Anno Domini 1302.
Quella mattina messer Dante Alighieri stava partecipando all'incontro di Gargonza insieme ad altri fuoriusciti Bianchi, desiderosi d'organizzare una prova di forza contro i guelfi Neri di Firenze. Sbadigliò un po' annoiato da tutta quella prolissità, finché Lapo degli Uberti non si rivolse direttamente a lui. - Messer Dante, vi abbiamo scelto come cancelliere nel Consiglio dei Dodici. Avete esperienza politica e una capacità di vergare epistole in latino senza eguali - disse Lapo. - Accettate? - Dante lo squadrò irritato, nonostante il complimento. Si era scontrato con il nobile dieci anni prima, durante la battaglia nella piana di Campaldino. Represse le parole sgarbate che già gli pungevano la lingua e pensò alla sua famiglia ancora a Firenze e alla mancanza di fiorini. - Accetto - alla fine rispose. L'esilio dalla sua città natale lo aveva provato molto. Non si era aspettato d'essere condannato a morte sul rogo. Gli era stato decretato il confino per baratteria, cioè l'accusa d'aver tratto benefici personali dalle sue cariche pubbliche. Lui che si era sempre dato da fare per il bene pubblico. Era stata la fine della sua carriera politica e l'inizio, come per molti altri Bianchi di prestigio, della paura di subire violenze di ogni tipo. Per di più il suo amor proprio era ora umiliato dalla necessità di dover dipendere dagli umori dei protettori che gli concedevano asilo.
I mesi trascorsero veloci e Dante s'occupò sempre più spesso di questioni militari finché a giugno il Consiglio non lo chiamò, chiedendogli di recarsi a San Godenzo a trattare in favore degli Ubaldini. Accettò e si ritrovò ad avere contatti stretti con la famiglia dei Guidi di Romena e con Oberto e Guido, figli di Aghinolfo. In quei giorni i fantasmi lasciati a Firenze lo perseguitarono e lui riprese il poema interrotto a causa dell'esilio. Non provava simpatia per i fratelli di Romena e cambiò più volte giudizio sui clan familiari incontrati. Così, verso la fine del 1302, lasciò Arezzo e si trasferì a Forlì presso gli Ordelaffi. Si trovava in quella corte già da alcuni mesi, quando una sera Dante fu convocato alla presenza del capitano Orderlaffi e di Pellegrino Calvi, a capo della cancelleria. - Messer Dante, penso conosciate la profezia di Gioacchino da Fiore - iniziò il capitano. - Certamente, mio signore. Tratta l'incombere della terza era, quella dello Spirito Santo: pace, ordine, gerarchia e amore. A suo avviso, occorre che un buon principe abbia a fianco un mediatore tra il Pontefice e Cesare, ma prima bisogna individuare appunto un principe - riassunse lui. - Desidero inviarvi in missione diplomatica a Verona, dimora di Bartolomeo della Scala, figlio primogenito di Alberto della Scala, signore della città dal 1301. Forse lui è appunto il principe della profezia che pacificherà le parti. - - Accetto. Sono molto onorato d'andarvi. Faccio parte del governo dei Bianchi e cercherò d'indurre Bartolomeo a unirsi a noi contro Firenze - ghignò sornione. D'altronde chi mai potrebbero mandare? Ho esperienza diplomatica e leggo il latino scorrevolmente, si vantò. Pellegrino Calvi sospirò, forse sollevato che se ne andasse e non cercasse più di scalzarlo. Quando giunse nella ridente cittadina, Bartolomeo, il signore della città, lo accolse con gioia assecondando ogni suo desiderio. Rassicurato dalla tranquillità del luogo, Dante provò la brama di riprendere a comporre il suo poema più innovativo, che aveva chiamato Inferno, e gli serviva appunto un posto calmo dove vergare. Per di più, da alcuni mesi, il desiderio di sottrarsi alla politica lo stava sopraffacendo ed era insoddisfatto degli eventi. Pensò di scrivere un testo dove riscattare il declino dei nobili, interessati soprattutto al vile denaro. - Messer Dante, vi posso consigliare di recarvi nella nostra Biblioteca Capitolare? Troverete testi di Livio, Plinio, Frontino e Orosio - gli suggerì Bartolomeo. Quando mise piede la prima volta nella Biblioteca, i suoi occhi luccicarono e si commosse davanti ai tomi antichi conservati in modo perfetto. Aveva dovuto interrompere gli studi di filosofia e letteratura a causa dell'esilio e fino a quel momento, nei castelli tosco-romagnoli, non aveva trovato biblioteche in grado di soddisfare la sua sete di conoscenza. In quel preciso istante maturò la decisione di rimanere il più possibile a Verona, anche se Bartolomeo non avesse aderito alla causa antifiorentina. Leggere Orosio fu un'esperienza commovente ed esaltante allo stesso tempo; a ogni riga il cuore gli batteva così forte che forse sarebbe balzato fuori dal torace. - Potete rimanere sotto il mio tetto quanto volete, anche se non intendo unirmi a voi nella lotta contro Firenze - sorrise con benevolenza il signore di Verona, che provava simpatia per lui. - In cambio dell'ospitalità forse vi chiederò d'eseguire per mio conto qualche servigio. - Cosa mi proporrà il gran Lombardo ? Forse qualche incarico diplomatico? - Al vostro servizio, mio signore - accettò lui mostrando un largo sorriso.
