Prologo. Finalmente realizzava il suo sogno; anzi no, si trattava piuttosto di una scommessa con se stesso. Partiva senza (quasi) un soldo in tasca per l'Europa e senza nemmeno sapere esattamente quando sarebbe tornato. Tutto per rivedere lei, una madre di cui riusciva a malapena a ricordare il volto. “Non ti permetterò di lasciare la Corea. Sai che posso farlo.” Nella luce fioca di quell'ultima sera estiva, il volto del padre aveva un che di grottesco. “Non ti sembra assurdo minacciarmi come fossi un liceale? È anche un po' tardivo questo tuo discutibile senso paterno, non credi? Direi che a trentatré anni posso andarmene a pieno titolo da questa casa e–“ “Quando ti sarai tagliato i capelli e ti sarai trovato un lavoro decente, ne riparleremo. Fino adesso sono stato più che generoso con te. Ho lasciato che scorazzassi libero e facessi le tue esperienze, mentre tuo fratello si occupava delle cose serie. Ma ora basta! Sang-Woo batté con forza una mano sulla scrivania, rischiando di danneggiare ulteriormente le sue dita, che avevano iniziato a deformarsi per l'artrite. “A trentatré anni suonati, è tempo che abbandoni quei tuoi sogni infantili e diventi un uomo. Non ti chiedo di lavorare in azienda - fossi matto! - e nemmeno di restare in questa casa. Trovati una moglie, metti su famiglia e occupati di loro come un buon padre dovrebbe. Senza troppi grilli per la testa..." A Son-Jun - o meglio, a Jean, come preferiva essere chiamato - ronzavano le orecchie. Provava una strana sensazione di estraneità. Strana, perché aveva sentito quei discorsi già mille volte, eppure ora gli sembrava appartenessero ad altri, e nelle sue orecchie risuonavano appena, come un'eco lontana e indecifrabile; semplicemente non lo raggiungevano più. Presto, non ne sarebbe rimasta traccia nella sua memoria. Strano che fosse suo padre, quell'uomo dai lineamenti severi, sempre accigliato, con una figura imponente che rimpiccioliva la stanza. Strano che le sue parole avessero persino smesso di ferirlo. Non nutriva più alcun dubbio, era tempo di partire. Mentre il soliloquio dell'anziano proseguiva, Jean roteò un'ultima volta gli occhi, si passò una mano sul petto, ad alleviare le tracce residue di un peso sopportato troppo a lungo, e abbassò la testa e il torso in segno di commiato. L'unica concessione alle rigide tradizioni del suo Paese che intendeva permettersi ancora. “Addio, padre. Fattene una ragione!” Con un gesto plateale che rischiò di trascinare con sé i portaritratti sulla scrivania paterna, si buttò sulle spalle la sacca di pelle che aveva appoggiato accanto ai piedi e uscì dallo studio con le due sole falcate di cui le sue lunghe gambe sottili avevano bisogno. Non si sarebbe mai più voltato
Capitolo 1. Aprire gli occhi su una nuova città lo aveva spaventato, in un primo momento. Lo smarrimento che aveva seguito il riscoprire alla luce del giorno particolari sconosciuti nell'angusta stanzetta di un affittacamere di periferia era stato vieppiù caricato di una dose di inadeguatezza di fronte ai panorami cittadini che gli si aprivano innanzi ora, mentre percorreva le strade di Parigi in una sferragliante R4. La verità era che non aveva la minima idea di dove iniziare le sue ricerche e questo aggiungeva ansia alle tante emozioni che gli si stavano accumulando in petto. Dentro un cassetto chiuso a chiave nello studio del padre, aveva trovato, tempo prima e per caso, una vecchia foto della madre. Era ritratta davanti ad una chiesa cattolica. Era bellissima e giovanissima, ancora inconsapevole delle amarezze che, di lì a poco, avrebbero invecchiato il suo volto e fiaccato la sua fanciullesca esuberanza. Si trovava in Francia, il suo paese natale. Sul retro della foto era scritto a mano il nome della Parrocchia e poi quello della città: Parigi. Se avesse trovato la chiesa, si ripeteva ormai ossessivamente quella mattina, forse avrebbe trovato il sacerdote e quindi, allora, anche una traccia e con essa la speranza di ritrovare presto sua madre. Jean si sporse oltre la curvatura del volante per osservare il cielo plumbeo sopra di lui. Non prometteva niente di buono e nemmeno il vento, che faceva danzare in tondo le prime foglie cadute ai bordi della strada. Istintivamente, si strinse meglio intorno al collo la sua sciarpa preferita - una larga striscia di lino e seta di un arancione sbiadito da tanti lavaggi - che custodiva sin da bambino come oggetto portafortuna e si sistemò gli occhiali sul naso. Presto avrebbe iniziato a piovere a dirotto ed egli, purtroppo, già sapeva che dei due tergicristalli disponibili, solo quello di fronte al sedile accanto al suo si sarebbe attivato. La sua caccia avrebbe dunque subito un arresto; tanto valeva cercarsi un caffè dove mangiare qualcosa di caldo, mentre fuori il temporale faceva il suo corso. Non fu difficile trovare un locale accogliente, ma il passo successivo rappresentò invece una vera e propria sfida. Era abituato infatti alla pronuncia inglese degli asiatici di diversa provenienza, ma quella dei locali (quando mostravano di saper parlare la lingua!), era talmente ostica da impedirgli non solo di comprendere, ma anche di essere compreso. Fu quindi con non poco sudore, che riuscì a conquistarsi il conforto di una Zuppa di Cipolle e di un boccale di birra alsaziana. *** Il temporale aveva imbiancato le strade di grandine e tenuto lontani gli avventori dal locale. Jean avrebbe voluto parlare con qualcuno, ma il ragazzo dietro al banco non sembrava affatto interessato ad avviare una conversazione, tantomeno con uno straniero. Tuttavia, quest'ultimo si alzò ed infilò una mano nella tasca interna della sua giacca di fustagno verde smeraldo. Lo sguardo interrogativo del barista gli fece supporre che si aspettasse di vederlo sfoderare un mazzo di fiori, o forse una colomba, invece lo prese alla sprovvista estraendo la semplice foto di una giovane donna bionda che gli ficcò proprio sotto la punta del suo lungo naso affilato, accompagnando il gesto con il sorriso studiato di un affabulatore, che avrebbe fatto capitolare il più arcigno dei misantropi. Il barista si rivelò comunque assai più arrendevole. “Non conosco questa donna.” fu la sua