La Compagnia dei Viaggiatori del Tempo
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Quella sera eravamo in dodici e tirava vento. Non c'era ovviamente nessun collegamento tra le due cose, ma se non fosse stata una ventosa sera di novembre e non ci fosse stato quel numero così simbolico il clima sarebbe stato di certo diverso alle Giubbe Rosse. In fondo è vero, sono tanti piccoli dettagli a determinare la Storia, composta a sua volta da innumerevoli storie che qualcuno prima o poi racconterà. Qualcuno disse che le piccole cose hanno la loro importanza e che è sempre per le piccole cose che ci si perde. Così anch'io ero là, non per un caso, nello storico caffè letterario che aveva visto passare la Storia e la Letteratura italiana del ‘900, tra il tintinnio dei bicchieri e delle stoviglie portate via dai camerieri ed il vociare degli altri clienti, mentre fuori infuriava una specie di bufera. Facevamo una bella tavolata di Viaggiatori e Viaggiatrici del Tempo e l'atmosfera era di quelle giuste, conviviali, dove si può sentire qualche storia interessante. Ci eravamo riuniti proprio per quello. Precisazione quasi superflua: non eravamo veri Viaggiatori del Tempo in senso letterale (o letterario), ma qualcosa di molto simile. Viaggiavamo tra mondi e tempi diversi dal nostro, e la nostra Macchina del Tempo era la fantasia, l'immaginazione, quel qualcosa di eternamente sfuggente che ci spinge a fuggire dalla nostra “bassa terra” per poi magari farvi ritorno dalla porta di servizio. Eravamo insomma scrittori (e scrittrici), per quel che significa o non significa questo termine.
Alfonso prese la parola dopo l'ennesimo brindisi, quando si fece il rituale silenzio. Aspettavamo tutti quel momento eppure lo temevamo. Era il momento del confronto. - Amici - esordì con tono solenne - Abbiamo mangiato, abbiamo bevuto, adesso è venuto il momento di dare libero sfogo all'immaginazione. Annuimmo con un fragoroso applauso. Eravamo scrittori, ma nessuno di noi lo faceva di mestiere. Alfonso ad esempio lavorava in un piccolo bar in centro e veniva direttamente dal posto di lavoro all'allegro convivio di quella sera. Era quello di noi che aveva fatto meno strada, in senso letterale: due passi a piedi attraverso Piazza della Repubblica, l'antica piazza del futuro di Firenze dove sorgeva un tempo la birreria dei Reinenghaus. Era lui che aveva dato vita al nostro curioso circolo, qualche anno prima, e da allora ogni anno ci incontravamo alle Giubbe – il 13 novembre – data che secondo molti di noi aveva un qualche significato particolare, sempre negato (o taciuto) dallo stesso Alfonso. Il nostro “simposiarca”, Alfonso, era un trentenne barbuto di quelli con l'aria un po' intellettuale. Usava con naturalezza un linguaggio ricercato; il tono caldo e profondo della sua voce aveva qualcosa di malinconico. Lo avevamo tacitamente accettato come presidente del nostro insolito club sia perché ne era lui l'iniziatore, sia perché con la sua flemma riusciva a portare un certo ordine nelle nostre rumorose discussioni e in qualche modo ci teneva uniti. Eravamo trentenni amanti di storie fantastiche ed eravamo tutti scrittori, ma di un tipo un po' particolare. Avevamo una stranissima usanza, insolita soprattutto per degli scrittori. Una volta all'anno ci riunivamo per ravvivare la tradizione orale e ci raccontavamo storie senza un testo scritto davanti. Resistendo alla tentazione di scrivere le nostre storie – o almeno provandoci – ce ne preparavamo un paio a testa, soprattutto di genere fantascientifico, e a turno le raccontavamo, così come probabilmente facevano i nostri antenati attorno al fuoco, prima dell'invenzione della scrittura. Era un po' una sfida per alcuni di noi, del tutto privi di capacità attoriali e spesso bloccati dalla timidezza, ma superare anche quelle difficoltà faceva parte del gioco, e poi eravamo tra amici. - Quest'anno c'è una novità - annunciò Alfonso con tono e gesti misteriosi - una sorpresa che sarà senz'altro gradita. Visto che, fedeli al nostro impegno, non abbiamo mai scritto o pubblicato le nostre storie passate – non è cosi? - occhiata interrogativa - stavolta uno di voi si è preso l'impegno, con coraggio e senza esitazioni, di trascrivere i frutti dei nostri lambiccamenti e trarne dei racconti scritti. Applausi e commenti entusiasti di assenso, con sbattimento di posate e sedie. - Vi chiederete a chi l'onore e l'onere - riprese poi il nostro presidente, quando si fece un po' di silenzio - Ve lo state chiedendo, ed io ve lo dico. Il nostro scriba sarà quest'anno... Quando sentii il mio nome credo di essere arrossito, anche se pensavo di essermi preparato a sufficienza. La proposta veniva dallo stesso Alfonso. Ricordo che me l'aveva chiesto una mattina d'estate, mentre stavo sorseggiando un latte macchiato nel suo bar dopo l'ennesimo colloquio di lavoro in centro. Ricordo la sonnolenza di quella mattina, il caldo appiccicoso, il cielo come una cappa pesante sopra il vicolo stretto e affollato di turisti anglofoni. Ricordo l'odore di brioche e di wafer al cioccolato. Ricordo il sorriso supplicante del mio amico e il suo sguardo in attesa di una mia risposta affermativa. Non ricordo invece di aver accettato “senza esitazioni”. Pensavo a quanto lavoro e tempo ci sarebbe voluto – si trattava, a conti fatti, di scrivere, o per meglio dire “riscrivere” ventiquattro racconti – ma avrei avuto tempo un anno per farlo. Scrivere non è mai una cosa banale, tanto meno scrivere idee altrui. Alzai le spalle senza dire ne sì ne no, ben sapendo che Alfonso non era tipo da arrendersi e che alla fine avrei ceduto alla sua richiesta. E così tra noi dodici ero quello più teso. Avrei affidato al mio registratore la memoria di quanto si sarebbe detto quella sera, per poi rielaborare ciascun racconto con comodo a casa, ma ero comunque teso. Immaginavo chissà perché qualche intoppo tecnico tipo batterie scariche, guasti meccanici, nastri difettosi, sbadataggini. Mi chiedevo per quale motivo non riuscissi mai a pronunciare quella parola: “no!”.