Rimase alla corte scaligera per una decina di mesi e in quel periodo viaggiò molto nella regione, imparando alcuni dialetti locali, tra i quali il veronese, il veneziano, il padovano e il trevigiano. Lasciò Verona solo nei primi mesi del 1304, alla morte del suo signore, con l'intima speranza che il cardinale Niccolò da Prato, entrato a Firenze, riuscisse a fare da paciere e ponesse fine al suo esilio.
Anno Domini 1312
Vicenza
Nello studiolo privato di Palazzo Podestà, a Vicenza, Cangrande stava leggendo la missiva che gli era appena giunta da spie ghibelline padovane. Si trovava in quella città già dall'inizio dell'inverno per essere pronto in caso di attacco dei guelfi. Il comandante della città di Verona, Federico della Scala, camminava avanti e indietro per la stanza, adocchiandolo ogni tanto. - Perché sei così irrequieto, cugino? - l'apostrofò accigliato. - Da quando sono il signore di Verona, la città si è trasformata in un ricco centro e Vicenza non ci ha resistito. Confido che Padova faccia lo stesso. - - Cosa sostiene la pergamena, Can Francesco? - - La proposta di Rolando da Piazzola è stata accolta. Le aquile imperiali sono state tolte dagli edifici pubblici, dai frontoni dei palazzi e da molte strutture comunali. La popolazione guelfa sta preparando le fortificazioni e i castelli alla guerra! - Dapprima uno sguardo tra l'avvilito e l'eccitato illuminò le iridi di Federico, poi un ghigno gli alzò l'angolo superiore del labbro. - Immagino che le devastazioni e le ruberie sul territorio vicentino non tarderanno a iniziare. - Cangrande squadrò un po' contrariato il parente: la guerra avrebbe prodotto tanti morti sia tra la povera gente sia tra gli armigeri. La ricchezza della popolazione sarebbe calata bruscamente e in città non sarebbero più giunti scultori e pittori con simpatie ghibelline. Fine delle attività filantropiche, sospirò. - Ciononostante son costretto a proporre un accordo: chiedere ai padovani il risarcimento dei danni e la restituzione del bottino, prima di dichiarare guerra - asserì lui. - Concordo, Can Francesco. Tuttavia non abbiamo i mezzi per combattere Padova. - - Intavolerò subito le trattative - stabilì congedando pensieroso Federico. Quando terminò di vergare la missiva, s'avvicinò meditabondo alla stretta finestra della stanza e fissò le vie che riusciva a intravedere. Aveva ordinato da poco la costruzione di spesse mura che proteggessero la città dai nemici e molti lavoranti andavano e venivano dalla cinta. Ripensò alla lotta imminente e alla moglie Giovanna d'Antiochia lasciata sola a Verona. Ricordò la prima volta che l'aveva veduta, una giovane donna di una rara bellezza. - Un tale incanto non può lasciar Verona - borbottò ricordando le parole pronunciate. La nipote di Federico II stava recandosi a sposare un altro nobile. Colpito, aveva deciso d'impalmarla quello stesso giorno e non solo per accrescere il suo prestigio. Se solo avesse concepito, in questi anni, la battaglia incombente non sarebbe tanto dura. Forse, al mio ritorno, potrei far erigere una chiesa in onore della Madonna per il perdono dei miei peccati, considerò pensando alle sue numerose amanti.
Giovanna Barbieri
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