Prologo “Non respiro, maledizione! Se riesco a sfilarla, forse potrò ripararmi.” Non ho nessun'altra risorsa ma affannarsi nel cercare di proteggermi dal pulviscolo e dal fumo maleodorante con la camicetta è diventata un'impresa disperata. Nonostante sia riuscita a sfilarla dalla vita della gonna, non arrivo a sollevarla per portarla alla bocca. Tento assurdamente di slacciare i bottoni guardandomi contemporaneamente a destra e sinistra ma le mie azioni sono confuse, private di una qualsiasi logica indotta dal terrore incalzante; strofinando gli occhi accecati dal fumo, vago senza meta disperando nel poter trovare un qualunque riparo dai proiettili e dalle schegge di cemento e sassi che piovono da tutte le parti. “Laggiù ... laggiù c'è qualcosa...”. Finalmente! È un frammento di parete o di cosa non so, un'origine incerta, forse un muro di cinta o ciò che rimane di una casa abbattuta dalle cannonate; in pratica solo un lembo di cemento e calce e mi affretto nell'accoccolarmi dietro ad essa in cerca di un'improvvisata protezione. Comunque è un luogo sicuro, dove poter strappare quei maledetti bottoni e portare il tessuto alla bocca. Poi, con la coda dell'occhio, intravedo un disegno. A quella vista il mio terrore sembra ammansirsi in una manciata di secondi che trascorrono misericordiosamente lenti, doni inaspettati che infondono, in quel caos assordante, uno strano senso di pace. Così questo è il tramezzo, o meglio ciò che rimane della stanza di un bambino o di una bimba che si divertì a disegnare farfalle. Sfioro, accarezzando con la mano quei disegni infantili, farfalle colorate che volteggiano di fiore in fiore più altre figure di cui non rimane un granché, forse cuoricini e lettere di una frase ormai incomprensibile, ridotta in cocci come il resto della casa. Un urlo mi risveglia improvvisamente. Una giovane donna che serra in petto tra le braccia un fagotto, probabilmente un neonato, mi sta urlando qualcosa che stento a comprendere. Poi alza la mano additando verso la mia direzione. Non oso guardare dietro di me, oltre quel muro, oramai paralizzata dalla paura. Sento la morte avvicinarsi accompagnata da un rombo assordante, una vibrazione che scaturisce dal terreno, così intensa che penetra fra le membra sino alle ossa, aderendo tutt'uno al mio corpo. Chiudo gli occhi sperando in una fine rapida, la meno dolorosa possibile quando qualcosa mi agguanta con decisione il braccio destro, strattonandomi dolorosamente e trascinandomi via. A questo punto immagini e sensazioni si accavallano disordinatamente: l'uomo in divisa d'assalto che mi afferra, il suo volto segnato da una ferita sulla guancia ancora sanguinante e sporca di fango, quel rumore assordante proveniente alle mie spalle e che si materializza in una forma scura, enorme cui risaltano i cingoli che frantumano quel muro, la mia ultima protezione. Non odo più il frastuono stordente, incredibilmente slegato, dissolto da queste visioni devastanti. L'ultima cosa che intravedo, prima di perdere i sensi, è una fiammata continua e ripetitiva fuoriuscire dal mostro di metallo che stava per schiacciarmi e contemporaneamente quella donna con il suo fardello serrato fra le braccia. Non ha smesso di stringerlo per un solo istante, in un ultimo, disperato e inutile tentativo di proteggerlo prima di esplodere come una bomba. Capitolo 1 Risveglio Dove sono? Mi ritrovo, non so come, in un luogo completamente sconosciuto ma stranamente non avverto né smarrimento né scoraggiamento; in contraddizione alla mia personalità osservatrice, sempre attenta nel cogliere ogni singola sfumatura o mutazione degli aspetti volubili del mondo che ci circonda, situazioni che hanno sempre sollecitato la mia curiosità entusiastica che, a detta di alcuni, talvolta sprofonda nell'infantilismo, ora come ora non colgo alcun interesse per esso. È qui, tutto intorno a me, indubbiamente reale ma lo percepisco come qualcosa di più di un semplice “luogo”; è quasi consistente neppure avesse