laconica, seppur amichevole replica. Jean sorrise indulgente. “Lo so. È lo sfondo che mi interessa. Conosci per caso la chiesa? Dovrebbe essere da queste parti.” Il barista ricominciò a lucidare il bicchiere che aveva tra le mani. “Mi dispiace. Non vado più in chiesa da quando ero bambino e non sono un esperto di architettura. Dovresti chiedere a un prete.” La campanella appesa sopra all'ingresso tintinnò. “... Oppure alla signora che sta entrando ora. Viene qui sempre a chiedere contributi per le iniziative di beneficenza che organizza nel quartiere. È una baciapile di prim'ordine. Purtroppo, è però anche una svitata e la sua memoria non è più molto affidabile.” Quest'ultima osservazione la fece sottovoce, naturalmente. Jean si voltò e vide, nell'arco della porta, una matrona vestita interamente di rosso vermiglio. Vermigli erano anche il rossetto e le unghie affilate e curate. La veste le stava stretta sul petto e sui fianchi ed era di fattura mediocre, ma il cappello che la sormontava era sicuramente un accessorio inusuale, non tanto per la foggia ardita che lo faceva assomigliare ad un vascello adornato di frange, né tantomeno per il lusso che avrebbe voluto ostentare, bensì soprattutto per il contrasto cromatico che opponeva al fulvo argentato della di lei capigliatura, ovvero proprio ciò che un cappello degno di tal nome avrebbe dovuto invece armoniosamente complementare. Nell'insieme, una visione non certo adatta ai deboli di cuore. Jean tuttavia non batté ciglio e fu lesto nel precedere il tentativo della donna di dar voce ad una sua probabile richiesta di attenzioni indirizzata al gestore. La prese dunque sotto braccio e la condusse al tavolo più vicino, poi, con un elaborato inchino, le chiese il permesso di offrirle un caffè in cambio di una domanda. La donna sembrò aver frainteso la cavalleria del giovane e affascinante uomo al suo cospetto e il suo sguardo carico di sottintesi certo non gli lasciò alcun dubbio circa il tipo di interesse che era riuscito a risvegliare in lei. Per dovere di chiarezza, si spinse comunque ad allungare una mano verso di lui, per ghermirgli un avambraccio. “Mi chieda pure tutto quello che vuole... bel ragazzo d'Oriente. Mi chiamo Renée, a proposito.” Purtroppo per la donna, la conversazione terminò non appena anche lei si trovò costretta ad ammettere di non conoscere la chiesa parrocchiale della foto e di non ricordarne neppure il nome. Tentò ancora di intrattenere il suo ospite, prima strattonandogli il braccio e poi deviandone l'attenzione sulla procacità della scollatura, ma non ottenne neppure un'occhiata furtiva di sguincio. La delusione la costrinse allora ad incurvare le spalle ed abbassare lo sguardo e, per un istante, sembrò che il vascello stesse per inabissarsi. *** Il sole aveva nuovamente fatto capolino tra le nuvole ed il locale si stava riempiendo di parigini ciarlieri e rumorosi. Dopo un ultimo sorso di caffè, Jean era pronto a ripartire alla volta di Montmartre, il quartiere dove avrebbe cercato il vecchio fotografo, conosciuto dall'altrettanto vecchia proprietaria dell'R4 che l'aveva miracolosamente portato sin lì, nonché della stanzetta generosamente offertagli in cambio di piccoli lavori di manutenzione. Stava aspettando il resto di una banconota da cinquanta euro, quando entrò un ragazzo sui vent'anni, zuppo fino al midollo, con gli occhiali di sghimbescio e il fiatone. Iniziò a parlare fitto fitto in modo concitato con il ragazzo del locale. Jean intuì che il primo fosse in ritardo per qualcosa e necessitasse la collaborazione del secondo. Improvvisamente, però, qualcosa attirò la sua attenzione. Un nome, pronunciato dal gestore... “La prossima volta, di' a Monsieur Bernard che gli porto io il pranzo al negozio. Sono ancora in debito con lui. Le foto del mio matrimonio valgono più di tutti i panini che potrei mai preparargli.” Un fotografo... Monsieur Bernard... Jean entrò a gamba tesa nella conversazione. “Scusate se interrompo. Monsieur Bernard aveva forse un famoso studio fotografico a Montmartre?” Il giovane garzone rispose senza indugio. “Sì. Per molti anni. Ma ora le foto sono quasi tutte digitali e lui non ha voluto aggiornarsi. Si accontenta di fare ancora qualche matrimonio e per lo più mette a disposizione vecchie foto della città per eventi speciali o per delle mostre. Ne ha fatta una poco tempo fa sulle chiese di Parigi. Peccato sia già finita. Sono venuti anche dall'estero, per vederla.” A Jean sembrò di scorgere la famosa luce in fondo al tunnel, proprio alle spalle del garzone. “Ecco il tipo che fa per te. Dev'essere il tuo giorno fortunato!” interloquì il terzo uomo, ma Jean non fece caso alle sue parole e si rivolse nuovamente al suo inconsapevole salvatore. “Giuro che se non fossi tanto bagnato ti abbraccerei! Io ho davvero bisogno di incontrare il tuo capo! Se ti accompagno in auto, mi porteresti da lui?” Il giovane scosse su e giù la testa con grande entusiasmo, scrollando acqua dai suoi ricci biondi ancora fradici. Accennò anche un ringraziamento, ma gli morì subito in gola. Eruppe invece all'improvviso dalle narici uno starnuto, che minacciò di colpire in volto il suo interlocutore, ma questi, di riflesso, con un rapido rinculo, dimostrò in un battito di ciglia come lo scatto di muscoli allenati possa fare la differenza tra una giornata gloriosa ed una giacca rovinata. *** Monsieur Bernard era un uomo che aveva sicuramente superato l'ottantina, curvo ed avvizzito, ma dallo sguardo limpido e vispo di un ragazzino. Sapeva esattamente dove si trovasse la chiesa nella foto, la sua memoria era ancora ferrea, o almeno certo più robusta delle sue fragili membra. Jean comprese al primo sguardo, guardando le molte foto appese alle pareti del negozio in cui il fotografo posava con celebrità e personaggi di spicco della politica francese ed internazionale, che in gioventù doveva essere stato considerato una vera e propria icona della sua arte. “Monsieur Mae, ha fatto bene a venire qui. Probabilmente poche persone sarebbero state in grado di associare questa chiesa al nome della Paroisse de Saint-Étienne. Circa trentacinque anni fa, il Vescovo ne ha spostato la sede ad un'altra chiesa ed