Era lei. Era il 2020. I nati negli anni del Ventesimo e Ventunesimo Secolo lo ricorderanno bene. L'Italia era bloccata in casa per la diffusione di un virus che aveva costretto la popolazione a evitare contatti umani, a mantenere le distanze di sicurezza interpersonali di almeno un metro, a indossare mascherine perché nell'aria circolavano i batteri provenienti da altrui salive o parti del corpo, a lavarsi ogni pochi minuti le mani, a non toccarsi le parti delicate del viso, a non avere insomma rapporti stretti se non quelli all'interno dello stesso nucleo familiare. Il virus, sconosciuto e diffusosi tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, arrivava dalla Cina e poteva causare, come conseguenza, anche la morte. Le conseguenze, la verità, erano svariate. Qualcuno lo prendeva senza ammalarsi, qualcun altro si ammalava lievemente, qualcun altro vedeva aggravate le proprie condizioni, fino ad avere bisogno dei respiratori artificiali e delle terapie intensive e qualcun altro non riusciva a sopravvivere. I governi di quasi tutti gli Stati del mondo imposero un massiccio lockdown, ovvero chiusero le attività lavorative e i confini comunali chiedendo alla popolazione il sacrificio di rimanere chiusa in casa e uscire solamente in caso di bisogno. Solo pochi potevano farlo per lavorare. Tra cui i medici impegnati al fronte in prima linea in quello che restava della sanità pubblica, stuprata da decenni di malgoverno che aveva avuto un occhio di riguardo per quella privata (che ora, nel momento del bisogno, era praticamente sparita) e tagliato tutto il tagliabile, purtroppo anche di più. Io avevo deciso di trasferirmi al secondo e ultimo piano della mia casa, dove avevo arredato due stanzette per stare comodo. Una dove dormire e una per lavorare e pranzare. Da due anni lavoravo per un'azienda che faceva consulenze e il cosiddetto smart-working, il lavoro da casa, altra usanza che andava facendosi strada in quell'epoca, mi aveva permesso di ricevere puntualmente il mio stipendio e di non finire con il culo per terra. Al primo piano della casa ci restavano i miei genitori. Era un pomeriggio ed ero sul terrazzo a passeggiare e a sgranchirmi le gambe. Quando avevo deciso di trasferirmi su al secondo piano lo avevo fatto proprio perché l'unico sbocco sul mondo era lì in quel tratto di casa immenso e mai sfruttato. Dall'inizio della pandemia lo stavo utilizzando sempre più spesso per stare solo, respirare, passeggiare e godere le, poche, ore soleggiate. Alla fine arrivai alla conclusione che era meglio restarci tutto il giorno e anche la notte. Era un pomeriggio, dicevo. Le previsioni meteo si erano messe male: per i prossimi tre giorni piogge e vento. Allora stavo approfittando del sole e dell'aria tiepida che, forse, avrei rivisto da lì a quattro, cinque giorni. Un rumore mi sembrò di sentire alle mie spalle, ma non diedi peso, dal momento che tutta la città, rinchiusa in casa, esaltava con il suo silenzio ogni minimo spillo che fosse caduto per terra. Passava una macchina ogni trenta, quaranta secondi, una ragazza passeggiava con il suo cane, il resto era tutto fermo. Anche le fabbriche in lontananza, abituate a sputare fumo e inchiostro nero, erano immobili. Un'altra volta lo stesso rumore, come di passi involontari, quando stai per inciampare ma ti salvi all'ultimo. Questa volta mi spinse ad andare a vedere cosa stesse succedendo. I vicini? Qualcuno che lanciava oggetti o si stava allenando sulla propria terrazza, come si usava a quei tempi? Qualche folle che lanciava pietre? Quando la vidi diventai io di pietra. Che cazzo ci faceva lì? A casa mia? - Che cazzo ci fai qui? - Mi devi aiutare! Era lei. - Io? Aiutare te? - Sì, per favore. Era lei. - Scordatelo! - Perché? Era lei. - Mi chiedi anche perché? - Rischio il carcere! Era lei. - Ma magari. - Davvero mi auguri questo? Era lei. - No, non ti auguro il carcere! Ti auguro solo di renderti conto che pezzo di merda sei. - Lo so benissimo. Era lei, e aveva iniziato con le sue cazzate.