preso le sembianze di un'Entità vivente. Riesco a percepirne la tangibilità in modo stranamente curioso, al pari di un oggetto materiale che posso facilmente palpare, anzi sfiorare con tutto il mio essere, tanto da ritenere le mie mani delle inutili appendici; è avvertibile la sua realtà, dove si sovrappone una natura aleatoria, precaria e incerta, comunque percettibile tanto quanto la mia contradittoria indifferenza per esso. È oltretutto così smisurato che stento a distinguere una qual parvenza di confine, comparabile a un piatto deserto, mi verrebbe da pensare e dovunque volti lo sguardo trovo impossibile scorgerne l'orizzonte. Anche il concetto di tempo è mutato, anzi completamente cancellato ma in quest'assurda situazione qualcosa d'indecifrabile si sta contrapponendo al mio stato di abbandono, una sensazione che lentamente ma inesorabilmente sta affiorando; è diventata così intensa che m'induce a ridestarmi da questa condizione di catatonia, qualcosa mai provata sino adesso. Libertà! Sono finalmente libera da ogni legame con un passato di cui non voglio più farne parte e la conseguente oppressione che m'imprigionava, svincolandomi da incomprensibili tristezze e ansie. Già, incomprensibili; ripensandoci non ricordo più la loro origine, cancellate dalla memoria insieme a fatti e situazioni che sfumano in questa nuova esistenza, immagini fluttuanti che tentano inutilmente di riemergere ma che affosso impietosamente e con convinta risolutezza. Tutto quello che mi circonda, anche se la parola “tutto” non ha più alcun significato, mi appare splendido e meraviglioso, come un sogno e l'inverosimile prende forma, acquista realtà e ... inizio a volare. Sfreccio così rapidamente tra quelle “cose”, simili a nubi bianche e lattiginose, che istintivamente socchiudo gli occhi in un ovvio riflesso di protezione per poi rendermi conto che nulla può più ferirmi. Urlo di gioia attraversando una nube dopo l'altra e poi un'altra e un'altra ancora, cabrando e ruotando su me stessa come un uccello alla sua prima esperienza di volo, ammirando l'ormai lontana terra sotto di me ... la terra ... improvvisamente quelle immagini hanno il potere di riattizzare l'ansia repressa che credevo di aver vinto! Riconosco le strade della città, la campagna e con orrore, le colonne di fumo degli incendi; l'angoscia che sembrava finalmente dissolta, mi afferra con violenza come un artiglio trascinandomi a terra, precipitando senza alcun controllo. Una luce abbagliante si è accesa davanti a me accecandomi impietosamente e a questo si sovrappongono dei richiami incomprensibili, praticamente urlati. Ma cosa dicono? Un nome? Qualcosa che devo, ma non desidero fare? Non voglio... non voglio tornare indietro! Qualcuno mi colpisce... mi fa male... io... io... - Sarah! Svegliati... avanti... non dormire! - - Io... io non voglio! Lasciatemi in pace! - Uno schiaffo mi coglie di sorpresa. È dato con decisione ma lo avverto come se l'impietosa mano fosse avvolta da qualcosa di morbido, al pari di un guanto. Non sento dolore ma la rabbia indotta da quel gesto violento mi assale; vorrei muovermi, alzarmi e urlare di smetterla ma mi sento serrata come in una morsa, rendendomi poi conto che sono bloccata su un letto, afferrata dalla stessa persona che mi sta ordinando di svegliarmi. - Apri gli occhi; Sarah... aprili! Riesci a vedermi? - Che domanda stupida! Ma dove mi trovo? - La luce... spegnete questa luce, vi prego... - - Ecco; così va meglio. Ne sei fortunatamente uscita e ora facciamo in modo da metterti più a tuo agio. Alziamo un po' lo schienale del letto e cerca di non dormire. - - Le mie gambe... non riesco a muoverle... - - Non ti preoccupare; è solo un effetto temporaneo dell'anestesia e fra non molto sparirà. Comunque non muoverti troppo; i punti ti potrebbero far male. - - Punti? Le gambe... il braccio... cos'è? Dove sono? - - Sei in ospedale, mia cara e ringrazia il Creatore di essere salva; poteva essere peggio e, se non fosse stata per la