il suo nome è stato cambiato. Ora si chiama Église de Saint-Juste. C'è anche una bella storia legata a questo edificio gotico, che ha affascinato molti studiosi di storia, ma questo credo che le interessi poco... Aspetti un attimo, qui... Didier, per favore, cercami gli occhiali!” Mentre il fido assistente infilava la testa in un cassetto fondo, pieno di cianfrusaglie, alla ricerca dell'oggetto in questione, il suo datore di lavoro iniziò a sfogliare un quaderno dalle pagine ingiallite. Con la lentezza dettata dal peso degli anni, si portava un dito alle labbra per umettarlo, prima di girare un nuovo foglio con mano tremante. E ne girò una decina, prima di inforcare gli occhiali e decretare, “Ecco qui. Questo è proprio quello che cercavo! Didier, copialo su un foglietto per il signore.” Poi si rivolse ancora a Jean, guardandolo in faccia. “È l'indirizzo della chiesa che cerca e le ho trovato anche il nome del sacerdote che ha preso il posto del vecchio Parroco, oggi probabilmente in pensione. Lui di sicuro saprà dirle qualcosa di più. Io purtroppo non posso aiutarla oltre.” Didier allungò il foglio verso Jean, che lo accettò con un breve inchino, cosa che fece sorridere i due francesi e spinse Didier a rispondere a sua volta con un inchino. Questo fece scattare qualcosa nella mente dell'anziano fotografo. “Monsieur Mae, non mi ha detto come ha pensato di cercare proprio il sottoscritto per iniziare le sue indagini. Dubito che la mia fama sia arrivata sino al lontano Oriente.” “Ha ragione e mi dispiace di aver omesso questo particolare... Io sono coreano e ho trovato una pensioncina nel quartiere di Belleville di proprietà di una mia connazionale, la signora Lee. È stata lei a consigliarmi di cercarla. Spero se la ricordi, mi ha detto che lo avrebbe fatto, che era un caro amico del suo defunto marito.” Gli occhi del vecchio divennero subitaneamente lucidi e a Jean parve di scorgervi anche un certo rossore. Indubbiamente, dovevano averlo assalito dei ricordi che avevano fatto riaffiorare forti emozioni, ancorché lontane nel tempo. “Certo che ricordo. Ricordo tutto. Spero che Min-so stia bene e che non senta troppo la mancanza del suo Richard..." La voce dell'uomo si arrochì e si incrinò, ma solo per un istante. “... La prego di portarle i miei saluti e... Aspetti un attimo.” Scomparve in una stanzetta adiacente, per tornare pochi minuti dopo con una busta sigillata. “Sono delle vecchie foto di noi tre. Spero che le facciano piacere. Le dica che sarà sempre benvenuta nel mio negozio, se vorrà fare quattro chiacchiere per ricordare i bei tempi.” Jean si inchinò di nuovo, questa volta per salutare e ringraziare del tempo che gli era stato dedicato. Gli risposero un caldo sorriso dell'anziano gentiluomo e un colpo di tosse del povero Didier, ormai probabilmente rassegnato ad una serata di suffumigi in compagnia di una boule calda. Jean invece si sentiva estatico, la giornata era stata proficua e il poco francese che aveva appreso nei mesi passati stava dando buoni frutti. La Francia lo aveva accolto a braccia aperte, il sole splendeva di nuovo e lui era pronto a proseguire il cammino. Si sentiva in cima al mondo, in quel momento. Cosa mai poteva andare storto, in una giornata così? *** Dopo cinque minuti di vani tentativi, Jean fu costretto ad arrendersi. L'R4 non aveva alcuna intenzione di partire. Il motorino di avviamento ronzava, ma non succedeva nulla. Scese dall'auto e applicando non poco sforzo al cofano, lo fece scattare verso l'alto con un cigolio metallico. Il vetusto motore non aveva visto sicuramente alcuna manutenzione per molto tempo, ma quello che lo preoccupava era la ruggine che aveva eroso la carrozzeria anche all'interno del vano. Era probabile che il cavo della messa a terra dovesse essere rimosso e carteggiato, per permettere il ritorno di corrente al generatore. Doveva chiamare la signora Lee e farsi dare il numero di un'officina. Peccato che il cellulare non avesse più batteria. “Aisshh! Mi toccherà chiamare un carroattrezzi!” Pronunciò l'intera frase in coreano e ad alta voce. “Annyeong1! Sei di Seoul? Posso aiutarti?”
La voce femminile alle sue spalle lo vece voltare di scatto. “Annyeong haseyo!” Se la vista di una ragazza bionda e chiaramente occidentale lo stupì, non lo diede a vedere. “Parli la mia lingua?” 1 Annyeong (haseyo): saluto coreano. 16
“Solo un po'. La sto studiando all'Università. Se mi inviti a cena, ti porto io dove devi andare...” La bionda stava testando forse il terreno? Era la seconda volta in un giorno che ci provavano con lui. “Sono appena arrivato in Francia e il mio budget non mi permette di offrirti la cena. Ti sarei comunque molto grato, se potessi almeno prestarmi il cellulare per una breve telefonata.” La ragazza gli sorrise. “Farò di meglio. Farò portare la tua auto nella mia officina di fiducia e poi cucinerò qualcosa per te. Niente secondi fini, ti chiedo in cambio solo una conversazione in coreano. Che ne dici?” Jean richiuse con cautela il cofano ed estrasse uno straccio dalla tasca della portiera per pulirsi con calma le mani. Si prese del tempo, prima di rispondere, mentre la ragazza si mordeva un labbro nell'attesa. “Va bene. Ma cucino io. Avrò bisogno di comprare alcune cose vicino a casa, allora. Se ti va di accompagnarmi fino a Belleville e rientrare da sola con il buio..." La giovane allungò una mano per stringere quella di Jean. “Nessun problema! A proposito, mi chiamo Chantal, Chantal De Molay. Piacere di conoscerti.” Jean le sorrise e strinse vigorosamente la sua mano. “Piacere mio. Io sono Mae Son-Jun, ma puoi chiamarmi Jean.” *** La signora Lee era curiosa di conoscere la nuova amica di Son- Jun. Per un qualche motivo che le era ancora sconosciuto, desiderava fare una buona impressione su di lei. Dalla descrizione che le era stata fatta, aveva anche intuito che venisse da una famiglia di rango e per riceverla, aveva scelto dall'armadio un abito che solitamente teneva chiuso in un sacco di cellophane per non sciuparlo. Non era prezioso come l'hanbok2 delle feste, ma ne andava ugualmente fiera, essendo di seta ed impreziosito da ricami fatti a mano. Anche Chantal doveva aver pensato bene di fare una buona impressione, perché non solo si presentò in un elegante tailleur nero, ma portò con sé anche una scatola di cioccolatini di lusso ed una bottiglia di vino. Le due donne scambiarono pochi convenevoli in coreano, poi la ragazza si rivolse a Jean, che stava rimestando qualcosa in una terrina, nell'angolo destinato alla cucina, nel grande spazio comune al primo piano della pensione. Notò con piacere che indossava una maglia scura, con l'effigie dei Guns 'n' Roses, la sua band preferita, su dei jeans neri, strappati alle ginocchia. Ai piedi aveva un paio di buffe ciabatte pelose, ma nel complesso, si trattava di una 2 Hanbok: abito tradizionale coreano. 18