Ad Alfonso se non altro toccò l'onore e l'onere – come avrebbe detto lui – di aprire la serata con la prima storia. Controllai la cassetta nel registratore, lo appoggiai sulla tavola vicino al mio amico e schiacciai il tasto REC. Questi si schiarì la voce con qualche colpo di tosse, poi mandò giù un sorso di vino ed iniziò. - Un breve racconto per scaldarci, quasi una facezia! Perché vedete... sapere come sarà il mondo tra mille anni... a chi non piacerebbe? Ma cosa significherebbe esattamente vedere un futuro così remoto? Mah, a volte è una questione di termini! A volte occorre specificare cosa si vuole realmente, come esemplifica la storia del genio e del viaggio nel tempo...
Il genio
Il primo pensiero era stato inconsueto. Non pensò a un'insolazione o un miraggio; Alberto sapeva benissimo di trovarsi di fronte ad un genio uscito da qualche mondo favoloso. Non sapeva dire cos'era più pazzesco; quella figura colossale che gli toglieva la luce o il fatto di non dubitare della sua stessa sanità mentale. La ragione non poteva ammetterlo, eppure era proprio là, con un sorriso indecifrabile sul volto. Alberto si voltò attorno alla ricerca della lampada che avrebbe spiegato, almeno fantasticamente, quella presenza. Non c'era niente a parte dune e cielo azzurro a perdita d'occhio. Si sentiva come galleggiare in un'altra dimensione, ma non era una sensazione spiacevole. Tutto intorno era silenzio. “Ebbene” disse il genio con voce tonante “fuori il desiderio!” Alberto lo guardò come se avesse parlato nella lingua delle Mille e una Notte, anziché nel suo prosastico italiano. “Cosa?” “Non è questo che vi aspettate voi mortali da quelli della nostra specie?” Ribatté fermo ma con gentilezza “Ti avverto che posso concederti un solo desiderio e a certe condizioni previste dal nostro codice.” Concluse il discorso con un sorriso impaziente. Alberto ebbe la sensazione che il genio, vincolato al desiderio da qualche atavica promessa, avesse in realtà una gran fretta di andarsene per i fatti propri. Si sentiva come l'uomo comune a cui qualche personaggio importante decide di regalare generosamente qualche briciola del proprio tempo. Pensò che era bene non farlo aspettare e formulare presto il desiderio, prima che quello se ne andasse o peggio ancora lo fulminasse con uno schiocco di dita. Un altro, al suo posto, nella fretta, di tanti desideri non ne avrebbe trovato uno da preferire. Preso dall'indecisione sarebbe rimasto lì a bocca aperta, o magari avrebbe chiesto una sigaretta o un pizzicotto per accertarsi di essere sveglio. Lui no. Alberto sapeva benissimo cosa chiedere, come se avesse preparato la risposta per tutta la vita senza conoscere ancora la domanda. Sì, lui aveva un desiderio a portata di mano. Cercando malamente di non far tremare la voce, mettendoci anche un tocco autoritario, disse: “Puoi mostrarmi il Futuro?” Il genio corrugò la fronte. Sembrò molto stupito. Eppure non era una richiesta molto strana. Ci pensò su qualche attimo, tormentandosi la lunga barba bianca. “Vediamo. Vuoi che ti trasferisca nel Futuro o ti accontenti di vederlo su uno schermo? Va', già che ci siamo facciamo le cose per bene: ti concedo due ore di tempo per visitare l'epoca che preferisci con la tua corporeità. Dovrei operare uno scambio di materia omogeneo perché certe leggi fisiche, come la conservazione della massa, non posso violarle neppure io. Dovrei poi alterare la configurazione spazio-temporale dell'universo nel Presente. Secondo la fisica quantistica la cosa si potrebbe fare, senza alterare troppo la struttura atomica nel Futuro, ma dovrei ridurti alle dimensioni di un quark.” Alberto impallidì. Cominciò persino a pentirsi di non aver chiesto qualcosa di più semplice; magari un pacchetto di sigarette o una lattina di Coca Cola bella fresca. “Naturalmente poi ti dovrei riportare alle dimensioni originarie, ma mi sembra troppo laborioso. Ci dev'essere qualcosa di più semplice; trasformazione di energia, stato di plasma cedevole... A proposito, quale epoca