rapidità di quel soldato che ti ha trascinato via, quel carro armato ti avrebbe travolto e nelle migliori delle ipotesi, perso le gambe. - Ecco i ricordi riaffacciarsi e vorrei scacciarli. Sarà il freddo di questa stanza ma non è la sola cosa che m'induce a tremare, senza controllo. Sono terrorizzata e trovo inutili se non bugiarde le rassicurazioni dell'infermiera sugli ovvi effetti collaterali dell'anestesia. Il locale, a detta di lei, è caldo forse anche un po' troppo ma il gelo che sento è intenso; anche le lenzuola mi sembrano bagnate e le immagini violente della battaglia, gli spari, le urla e le imprecazioni dei soldati e della gente impazzita dal terrore si sovrappongono al gelo del tessuto che mi avvolge, diventando tutt'uno... il freddo e la paura... la luce abbagliante della stanza e i lampi degli spari...; poi il sonno torna prepotentemente, invincibile ma con una forza caritatevole che m'induce a chiudere gli occhi. È una liberazione e torno a dormire. Capitolo 2 Prima settimana Perché i miei genitori non sono qui? Continuo a pormi la stessa domanda da giorni, ormai. Anche adesso, mentre rigiro il cucchiaio nella scodella, ancora colma di minestra appena sorseggiata e fissando le piccole stelline di pasta che sguazzano nel liquido ambrato, dando l'impressione di un rincorrersi senza fine, non riesco a pensare ad altro. Eppure li devono aver avvisati ma per motivi a me ignoti, nessuno si è ancora fatto vivo. È quasi pomeriggio, la fine delle visite di parenti, amici e di là dalla porta socchiusa colgo le loro voci un po' festanti, i piagnucolii dei bambini e discorsi frammentati: “Ancora qualche giorno e torneai a casa... sai, tua cugina non smette di chiedere...” e altro ancora, chiacchierii di cui non m'importa un gran che, ma cui sentirò la mancanza fra qualche minuto, quando tutti torneranno alle loro case. Poi il silenzio, rotto da passi svelti oppure i cigolii delle ruote di qualche carrello o lo scampanellio di un degente che desidera dell'acqua per ristorarsi o la padella, piccoli rumori che proseguiranno ininterrottamente per tutta la notte. - Sarah! Non hai ancora toccato niente, neppure l'altro piatto. - Sembra comparsa dal nulla o forse ero così sprofondata nei miei pensieri che non ho nemmeno visto la porta aprirsi; la stessa infermiera cui ricordo il suo sonoro ceffone, il primo giorno per svegliarmi dal torpore dell'anestesia. L'ho odiata quel giorno per poi pentirmene amaramente; d'altronde i suoi modi rudi facevano parte di un copione comune a tutti gli infermieri e medici. Era ovvio, dovevano svegliarmi. In seguito ne apprezzai i modi cordiali, quasi materni come adesso mentre guarda sconcertata quei piatti ancora colmi, preoccupata sinceramente per la mia salute. Dvorak, o Deborah tradotto tra i Gentili, ma io preferisco chiamarla Debby, un termine amichevole, forse un po' americaneggiante ma di uso comune tra noi giovani. - Non hai mangiato niente anche oggi. Come pensi di ristabilirti? Digiunando? - - Non ho fame. - - Devi sforzarti, altrimenti... - - Non si è fatto sentire nessuno. - Le ultime parole le ho pronunciate così, di getto, fissando il vuoto oltre la sponda del letto e lei si è ammutolita. Con la coda dell'occhio la intravedo passarsi una mano fra i capelli, afferrare frettolosamente il vassoio per poi guardarsi attorno, indecisa dove porre quelle stoviglie con il loro inutile contenuto, oramai freddo; poi, accompagnandolo da un sospiro, tenta un mesto tentativo di rassicurarmi: - Devi avere pazienza; vedrai che arriveranno... presto. Al momento devi solo pensare di ristabilirti, nutrendoti adeguatamente. Sei sotto peso e non toccare cibo non ti aiuterà certamente. - - Non è da loro! Sono certa che qualcuno gli impedisca di avvicinarmi. Mia madre poi è sempre stata protettiva, oltre i suoi normali doveri. Ha sempre avuto paura di tutto, anche farmi attraversare la strada da sola. Lo so; non dovrei parlare così di lei. È una donna perennemente sommersa da timori spesso incomprensibili, un'ansia trasmessa da sua madre, la mia povera nonna, deportata dai nazisti in quel campo di concentramento, dove non rivide più i suoi genitori; era ancora una ragazzina... - Mi rendo conto che non mi ascolta o forse sta pensando a come rispondermi e in che modo; colgo un farfugliare sottovoce, qualcosa di cui mi sfugge il significato tranne un mozzicone di frase, pari a una bestemmia: “Per Yahweh!”