presenza decisamente sexy, così alto ed esile, con uno charme tutto suo e l'aura di uno spirito libero. “Ho portato una bottiglia di vino rosso, ma non me ne intendo molto. Spero vada bene per accompagnare la cena. L'ho presa dalla cantina di papà.” Chantal appoggiò con noncuranza la bottiglia al centro della tavola e, con la coda dell'occhio, Jean provò a leggerne l'etichetta. Gli si mozzò il fiato in gola. “Hai ‘rubato' del Chateau Cheval Blanc del 2010? Spero per te che tuo padre non se ne sia ancora accorto! Una delle poche cose che il mio mi ha insegnato, avendolo appreso a sua volta da mia madre, durante il loro breve matrimonio, è stata la conoscenza dei vini francesi. Quella bottiglia probabilmente varrà qualcosa sopra i duemila euro. Non voglio essere complice di un sacrilegio. Comunque, per accompagnare la cena, avevo già comprato del soju3. Sicuramente basterà.” La signora Lee sembrava disorientata da quello scambio di battute e il motivo era che i due giovani stavano parlando in inglese, lingua che costituiva un porto sicuro per entrambi, ma un mistero insondabile per lei. “Mi sembrava che la signorina ti avesse chiesto di parlarle in coreano, Son-Jun...” 3 Soju: distillato incolore coreano.
“È vero, Son-Jun; e poi non possiamo escludere così la signora Lee dalla nostra conversazione, potrebbe pensare che le stiamo nascondendo qualche... segreto!” Jean accennò un sorriso obliquo e rovesciò il contenuto di un'ampia padella in una pirofila di ceramica, per poi cospargerlo con una manciata di cipollotto fresco. “Ecco qui. Signore, sedetevi pure a mangiare. Spero che il mio Jeyuk-bokkeum4 sia di vostro gradimento!” Chantal avvicinò il viso alla carne fumante, per annusarne il profumo. “Mmm, sembra delizioso, ma anche molto piccante!” Jean sorrise divertito. “Già, è maiale marinato nella nostra salsa di peperoncino. Stai attenta, se non sei abituata a mangiare piccante!” Chantal non poté esimersi dal pronunciare la battuta seguente e lo fece in inglese. “Quindi, tu non sei l'unica cosa ‘hot' nella stanza, questa sera..." 4 Jeyuk-bokkeum: preparazione coreana a base di carne di maiale marinata in una salsa piccante al peperoncino. Jean le rivolse uno sguardo annoiato, mentre si riempiva la bocca con una forchettata di maiale. “Dovresti ripeterlo in coreano, la signora Lee non capisce l'inglese.” Inaspettatamente per lei, le si arrossarono le guance e la signora Lee le porse pronta un bicchiere d'acqua. “Ecco qua, ragazza. Bevine un bel sorso. Son-Jun avrebbe dovuto pensare ad una ricetta più adatta allo stomaco di una signorina europea!” “Ha ragione, ma l'avevo avvertita. A volte, l'aspetto invitante di certi piatti inganna...” Chantal spalancò gli occhi per una frazione di secondo, poi scoppiò in una fragorosa risata, che contagiò anche gli altri due commensali. La cena, dunque, ebbe inizio sul filo dei ricordi di gioventù dell'anziana signora, che però, dopo aver appena assaggiato le pietanze, si arrese alla stanchezza e si scusò, per ritirarsi in camera sua. “A proposito, non preoccuparti dell'auto, Son-Jun. Non è che una vecchia carretta che conservo solo perché apparteneva a Richard. Andrà a prenderla mio nipote, dopo che l'avranno riparata. Intanto, tu puoi usare la sua bicicletta, se vuoi.” La donna si alzò lentamente da tavola, come le permettevano i dolori alle articolazioni. “Aigo5! Questa sera ho davvero mangiato troppo. Devo proprio sdraiarmi. Voi due restate pure qui a chiacchierare, non mi disturberete... Grazie dell'ottima cena, Son-Jun.” “Grazie a lei! Signora Lee, io–“
Chantal si intromise, prima che Jean terminasse la sua frase. “Non si preoccupi, non sarà necessario che gli procuri un mezzo di trasporto. Sono praticamente in vacanza, in questi giorni; posso occuparmi io di fare l'autista per il suo ospite.” “Allora ti ringrazio. Sei molto gentile. Il nostro Jean è molto fortunato ad averti incontrata.” Accennò ad un ultimo saluto con la mano e sorrise con approvazione in direzione di Chantal. Era evidente che la ragazza le piacesse. Nella stanza calò il silenzio. Per l'imbarazzo di non saper come avviare la conversazione, nel caso di Chantal e per la fame, nel caso di Jean, che in presenza dell'anziana si era trattenuto a fatica, ma ora si stava letteralmente ingozzando senza darsi pena di usare le buone maniere, neppure in presenza di un'ospite. Quest'ultima ne approfittò per osservarlo meglio. Aveva i capelli di un castano scuro, leggermente mossi e le parve di scorgervi anche qualche riflesso ramato. Erano lunghi fino a toccargli le spalle, se ricordava bene, ma ora li portava raccolti in alto, in una sorta 5 Aigo!: Esclamazione di sconforto in coreano. 22
di chignon improvvisato, tenuto stretto da un elastico arancione. Ciuffi di capelli gli ricadevano ai lati di un volto dall'ovale perfetto, la lunga frangia gli copriva parzialmente un occhio e parte della guancia sinistra. Il naso era dritto, perfettamente simmetrico e ben proporzionato. Gli occhi allungati erano sormontati da sopracciglia dai contorni netti, folte, ma ordinate e le ciglia nerissime erano stranamente lunghe. Lui sollevò lo sguardo, sentendosi osservato. Le iridi sembravano dei pozzi neri, in quel momento, eppure lei ricordava chiaramente che fossero nocciola, alla luce del sole. E in quell'istante - esattamente come il sole - le appariva bello e luminoso. Arrossì per la seconda volta in un giorno. Un evento assai raro, per lei! Si schiarì la voce, prima di parlare. “Tu sei un artista, vero?”
