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Autore: Alessandro Spalletta
Il Volo del Grifone
Romanzo Storico
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Il Volo del Grifone
Il destino di un eroe. Il romanzo storico del medioevo italiano.

Castelfranco di Paganico, A.D. 1334, martedì 4 gennaio
Iniziò a piovere.
Grosse gocce che cadevano fitte. Bagnavano le pietre scure della chiesetta e si abbattevano schizzando sulla terra battuta della piazza.
Quando cadevano addosso si sentivano, quelle gocce. Erano pesanti. Tintinnavano contro il metallo delle cotte di maglia e sul cuoio delle giubbe. Risuonavano sugli elmi e sugli scudi come sorde campane. Avrebbero lavato via il sangue.
I due guerrieri si fronteggiavano. Emanavano un'aura di potere. Decine di occhi li guardavano, ma era come se nessun altro esistesse. Là, al centro del cerchio, avrebbero avuto tutto lo spazio per muoversi liberamente. Nessuno si sarebbe intromesso, per nessun motivo.
Uno indossava un'armatura brunita. Era un oggetto magnifico: le piastre erano leggere ma resistenti e le giunture erano ben oliate e flessibili. Offriva un'eccellente protezione senza compromettere i movimenti. L'altro, invece, sotto la tunica ricamata indossava una buona cotta di maglia. Lo avrebbe protetto bene dai fendenti e gli avrebbe garantito una maggiore agilità rispetto al suo avversario. Alcuni anelli si erano rotti sul fianco. Del sangue era colato sul metallo, ma era stato solo un colpo di striscio e la ferita non sembrava affaticarlo. Ci sarebbe voluto ben altro per impedirgli di battersi.
Sguainarono le spade.
- Sapete a chi è dedicata questa chiesa? - , domandò quello con l'armatura brunita.
- No. Ditemelo voi. -
- A San Michele Arcangelo. -
Non appena ebbe finito di parlare, si mise a ridere. Era una risata forzata, come se faticasse a uscire, ma il petto volesse farla venire fuori a tutti i costi.
Il suo avversario sorrise. Si voltò verso la chiesetta. Era un edificio modesto, con la facciata spoglia sormontata da un piccolo rosone. Niente a che vedere con la magnificenza delle grandi cattedrali, ma aveva una sua dignità. Era una bellezza solida, senza fronzoli, semplice come la pietra di cui era fatta.
Eterna, come la lotta che celebrava.
- San Michele Arcangelo... - , ripeté quello con l'armatura scura, parlando tra sé.
- Appropriato, non trovate? - , aggiunse alzando la testa, - voi e io, uno di fronte all'altro, con le spade in pugno. Pronti a combattere come l'Arcangelo e il Drago. -
Il bene e il male.
Chi era l'uno e chi l'altro, si domandò.
Nella sua mente, nessuno gli rispose.
- Voi chi pensate di essere? - , gli chiese il suo nemico, come se avesse letto nei suoi pensieri.
Quello con l'armatura scura scosse la testa. L'acqua grondava dai capelli che un tempo erano stati neri come l'ala del corvo.
Glielo aveva già detto, tanto tempo prima. Erano uguali loro due. Se ne era dimenticato?
La coscienza taceva, ma una cosa l'aveva capita. Lui era stato il ghiaccio e il suo avversario di una vita, là davanti a lui con la spada in pugno, era stato il fuoco.
Una giusta fine.
- Il bene e il male... sapete? Credo che in questo mondo non esista niente di tutto questo. Tutto è grigio, in questo mondo. Il bianco e il nero non esistono. Siamo figli di quello scontro - , disse, indicando la chiesa con la spada, - schegge di bianco e di nero che si sono fuse. -
Per un lungo momento si udì solo il fragore della pioggia.
L'altro alla fine annuì.
- È tutto grigio - , disse ancora il primo, osservando la lunga cicatrice sul volto del suo nemico, - ma voi, forse, siete più bianco di me. -
Fece un passo avanti e abbassò la celata dell'elmo.
- Vi ringrazio - , rispose l'altro. Prima di abbassare a sua volta la celata, sul suo viso c'era una strana espressione, a metà tra una smorfia e un sorriso.
- Facciamo parlare le nostre spade, adesso. -
La sua voce risuonò metallica dentro l'elmo.
- Canteranno una canzone che parla di bene e di male, di libertà e di oppressione. Sarà una musica epica e terribile. Suoneranno, come la spada di San Michele e gli artigli del Drago. -
Attraverso l'elmo, i suoi occhi bruciavano come il sole, guizzavano come fiamme ardenti.
- Sarà un canto memorabile. -
- Avete ragione, messere. Sono sicuro che lo sarà. -
A un passo l'uno dall'altro, si guardarono negli occhi.
Fuoco nel ghiaccio e le spade finalmente si incrociarono.
Nonostante la pioggia, sprizzarono scintille.