. Quel nome noi non lo pronunciamo mai; detto da lei, una donna così cara, dolce e materna, mi sorprende e forse non dovrei essere colta da tale sconcerto. Yahweh è il nome di Dio secondo la nostra cultura ed evitiamo di pronunciarla, seguendo i dogmi della Sacra Scrittura: “Non pronunciare il nome di Dio invano...”. Al massimo e sempre con il dovuto rispetto, evitando di scandirlo alla fine di ogni discorso neppure fosse un banale epiteto, come una sterile e scurrile parolaccia, diciamo: Adonai... Maestro. - Cosa mi nascondi? Ti prego, non te ne andare. - - Ho detto che devi avere pazienza! - Sembra scocciata, infuriata e quasi sbattendo il vassoio sul tavolo si precipita verso di me. Che cosa vorrebbe fare? Sgridarmi o addirittura colpirmi, come il primo giorno ma stavolta per farmi stare zitta? È così vicina e collerica che alzo la mano per difendermi ma le sue parole, appena sussurrate, mi colpiscono più di un pugno allo stomaco: - C'è sempre un soldato di guardia fuori dalla porta e potrebbe sentirci. - - Come...? - - Ma cosa ti aspettavi? Non sei stata soccorsa gratuitamente o per compassione; qualcuno ti ha strattonato prima che quel carro armato ti travolgesse perché ti ha riconosciuto, non so come, per un'Israeliana. Cosa damine ci facevi oltre il confine in zona di operazione di guerra? - Io... io... ero la per caso; volevo vedere... - - Ma... che cosa? Insomma mia cara, sai bene come la pensano “gli altri”. In quelle zone ci odiano e se qualche terrorista ti trovava, non avrebbe esitato di rapiti... o peggio. - - Non c'era nessun terrorista... io... - Non riesco a proseguire e le parole che vorrei dire sono represse da un pianto singhiozzante, un'irrefrenabile ansia; è un incubo e non riesco a svegliarmi! Qualcuno mi ha seguito? O sono sempre stata sotto osservazione? E i miei genitori? Sono anche loro controllati, forzatamente tenuti lontani da me? Ora sono sopraffatta da vertigini; tutto ruota intorno a me senza controllo e non riesco a riprendermi. - Debby... aiutami... che cosa vogliono da me? Non ho fatto niente! - - Sono certo che sia così e vedrai che tutto si risolverà. - E adesso che succede? Sembra abbia visto un fantasma, ammutolendosi all'istante per lo stupore. Come un'attrice consumata ha recuperato prontamente il controllo di se, rassettandosi con calma il camice e lisciandolo con le mani: “Devi mangiare...” un ultimo consiglio buttato lì per lì prima di riprendere il vassoio e uscire; infatti, il “fantasma” è là, in atteggiamento sospettoso. Aveva aperto la porta con determinazione ma nel più totale silenzio e mi fissa con attenzione, scostandosi solo un attimo per far uscire Debby e senza distogliermi quello sguardo freddo e inquisitorio. Richiusa la porta, ecco come in un flash-back apparire il volto della persona amata, scomparsa anch'essa tra i fumi dello scontro armato: Francesco; che fine ha fatto? Non ho osato chiedere lumi neppure a Debby. D'altronde Francesco fa parte di quel popolo che la mia premurosa infermiera definisce “gli altri”, non menzionando la loro origine al pari di uno scongiuro, residenti forzati oltre la “Striscia”, impossibilitati a oltrepassare quel confine se non dopo un'estenuante procedura di controllo per non rischiare di trovarsi dinanzi a un terrorista pronto a immolarsi per la sua causa, ma io mi ero innamorata di lui e non è né un “altro” né un terrorista. Era solo un individuo sfortunato, nato in un luogo e in un momento sbagliato, che ha fatto di tutto con incredibili sacrifici pur di laurearsi per poi ritrovarsi a compiere