Jean posò i bastoncini e si pulì la bocca. “Cosa te lo fa pensare?” “Principalmente il tuo aspetto, direi e il fatto che sei evidentemente uno spiantato.” Jean abbassò gli occhi e trattenne una risatina. “E che artista pensi che sia?” “Da come sei vestito, mi verrebbe da dire... musicista... ma potresti anche essere un attore, o più probabilmente un modello!” Jean scosse la testa. “Sbagliato. Io scrivo. Libri gialli, per essere precisi. Non sono ancora arrivato alla fama, ma ci sto lavorando.” “Però ho indovinato che sei uno spiantato, giusto?” “Diciamo che sono in una momentanea situazione di instabilità economica. Sono appena arrivato in Europa e non ho molti risparmi, quindi dovrò arrangiarmi trovando dei lavoretti...” Chantal fece un salto sulla sedia. “Allora forse io posso aiutarti! Ti ho detto che studio all'Università, ma questa non è la mia sola occupazione. Nel tempo libero (cioè la maggior parte), lavoro come truccatrice per un'agenzia di modelli. Potrei presentarti. Sono abbastanza sicura che ti prenderanno; stanno facendo dei casting proprio in questi giorni!” Jean si versò del soju, concedendosi del tempo per riflettere seriamente sulla proposta. *** Il casting era andato bene. Anche grazie alla sua doppia nazionalità, ora Jean poteva contare su un lavoro regolare, seppure temporaneo. Non aveva mai posato per delle foto, ma dopo una prima giornata davanti all'obiettivo per degli scatti pubblicitari, ci stava prendendo gusto. Il fotografo lo incoraggiava spesso, dicendogli che era molto naturale e che con il suo sguardo magnetico avrebbe conferito sensualità anche alla pubblicità di un digestivo. Il secondo giorno, si era ormai abituato ai ritmi serrati, aveva perso l'imbarazzo iniziale causato dal sentirsi addosso gli occhi di tante persone e iniziava seriamente a divertirsi. In quelle giornate di lavoro, Chantal lo seguiva nelle vesti di truccatrice e più trascorreva tempo con lui e più desiderava conoscere maggiori dettagli del suo passato. Alle sue molte domande, però, l'amico aveva fornito solo risposte evasive ed era chiaro che stesse cercando di tenerla ad una distanza di sicurezza. Tuttavia, lei non aveva intenzione di arrendersi e nella speranza di continuare almeno ad essergli utile, accompagnandolo in giro per la città, aveva fatto in modo che il suo meccanico provvedesse alle riparazioni della R4 con molta, moltissima calma. In realtà, Jean aveva già compreso il giochetto della ragazza, ma preferiva fingere di esserne all'oscuro. La verità è che era molto più comodo farsi scarrozzare in giro da una persona che conosceva la città come le sue tasche, piuttosto che doversi districare da solo nei labirinti cittadini e per giunta con una vecchia auto a cambio manuale. “Porti il kajal meglio di qualunque modella con cui hai lavorato oggi. Stai suscitando non poche invidie, qui e anche molti pettegolezzi. Ecco... stai fermo così ancora un attimo... Perfetto! Ho finito.”
“Lo so!” Jean aprì le palpebre e scrutò negli occhi di Chantal a pochi centimetri dai suoi. Sapeva che, ogni volta che lo faceva, il respiro di lei accelerava e si divertiva immancabilmente a testarla, per vedere quanto a lungo riuscisse a sostenere il suo sguardo senza capitolare, distogliendo il proprio o arrossendo. Mentre si consumava questa silenziosa battaglia, la parrucchiera stava terminando a sua volta di ritoccare l'acconciatura vaporosa di Jean, fissandola dietro le orecchie con poche gocce di gel. Gli sorrise nello specchio e sistemò un'ultima volta le sue lunghe basette, lisciandole tra indice e pollice. Lui la gratificò con un sorriso soddisfatto e complice. “Grazie ad entrambe. Avete fatto proprio un buon lavoro.” Si guardò allo specchio, girando più volte a destra e a sinistra il viso e lasciando che il suo ego, come le donne accanto a lui, si beassero di quella vista. La parrucchiera, particolarmente colpita da tanta ostentazione di mascolina bellezza, non poté fare a meno di esclamare: “Quel méchant sourcier! (Che fattucchiere malvagio!)” Jean le rivolse allora una strizzatina d'occhio, poi fece ruotare la sua sedia e quando poté guardarla direttamente negli occhi, le rispose: *** Jean non ricordava niente del suo passato con la madre. Era sparita il giorno del suo quarto compleanno, mentre riposava ignaro. Solo un paio di anni dopo, il padre gli consegnò un involto che conteneva la sua sciarpa arancione. Nessun biglietto, nessuna spiegazione ad accompagnarlo. Per anni, il piccolo Son-Jun continuò a chiedere spiegazioni al genitore, che si trincerava ogni volta dietro un impenetrabile silenzio, forse dettato dal dolore, o forse semplicemente dall'orgoglio. Di fatto, tutto ciò che Jean sapeva della madre era che amava i fiori, le rose, soprattutto, che aveva fatto piantare nel giardino di casa e che curava personalmente. Erano del suo colore preferito, rose arancioni, come la sciarpa. Ricordava che gli cantava ogni notte una ninna nanna in francese, o per meglio dire, un successo degli anni '50 che solo recentemente aveva scoperto s'intitolasse “Les Feuilles Mortes”. Gli piaceva la sua voce. Era melodiosa e calda anche quando lo rimproverava per le sue piccole marachelle. "MAE JEAN! C'est drôle ça... ton nom te va vraiment faire méchant, donc sois sage, maintenant, allez!" (MAE JEAN! È buffo... il tuo nome ti renderà davvero cattivo, allora fai il bravo, dai!). La ricordava allegra e sorridente, ma aveva scordato i particolari del suo volto. Dato che era bionda, forse aveva gli occhi azzurri. Avrà avuto labbra carnose come le sue? Desiderava saperlo. Voleva scoprire se le assomigliava in qualcosa, se ne aveva ereditato almeno qualche dettaglio nei lineamenti, oltre il fisico sottile. Immaginava anche che alcune delle sue espressioni fossero il riflesso di quelle di lei, non ricordando affatto quelle del padre o del fratello. Ma soprattutto, si era convinto