PARTE PRIMA
Malia
CAPITOLO 1
Campagna toscana, nei pressi del Monte Amiata, A.D. 1331, martedì 2 luglio

La salita sembrava non finire mai.
Era già da qualche giorno che si inerpicavano sulle colline e continuavano a salire. Malia era convinto che avessero sbagliato strada da qualche parte più a valle, ma il vecchio Iro sembrava sicuro del fatto suo.
- Si muore di caldo - , borbottò il ragazzo per l'ennesima volta. Stava grondando di sudore.
- Ci credo, con tutto questo salire ci stiamo avvicinando al sole - , gli rispose Iro. Poi scoppiò a ridere.
Malia lo mandò al diavolo con un'occhiataccia.
- Siete sicuro piuttosto che non abbiamo sbagliato strada? -
- Tutta questa gente ci seguirebbe se fossi così rimbambito da aver dimenticato la strada? -
Malia si concesse una smorfia ma dovette ammettere che Iro era tutt'altro che un rimbambito. Era un cacciatore e conosceva la bassa Toscana palmo a palmo. Il punto era che Malia non vedeva l'ora di arrivare. Si voltò sulla sella per guardare dietro di sé.
La lunga fila di uomini in marcia li seguiva senza battere ciglio, con le lance poggiate sulle spalle e lo scudo col Grifone armato di spada appeso dietro la schiena. Molti avevano una daga o un pugnale che pendeva dalla cintura, altri invece avevano preferito portarsi dietro la roncola con la lama ricurva, un oggetto con cui sicuramente avevano più familiarità.
Camminando chiacchieravano tra loro. Ridevano e scherzavano, ma si capiva che erano impazienti di arrivare almeno quanto Malia.
- Con un buon cavallo, da Grosseto, ci potreste mettere un paio di giorni. Forse anche meno, se non vi importa di avere un buon animale sulla coscienza - , spiegò Iro, - ma a piedi e con quei carri ci vuole quasi una settimana. -
Erano partiti da Grosseto cinque giorni prima e avevano fatto il possibile per marciare in fretta. Malia sperava ardentemente di arrivare entro sera.
La loro meta era Arcidosso.
Nonostante la morte di Castruccio Castracani e l'incredibile smacco che i grossetani avevano inferto all'orgoglio imperiale, la guerra contro i ghibellini non era ancora finita. I senesi avevano continuato a combattere contro i sostenitori dell'Impero senza un solo anno di tregua. Ormai non restava quasi più nulla ai conti Aldobrandeschi e agli altri signorotti che avevano supportato l'imperatore Ludovico di Baviera. Le loro rocche erano cadute, una dopo l'altra.
In quei giorni, un esercito senese guidato da un certo messer Guidoriccio da Fogliano era riuscito a intrappolare nientemeno che il conte Jacopo Aldobrandeschi nella rocca di Arcidosso.
Siena e Grosseto non erano propriamente alleate. I Nove erano sempre a caccia di terre come un branco di lupi famelici va a caccia di agnelli e a Grosseto nessuno provava simpatia per Siena e i suoi governanti; tuttavia per la preda che questo messer Guidoriccio aveva braccato valeva bene la pena di chiudere un occhio.
Il Conte Jacopo Aldobrandeschi era il responsabile del terribile assedio che aveva devastato Grosseto e la Maremma tre anni prima. Gli uomini della spedizione grossetana, guidati da Malia, il figlio del Capitano del Popolo, erano veterani dell'epica battaglia combattuta sulle mura cittadine. Con ogni probabilità, ognuno di loro aveva perso uno o più compagni in quei cruenti giorni di settembre dell'anno del Signore 1328. Lo stesso Malia non faceva eccezione. Amici erano morti e anche fratelli, figli, padri. Madri.
- Speriamo che i senesi non se lo lascino sfuggire un'altra volta - , aveva commentato Iro, riferendosi al Conte.
- A quanto so, anche tre anni fa a Grosseto gli uomini di Filippo Bonsignori hanno fatto del loro meglio per catturarlo. Anzi - , aggiunse Malia, - mio padre mi ha detto che proprio messer Bonsignori lo ha ferito. Non è riuscito a ucciderlo solo perché il Conte è fuggito con la coda tra le gambe. -
- La conosco anche io questa storia, anche se non l'ho vista coi miei occhi. -
Mentre il Conte fuggiva, Iro stava combattendo nei pressi della Porta Vecchia. Grazie alle prodezze che aveva compiuto quel giorno era diventato famoso in città. Veniva trattato da eroe, quasi quanto il capitano Bino degli Abati del Malia.