lavori umili. Già, perché questo è il destino degli “altri”. Se non fai parte di noi, ne sei escluso e se non servi alla nostra società in qualche modo, il destino è la miseria, arrabattandosi a lavoretti saltuari in una campagna siccitosa e avara o sprofondando nei tentacoli del terrorismo. È quasi notte; la luce nei corridoi e nelle stanze si attenua ma ora tutto è mutato, trasfigurato. Non odo più i soliti rumori e le voci nel corridoio; sono sovrastate da un passo lieve ma cadenzato, una marcia lenta che nelle notti scorse non avevo fatto stupidamente caso: quello della guardia alla porta. Così sono prigioniera, probabilmente come Francesco e se così fosse, non sarà certamente trattato con i guanti, anzi... Ma no! Si deve essere salvato! In quel caos ci siamo divisi o meglio mi ha scongiurato di non stargli accanto, di prendere tutt'altra direzione. Mi ricordo ancora adesso la sua determinazione nel costringermi ad allontanarmi e il più celermente possibile: - Ti riconosceranno e non ti torceranno un capello! Sbrigati! Quello che indossi sarà la tua salvezza. - Non riuscivo a muovermi e rimasi ferma a guardarlo. I nostri sguardi s'incrociarono per pochi, insignificanti secondi. Era in evidente stato di crisi, sembrava quasi sul punto di piangere, ma seppe controllarsi; poi si voltò, addentrandosi in un viottolo tra due ruderi in fiamme. Da quel momento non l'ho più rivisto. Gli abiti! Già; entrai in una casa, attraverso un uscio privo di porta, divelta da qualche pattuglia di passaggio e all'interno di quella stanza, apparentemente vuota, mi tolsi la semplice veste o tunica (così la chiamavo) che celava il mio vero abito, l'unica cosa che mi avrebbe distinto dal resto della popolazione e imposto dagli usi degli Haredim o Charedì (1), così come si vorrebbe pronunciarlo. Francesco era forse l'unico non israelita che non coglieva un nesso di oltranzismo religioso nel mio abito, paragonandolo a quello indossato dalle donne della sua terra e che rifletteva un medesimo standard di modestia: una gonna lunga, poco oltre il ginocchio, una camicetta azzurra abbottonata sino al collo, una giacchetta anch'essa nera e un foulard del medesimo colore. Ebbi in qualche mese di apprezzare, conoscere gli usi e costumi delle donne locali e, tra più anziane, non potei che condividere questo singolare parallelismo: si vestono in modo simile al nostro, anzi ben oltre celando tutto il corpo sino ai piedi con quel un sudario corvino... il foulard! Quello era l'unica cosa esattamente in comune: un foulard, identità delle donne Haredim e “degli altri”, nero come la pece, l'unica parte di quella “tunica” di cui non mi disfai. Tornai a essere un Israelita, sicura e protetta da Adonai. Mentre ero immobile a guardare quella “tunica” abbandonata a terra, un tenue e provvisorio legame con i concittadini di Francesco, fui colta un fremito indotto da un istintivo senso di pericolo, rendendomi conto di essere osservata alle spalle. Mi voltai di scatto: - Chi c'è là? Chi siete? - Nessuna risposta; mi approssimai a un uscio che conduceva a un locale attiguo, quando li vidi: tre bambini, due maschietti e una femminuccia, quest'ultima abbracciata al più grande dei due. Mi osservavano intimoriti e per non terrorizzarli ulteriormente, mi avvicinai lentamente, con cautela: - Non abbiate paura; sono vostra amica... - . Indietreggiarono e in un istante scomparvero nell'oscurità del locale. Impauriti dal tuono di una cannonata? No; ero io che gli incutevo timore anzi, panico estremo. Abbassai lo sguardo osservando la mia veste che aveva assunto in quell'incontro, un non so cosa di alienante. Questa li intimoriva, neppure fosse divenuta una divisa militare: ero il loro nemico e quest'abito, la mia bandiera d'invasore. Le immagini a questo punto sfumano; la fuga forsennata in un labirinto di rovine fumanti, il muro diroccato, la carica del cingolato... e il soldato “premuroso”.
Maurizio Antenore
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