che ritrovare la madre fosse per lui di fondamentale importanza per capire se stesso. Capire lei, scoprire i suoi sogni e anche le sue fragilità era sicuramente la chiave per comprendere le sue stesse irrequietudini. Queste erano le riflessioni di Jean, mentre sedeva nell'auto di Chantal, che guidava in direzione della Casa di Riposo per Sacerdoti in Pensione, dove erano stati inviati quella mattina dal nuovo parroco della Chiesa di Saint-Étienne. “Sei particolarmente silenzioso, oggi. Posso sapere a cosa stai pensando?” “Stavo pensando che da moltissimo tempo non mi sentivo più chiamare ‘méchant'... mia madre lo faceva spesso, giocando con l'assonanza che aveva con il mio nome in francese. Credo che le piacessero l'enigmistica e i giochi di parole, o almeno così mi disse un giorno la mia tata, quando mio padre non poteva sentirla.” “Tuo padre non voleva si parlasse di lei?” “No. Era un argomento tabù, in casa.” “Capisco. Allora è per quello che sei tanto determinato a trovarla, ora... o magari è più un interesse da giallista? È il mistero della sua scomparsa che ti attira?” “Credo siano entrambe le cose... o forse è il desiderio di fare un dispetto a mio padre.” “Non andate molto d'accordo, voi due, eh?” “Per non andare d'accordo, bisognerebbe avere almeno qualcosa in comune.” Jean teneva i pugni stretti sulle ginocchia. La conversazione era giunta ad un punto dolente. “Sei molto duro con lui, forse–“ “Siamo arrivati. È quello l'edificio. Fammi scendere qui e cerca con calma un parcheggio, poi raggiungimi.” Chantal pigiò sul freno e, nello stesso istante, Jean si catapultò fuori dall'auto, rischiando di colpire con la portiera un povero ciclista che stava sopraggiungendo e che, dunque, lo investì con una raffica di fantasiosi insulti. Quando Chantal lo raggiunse, pochi minuti dopo, lo trovò in una piccola saletta d'attesa. Era visibilmente nervoso. Arrivò subito d'appresso anche una donna con grembiule e cappellino bianco. “Signori, vi prego di seguirmi, Padre Lassalle vi sta aspettando.” L'infermiera li scortò in una saletta più grande, con tre tavoli ed alcune sedie, dove sedevano un paio di altri anziani ospiti. A ridosso di una parete, si trovava un lungo buffet su cui erano impilati bicchieri, tazze e piattini, accanto a dei cestini pieni di biscotti e frutta. C'erano anche dei thermos con tè e tisane e alcune bottiglie d'acqua. Il sacerdote guardò i due giovani con curiosità, invitandoli a servirsi. Si stava probabilmente domandando come mai due sconosciuti fossero andati a trovarlo. Ma poi Jean si presentò, spiegando che cercava informazioni su una certa Suzanne Jolie e gli occhi del vecchio si illuminarono. “Sedetevi, vi prego, sedetevi qui accanto a me. Sono piuttosto sordo, sapete, e ho bisogno di poter leggere anche le vostre labbra.” Durante la conversazione che seguì, Jean cercò di parlare lentamente e scandendo bene le parole, così da non doversi ripetere. “Ricordo molto bene sua madre, Monsieur Mae. Era una ragazza molto vitale, piena di entusiasmo. Non era proprio una parrocchiana modello, ma non perché fosse una cattiva ragazza...” Rise con l'indulgenza di un nonno comprensivo “Non veniva mai in chiesa per pregare, solo per unirsi al coro. Adorava cantare e aveva una bella voce. Comunque, ero il suo confessore e si confidava spesso con me. Alla fine del liceo, i suoi genitori volevano che andasse subito all'università, ma lei aveva altri progetti; voleva fare la stilista, ma siccome i suoi genitori non le permettevano di iscriversi all' ‘École de la Chambre Syndacale', lei prese tutti i soldi che aveva risparmiato e quelli che aveva ricevuto per la maturità e partì per un viaggio in Asia, dove immagino conobbe suo padre..." L'uomo fece una pausa per soffiarsi il naso e rinfrescarsi la gola con un sorso d'acqua. “La rividi circa cinque anni dopo. Sembrava molto stanca e provata, ma non volle confidarsi con me, né tantomeno confessarsi. Non mi disse del matrimonio e che aveva avuto un bambino. Credo che temesse un mio rimprovero, o che l'avrei forzata a tornare sui suoi passi. Mi disse invece che voleva aprire una casa di moda e che l'avrebbe chiamata 'Maison Jaun' (Casa Gialla). Poi sparì nel nulla, tanto che pensai che fosse tornata in Asia, ma un giorno ricomparve. Era venuta per salutarmi; stava di nuovo partendo per l'estero per inseguire i suoi sogni, mi disse. Aveva con sé un diario, un quaderno spesso, tenuto legato da un nastro e me lo consegnò, dicendo che voleva lo conservassi per lei, o per la persona che fosse venuta a cercarla, un giorno. Immagino parlasse di Lei, Monsieur Mae. Se mi aspetta qui, glielo vado a prendere subito. Jean trattenne a stento le emozioni che lo travolsero al ricevere quell'inaspettata notizia. Sua madre gli aveva lasciato un diario! Era talmente felice, che prese per le spalle Chantal, che gli sedeva accanto e la strinse forte. Tanto forte da toglierle il respiro. Quando la lasciò andare, fu lei, però, a stringergli le mani, per attirare la sua attenzione su un particolare. “Jean, la voleva chiamare come te, te ne sei accorto?” Lui sembrò non afferrare l'indizio. “A cosa ti riferisci?” “La casa di moda! La voleva chiamare con il tuo nome! Ascolta bene... Maison Jaun... Mae Son-Jun..." L'anziano parroco non si fece attendere che pochi minuti; tornò trascinando i piedi, con un voluminoso diario tra le mani e lo porse a Jean, mentre si sedeva con un sospiro di sollievo. “Ecco qui, ragazzo mio. Non mi sono mai permesso di aprirlo, ma sono certo che troverà molte informazioni utili su sua madre. E non è tutto qui.” Si tolse un foglietto stropicciato dalla tasca. “Questo è l'indirizzo della Pensione per Donne, dove ha vissuto Suzanne nell'ultimo periodo. Forse la direttrice saprà dirle qualcosa di più. Normalmente conservano un archivio degli indirizzi di chi si trasferisce, sa, per poter inviare la posta...”