- Quel Filippo non mi piace per niente - , commentò ancora il cacciatore, - deve avere le corna nascoste tra quei riccioli da damerino e la coda arrotolata sotto il farsetto. È un diavolo, lo dice sempre anche il Capitano vostro padre. Bisognerà fare attenzione, con lui. -
Malia mugugnò un assenso.
Era molto giovane, poco più di un ragazzo, il secondogenito di Bino degli Abati del Malia. Assomigliava molto a suo padre, a parte i capelli che tendevano al biondo, colore che aveva ereditato dalla madre Agnese. Era un po' più basso di Bino, ma aveva lo stesso fisico robusto e scattante che il padre aveva avuto in gioventù.
Quando aveva solo sedici anni, Malia aveva partecipato alla battaglia di Grosseto. Aveva combattuto davanti a tutti, sulle mura rese scivolose dal sangue, e non aveva paura di incrociare la spada con nessuno.
La prospettiva di avere a che fare con Filippo Bonsignori tuttavia non lo faceva stare tranquillo. Sin da quando era un bambino, aveva sentito parlare di questo senese come del più velenoso dei nemici.
- Comunque, per quanto riguarda il Conte, sono sicuro che Filippo Bonsignori vorrà vederlo morto almeno quanto voi - , aggiunse ancora il cacciatore, - lo sapete, no? Quel giorno a Grosseto... ha perso una mano proprio a causa di Aldobrandeschi. -
Malia lo sapeva bene. Filippo Bonsignori, il nemico giurato di suo padre, aveva rischiato la vita pur di provare a difendere Agnese di Masserizia, la madre di Malia e moglie di Bino. Non ci era riuscito.
Il ragazzo non rispose. Si limitò a stringere più forte le fettucce di cuoio delle redini. Gli sarebbe rimasto un solco sul palmo delle mani nonostante i guanti.
Sì, Filippo Bonsignori sicuramente voleva vendicarsi, una mano persa era una ragione sufficiente. Malia però aveva una motivazione persino migliore: aveva visto la propria madre in un lago di sangue, sventrata dalla spada del Conte.
Quel bastardo di Jacopo Aldobrandeschi sarebbe morto per mano sua.
Erano stati giorni davvero terribili quelli dell'assedio. Una piccola città come Grosseto si era ritrovata ad affrontare un esercito almeno dieci volte superiore numericamente rispetto ai difensori. I migliori cavalieri imperiali avevano provato a scalare le mura ed erano uomini degni di popolare i peggiori incubi. Mercenari germanici, guerrieri violenti e dannatamente abili, veri giganti che impugnavano spade e asce affilate come rasoi.
Ci volle più di una settimana per contare i morti. Anche se ormai erano passati tre anni, la carestia era ancora uno spauracchio quasi peggiore di quei tedeschi armati fino ai denti che avevano assaltato le mura. Moltissimi tra i caduti erano contadini e a Grosseto non c'erano più abbastanza braccia per lavorare la terra.
Eppure avevano vinto. Contro ogni logica, contro ogni ragionevole previsione. Bino degli Abati del Malia era riuscito a guidare la sua gente verso una vittoria impossibile. Grosseto aveva pagato con il sangue ma aveva conservato il suo bene più caro: la libertà.
Malia si riscosse dai ricordi appena in tempo per accorgersi che stavano per raggiungere la cima di un poggio. Spronò il cavallo al trotto per superare l'altura e si alzò sulle staffe per guardare meglio davanti a sé.
Sopra una collina, a meno di un paio di miglia di distanza, si ergeva la torre di un castello. Era squadrata, con le merlature ben delineate contro il fianco della grande montagna che sovrastava tutto. Sotto la torre, delle mura robuste cingevano un centro abitato che pareva arrampicarsi verso il castello. Più sotto ancora, tutto intorno, c'era un grande accampamento: decine e decine di tende e fumo di bivacchi. Si riuscivano a distinguere anche le figure sgraziate di alcune macchine d'assedio. Non erano in funzione al momento, ma erano posizionate con cura in modo da poter colpire la cinta nonostante il dislivello.
Una folata di vento tese la superba balzana, il vessillo bianco e nero della Repubblica di Siena. Sulle ali dello stesso vento, l'odore penetrante e inconfondibile di un esercito raggiunse le narici di Malia.
Il desiderio di vendetta gli dipinse un gran sorriso sul volto.
Quella era Arcidosso.
Erano arrivati.

Alessandro Spalletta

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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