ti interessa?” Anche stavolta Alberto aveva la risposta pronta. “Mille anni nel futuro da adesso.” “Mille anni? A quell'epoca sarai già morto!” Alberto si trattenne dal ripondere "Ma allora sei proprio un genio! Questo lo so anch'io" ma ebbe comunque l'impressione che avesse la facoltà di leggere nel pensiero. Per un attimo infatti il volto si oscurò, poi tornò di nuovo pensieroso. “Non vorresti qualcos'altro?” gli domandò “Una montagna d'oro o di diamanti magari? Per quello non ci sarebbero problemi. Ma cosa te ne fai di sapere come sarà il mondo tra dodicimila mesi?” Alberto prese coraggio. Il genio sembrava piuttosto sfaticato e bonaccione, ma non aveva detto male. Eppure visitare gli anni dopo la sua morte era sempre stato il suo sogno; fin da bambino, quando aveva letto un bellissimo romanzo sull'argomento. Con tutto l'oro e il denaro del mondo non avrebbe potuto comprare un'occasione simile, una volta perduta. Tra tanti discorsi aveva ben chiaro un fatto che poteva sfruttare a suo vantaggio: volente o nolente il genio era tenuto ad esaudirlo. “Mille anni!” disse con fermezza. “E mille anni siano” tagliò corto il genio “non un secondo di più o di meno. Ma ricordati, non più di due ore!” Detto questo si concentrò così tanto da cambiare colore, quindi alzò le braccia possenti verso il cielo e pronunciò alcune parole misteriose con una voce che sembrava giungere da un'altra dimensione. Il mondo intorno a lui non cambiò affatto. “Allora?” domandò Alberto spazientito. Il genio era ancora là. Appariva molto affaticato e il tono della sua voce era tutt'altro che gentile. “Come sarebbe a dire? Non ce l'hai gli occhi? Guardati attorno!” Il deserto continuava a estendersi attorno a lui, con la sua sequenza interminabile di dune sabbia. Il riverbero senza occhiali scuri sarebbe stato accecante, ma non più di prima. Guardò l'orologio; le 16.20. Era la stessa ora del suo incontro col genio. “Non hai spirito di osservazione” lo rimproverò il genio “altrimenti ti saresti accorto che le dune non erano disposte "esattamente" così e che adesso la temperatura è scesa di un decimo di grado. Se fosse notte te ne renderesti meglio conto; vedresti le costellazioni leggermente diverse e la Stella Polare spostata di qualche centesimo di grado rispetto alla tua epoca. Siamo effettivamente nell'anno tremila, secondo il tuo calendario.” Alberto cominciava a capire e a sudare, non solo per il caldo. “Mi hai portato nello stesso posto di partenza!” “Questo non è esatto” replicò il genio “Benché tu non l'abbia precisato, e dalle tue parole ero autorizzato a trasportarti soltanto nel tempo, ho pensato che non avresti gradito trovarti a qualche secololuce dalla Terra che, come ben sai, si è nel frattempo spostata nello spazio insieme al Sistema Solare e all'intera galassia. D'altra parte il mio codice parla chiaro: il mortale deve comunque restare vivo, cosa difficile nello spazio senza una tuta pressurizzata. Ho pensato così di seguire lo spostamento terrestre, ho fatto male?” “Ma... veramente...” balbettò confuso Alberto. “Ok, allora io posso andare” disse il genio un attimo prima di scomparire “verrò a riprenderti tra due ore, anzi tra un'ora, cinquantasette minuti e trentasei secondi.” Alberto non ebbe il tempo di ribattere. Si sedette a gambe incrociate sulla sabbia per raccogliere le idee. Anche se avesse avuto ancora la sua jeep, rimasta nel Passato, gli ci sarebbero volute ben più di due ore per uscire dal deserto e vedere cosa ne era stato dell'umanità. Aveva sentito fin dall'inizio che c'era sotto qualche inghippo, e che sarebbe stato troppo bello per essere vero. Adesso si trovava alle prese con un problema non da poco: come impiegare quasi due ore da solo nel Sahara alle soglie del trentunesimo secolo. Si tolse la camicia, si spalmò un pò di crema solare e si distese sulla sabbia. Chiuse gli occhi e quando giunse il genio si era quasi convinto di aver sognato tutto quanto.
Massimo Acciai Baggiani
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