Felice di aver reso un servizio postumo ad una parrocchiana, l'uomo si congedò con una flebile stretta di mano e i suoi ospiti partirono per la tappa successiva: la Pensione per Sole Donne “La Seine”, sulla Rive Gauche. *** Madame Rose era uno scricciolo di donna, la cui testa sormontava a malapena il bancone del Ricevimento. Aveva occhi piccoli dallo sguardo penetrante e labbra sottili. Ben conservava tutto l'aspetto di una donna che, in contrasto con le sue scarse doti fisiche, era stata però generosamente equipaggiata dalla Natura di carattere e determinazione sufficienti a guidare un esercito di uomini, figurarsi un ristretto manipolo di ‘gonnelle'. Non si stupì quindi Jean quando, appena varcata la soglia, si sentì apostrofare come se fosse un invasore belligerante. “Lei non può entrare, qui: è un Uomo..." Sottolineò il sesso di Jean come se il fatto costituisse di per sé già un peccato. “... Ma la signorina può passare, parlerò con lei. Intanto, può aspettare fuori.” Chantal fu rapida nelle presentazioni e venne subito al dunque, cosa che piacque a Madame Rose, che non amava certo i giri di parole e le perdite di tempo. In meno di cinque minuti, la donna verificò di non aver nessuna informazione su Suzanne, tanto meno il suo indirizzo attuale, però ricordava che, circa un anno prima, l'ex pensionante le aveva inviato una cartolina dall'Italia. Sparì dunque per qualche minuto e tornò vittoriosa. Un sorriso soddisfatto sul volto scavato, che rivelò dei denti ingialliti dal fumo e da troppo caffè. “L'ho conservata perché non è la solita cartolina di saluti. Contiene un indovinello, mi sembra e ho pensato che in realtà fosse indirizzata a uno straniero, qualcuno che lei cercava o che la stava cercando. Per qualche motivo deve aver pensato che sarebbe arrivato qui. È quel ragazzo, vero?” Chantal annuì. La direttrice si era rivelata attenta e sagace, come si era aspettata. La ringraziò e rigirò la cartolina tra le mani con curiosità. Anche in questo caso c'erano buone, anzi, ottime notizie per Jean e, questa volta, fu lei ad abbracciarlo, non appena lo ebbe raggiunto in strada. “La signora non aveva il nuovo indirizzo di tua madre, ma mi ha dato una cartolina che le ha inviato non molto tempo fa dall'Italia.” Jean vide che si trattava di una cartolina spedita dalla Toscana. Vi era ritratta una strada tortuosa di collina, tra i cipressi. Sul retro, invece, appariva la seguente scritta: “ Car l'amour est méchant, se cache chez Mae Son-Jun” (Poichè l'amore è malvagio, si nasconde presso Mae Son-Jun). Gli occhi di entrambi si illuminarono. Parlarono contemporaneamente. “È in Toscana, e si trova in una Casa Gialla!” Chantal aggiunse “... Probabilmente si tratta del suo atelier. Dobbiamo partire subito!” Dopo l'iniziale entusiasmo, Jean sembrò però diventare più cauto. “Un momento, la Toscana è grande. Da dove dovremmo partire con le ricerche?” “È facile! Sulla cartolina c'è una strada molto famosa, la chiamano la ‘Strada dei Cipressi' e si trova a Monticchiello, in Val d'Orcia. Ci sono stata diverse volte con i miei.” Jean restò a bocca aperta. “Dai, su. Non restartene lì impalato. Abbiamo un sacco di cose da fare..." Lo prese per mano e lo trascinò verso l'auto parcheggiata in divieto di sosta. CAPITOLO SECONDO Erano passati solo due giorni dal suo ritorno in Italia e ancora non si era riabituata ai profumi e alla luce della campagna toscana, dopo il grigiore degli ultimi mesi nella capitale inglese. Angelica aprì la porta della cucina ed uscì sulla veranda, dove gli ultimi quattro ospiti del b&b avevano appena terminato la colazione, prima di partire. Nel registro delle prenotazioni, non era annotato nulla per altre due settimane: un peccato, perché fine settembre aveva dei colori bellissimi e, nei dintorni, finalmente si potevano visitare borghi e città d'arte, approfittando di un clima favorevole e senza le solite folle di turisti che sciamavano da ogni dove durante l'estate. Ma, in fondo, era meglio per lei. Si sarebbe goduta il rientro a casa come fosse una vacanza e poi avrebbe finalmente deciso cosa fare della propria vita. Aveva rimandato troppo a lungo, trovando mille e mille scuse per non fare mai una scelta. L'ultima era che aveva bisogno di migliorare il suo inglese e certo non le si poteva dare torto, visto che suo padre lavorava nel campo dell'accoglienza turistica. Le piaceva il contatto con la gente e soprattutto le piaceva vivere in campagna. Affiancare il padre nella gestione di un Bed & Breakfast era perciò sicuramente un'opzione... eppure, quella possibilità non la convinceva fino in fondo. Tutto il suo mondo, escludendo la breve parentesi londinese, aveva sempre ruotato intorno a quella grande villa e alla sua famiglia. Se ci pensava bene, a parte la musica, i suoi libri e quella casa, non conosceva nulla del mondo. E più il tempo passava e più si sentiva insoddisfatta, chiusa in una gabbia dorata, dove non aveva bisogno di niente, eppure, in qualche modo, di tutto. Il padre aveva dedicato la sua vita a due cose: la musica, che insegnava al Conservatorio come maestro di violoncello e lei, viziandola e concedendole ogni lusso gli consentissero le sue finanze. Tentava, a modo suo, di compensare una figura materna pressoché assente, smarrita in un mondo tutto suo, fatto di piccoli lavori di giardinaggio e di lunghi pomeriggi trascorsi al pianoforte. Lui sapeva quanto la moglie amasse la loro figlia, ma era altrettanto consapevole che non fosse in grado di occuparsene, avendo lei stessa bisogno di cure costanti contro una depressione profonda che, giorno dopo giorno, la alienava sempre più dal resto del mondo. Poi, in seguito alla sua prematura dipartita, Vieri Nocenti si era dedicato alla ragazza con tale impegno da risultare quasi soffocante ad un osservatore esterno e questo atteggiamento eccessivamente protettivo aveva finito per minare la sicurezza e l'autostima di Angelica, che ora si dibatteva in un mare agitato da cui non sapeva come uscire con le sue sole forze. Strano che avesse pensato proprio al mare, come metafora di una situazione vischiosa e scomoda. La verità è che l'acqua era per lei un pensiero ed un incubo ricorrenti; l'aveva infatti sempre spaventata, sin da piccola, avendo mutuato dalla madre lo