Ero Io. Cosa mi abbia spinto a fare una cosa del genere, non lo posso sapere. Ma quando mi sono trovata di fronte quel posto di blocco non ho pensato ad alternative possibili. Il casco per fortuna mi copriva la faccia. Lo scooter andava, la giornata era mite e le mani, stranamente, non mi facevano male. Non so perché continuavo a uscire di casa, forse perché ero insofferente alle regole, forse perché non mi andava di stare più chiusa, forse perché stava aumentando la mia ansia a pensare che sarei dovuta rimanere lì per altri mesi, forse, semplicemente, perché sono una cogliona. Forse perché io una scusa per uscire abitualmente neanche ce l'avevo. E quindi la reclusione sembrava ancora più forzata. Qualcuno aveva un lavoro e, per il regolamento vigente in quel periodo, poteva scorrazzare per la città, solo e libero. I liberi professionisti potevano percorrere le strade della città come volevano. Poi c'erano gli amanti degli animali. Chi portava a spasso il cane per farlo pisciare sei o sette volte al giorno. Io gli animali non li ho mai sopportati, figuriamoci se mi convertivo in quel momento. Qualcuno si ingegnava con qualunque altro mezzo. Per tutti gli altri, per la stragrande maggioranza, non c'era speranza. Bisognava stare a casa. Chiusi, fermi e immobili. Niente deroghe, niente di niente. L'unica nota positiva era che il mio posto di lavoro era salvo. Lavoravo in un negozio di tessuti, come responsabile vendite, e appena fui assunta i ruoli si invertirono subito, con il capo che divenne fin troppo dipendente da me da poterne fare a meno. Inventari, interfaccia con i clienti, rapporti con i fornitori, scontistica, capacità di capire quale merce sarebbe andata nella prossima stagione e quale no, insomma tutto passava da me. Il negozio era rimasto chiuso, ma il capo non aveva paura. La maggior parte dei lavori ci veniva commissionata da altre aziende e, benché i macchinari fossero fermi, gli ordini andavano avanti e il lavoro si accumulava e veniva già programmato dal titolare che ci dava la certezza di poter, appena fosse finito tutto, ritornare alla nostra vita normale. Ma io non potevo aspettare questo ritorno, dovevo uscire. Ora. L'aria mi accarezzava il viso e mi restituiva una sensazione di libertà, di freschezza e di spensieratezza che, forse, mai avevo vissuto. Quando perdi quegli elementi fondamentali, ma scontati, che hanno caratterizzato la tua vita, inizi a pensare e a dare loro il giusto valore. È per questo che non appena vidi quella maledetta paletta alzata sbiancai. E non produssi altri pensieri. Il poliziotto sembrava non fissarmi con grande attenzione e la strada era deserta. C'ero solo io e loro. Non potevo fermarmi. Come avrei giustificato quell'uscita fuori di casa senza un valido motivo? Lavoro, cibo e salute erano le uniche deroghe. Sì, ora col senno di poi ne ho a decine di scuse che avrei potuto utilizzare. Ma in quel momento non mi venne nessuna in mente. Non ci pensai troppo e andai avanti facendo finta di non vedere quell'Alt! Il vento mi diede la giusta spinta e il motorino fece il resto. Come in un film al rallentatore e muto passai davanti ai loro occhi increduli che si voltarono seguendo la mia scia. Dallo specchietto retrovisore mi accorsi subito, però, che i due poliziotti, quello fermo con la paletta alzata e quello vicino allo sportello dell'auto, dopo un cenno d'intesa, si erano infilati in macchina e stavano per partire. Ero praticamente dentro ad una delle mie canzoni preferite, “Chicco e Spillo”, e loro erano partiti all'inseguimento. Il semaforo, subito dopo il primo curvone che dovetti affrontare, era rosso. Un segno di fortuna? Decisi di attraversarlo, aiutata dall'assenza di gente, sperando che i due inseguitori si fermassero, almeno loro, per prendere un po' di vantaggio. Così fu. Inoltre ero riuscita, utilizzando marciapiedi e tagliando per delle aiuole, a ottenere una buona distanza da chi mi rincorreva. Passai da sotto casa sua e l'idea di rivederlo mi diede un brivido. Rallentai. Spensi il motorino e provai a nasconderlo in una specie di garage che, se la memoria non mi stava giocando brutti scherzi, era vuoto e inutilizzato. La porta era completamente assente. Il luogo lo conoscevamo alla perfezione. Quanti pomeriggi avevamo passato lì a fumare e a scopare e a parlare fino a che il freddo non si impossessava di noi e dovevamo abbandonarlo. Lui parlava addirittura di arredarlo e di occuparlo. Le solite stronzate che aveva in testa quando si fissava con me. Non si sentivano auto in lontananza, quindi avrei anche potuto provare la fuga se non avessi voluto passare la notte lì. Provai a uscire. Via libera. Uscii a piedi, tanto il motorino era al sicuro. Feci dieci metri, camminando sempre aderente al marciapiede pronta a rientrare nel caso di pericolo. Per fortuna le case e i loro giardini consentivano la manovra di emergenza. Un salto per nascondermi dietro le siepi in caso di necessità. Continuai a camminare, cercando di non fare rumore. Passai nuovamente davanti alla casa che conoscevo alla perfezione. Una sensazione di vomito e fastidio mi pervase. Ma in quel momento esatto, riflesso sul muro della casa di fronte, vidi il blu del lampeggiante. Cazzo. Tra i due mali, nonostante tutto, scelsi il minore. Mi feci forza. Scavalcai il cancelletto, entrai nel viale, mi arrampicai sulla fioriera, poi mi avvinghiai alla scaletta di ferro che per fortuna era lì, benché fosse mobile, e il resto venne da sé. Senza sapere come mi ritrovai sulla sua terrazza. Avevo fatto, se possibile, una cazzata ancora più grande del forzare il posto di blocco. Perfetto!
Marco De Matteis
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