlo seduto davanti all'organo dove eravamo soliti suonare insieme. Io gli sorrisi, lui mi fece un cenno, per poi scomparire. E, con lui, svanì anche la mia passione.
Alessia Di Palma
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