stesso terrore. Pur avendo una piscina in giardino, lei non le permetteva mai di avvicinarvisi se si trovava da sola, anche quando era ormai già un'adolescente ed era terrorizzata quando vi nuotava, nonostante indossasse sempre i braccioli, oltre al salvagente. Era, la sua, una paura comprensibile, ancorché irrazionale, perché quando era molto piccola, Angelica era caduta in acqua ed era stata salvata solo per un caso - e all'ultimo momento - dal vecchio giardiniere, ormai defunto, che l'aveva tirata fuori dalla piscina letteralmente tirandola per i capelli. Archiviò quei pensieri e fece un lungo sospiro, mentre si sedeva al tavolaccio di legno grezzo sotto il pergolato; posò la sua mug di caffè caldo ed iniziò ad osservare i movimenti di Tancredi, il nuovo giardiniere, che stava potando un cespuglio di rose rampicanti. Per meglio dire, direzionò il suo sguardo su di lui, senza vederlo veramente. Si concentrò invece sul motivetto che stava fischiettando, probabilmente una sua composizione, vivace e molto orecchiabile. Il giovane stava lavorando di buona lena, come se avesse intenzione di terminare il lavoro prima di pranzo e non si accorse che il ‘padrone' stava marciando verso di lui con un'espressione tutt'altro che felice stampata in volto. "Tancredi! Quante volte ti ho chiesto di chiudere a chiave il deposito degli attrezzi? Sono sparite nuovamente le trappole per le talpe e le cesoie elettriche!” Tancredi si tolse il cappello e si asciugò la fronte. “Sono certo di aver chiuso a chiave, come tutte le sere dopo il lavoro, non capisco–“ “Fa' più attenzione! La prossima volta, ti decurterò la paga... E poi indossa una maglietta, quando lavori! Adesso c'è mia figlia, in casa!” Il giardiniere bofonchiò qualcosa, mentre si infilava la sua maglietta sudata e lanciò uno sguardo in tralice ad Angelica. Era forse colpa sua se alle ragazze piaceva guardare un giardiniere sudato mentre lavorava? E poi non era certo una bambina, che danno poteva farle vederlo a torso nudo? Angelica osservò distratta il padre che si allontanava. Bevve un ultimo sorso di caffè e pensò che, se non fosse piombato - e presto - qualcosa di inaspettato nella sua vita, probabilmente non sarebbe mai più cambiato nulla. Sarebbe rimasta prigioniera in quella casa per sempre, incapace di spiccare il volo e di vivere la propria vita. Pregò allora che sua madre le inviasse almeno un segno, un'indicazione da seguire. Era pronta a fare qualunque cosa, pur di non trovarsi più in quel limbo... *** Anna, cuoca e tuttofare di Villa delle Rose, aveva appena terminato di riassettare la cucina e si apprestava a fumarsi la prima sigaretta della giornata nel dehors, quando, con la coda dell'occhio, vide che il gatto nero di casa, un tipo smilzo dagli occhi verdi, stava entrando di soppiatto dalla porta-finestra socchiusa dietro di lei, portando un uccellino morto tra le fauci. “Sciò, via di qua, Merlino! Smettila di portare in casa animali morti. Lo sai che il tuo padrone poi te la fa pagare. Se vivi ancora qui, è solo grazie alla signorina Angelica.” Tancredi aggiunse: “Prima o poi lo avvelenano, quel randagio...” “Ma che dici? Adesso non esagerare!” “Non sarebbe il primo gatto che fa una brutta fine, in questa famiglia...” “Ma solo perché i giardinieri di casa si dimenticano sempre aperto il casotto degli attrezzi. Il gatto della signora Aimée morì proprio perché si mangiò il veleno per topi che stava sullo scaffale nel casotto.” Tancredi tirò su col naso e si lisciò la barba incolta. “Sarà... ma se non fosse per la paga, io qui non ci verrei più a lavorare. Aveva ragione mio nonno quando mi raccomandava di stare lontano dalla Villa. Prima di morire, mi ripeteva spesso di “non andare a lavorare alla 'casa del nido del cuculo'”. “Non ci sono cuculi nella proprietà.” “No, era una metafora... voleva dire che questa era una casa di pazzi, per via di quel film con Jack Nicholson.” Anna si portò una mano alla bocca. “Vuoi dire che la signora Aimée avrebbe avvelenato il suo gatto?” “No. Sto solo dicendo che–“ Il giovane alzò all'improvviso gli occhi verso una finestra del piano superiore. La cuoca le dava le spalle, perciò non vide quello che aveva attirato l'attenzione di Tancredi. Certo qualcosa che lo innervosì tanto da fargli spalancare gli occhi ed interrompere subito la conversazione. Afferrò dunque il rastrello che aveva appoggiato ad un albero e si dileguò, prima che Anna potesse fargli altre domande. *** Il volo per Roma era andato liscio. Era passato da poco mezzogiorno, quando Jean partì dall'aeroporto con una piccola Nissan bianca a nolo. Anonima, ma sicuramente più affidabile del ferrovecchio che aveva lasciato in Francia nelle mani del meccanico. Impostò il navigatore e si mise in marcia verso il borgo medievale di Monticchiello, dove contava di arrivare presto. Chantal era partita prima di lui e l'avrebbe raggiunto con la sua macchina in alcuni giorni, dovendosi fermare per dei servizi fotografici in Provenza, prima di proseguire per la Toscana. Lui aveva incominciato a considerarla una presenza rassicurante e gli piaceva il modo in cui i loro cervelli lavoravano insieme. Stavano diventando una squadra e quindi aveva acconsentito con gioia, quando si era offerta di accompagnarlo. Poco più di due ore dopo, la Nissan entrò nel comune di destinazione e non avendo la più pallida idea di dove stabilire il suo quartier generale, Jean si affidò al caso. Seguendo dei cartelli di segnalazione turistica, arrivò quindi a varcare il cancello di una vasta proprietà terriera, da cui si scorgeva, su una bassa collina, una grande casa rosa a due piani, dalle finestre alla francese con persiane verdi. Il cartello di benvenuto la indicava come “Villa delle Rose” ed in effetti il giardino della villa era bordato da diversi cespugli di rose bianche e gialle. Vi si trovavano anche dei rampicanti di rose precoci, che però, in quel periodo, erano già sfiorite. La villa, originariamente una casa padronale, era stata trasformata in un Bed & Breakfast; forse, se si fosse proposto come aiuto tuttofare, gli avrebbero concesso uno sconto sul prezzo della camera. Al cancello, aveva infatti notato una dépendance in ristrutturazione, ma non sembrava ci stessero lavorando da un po'. Il cantiere era apparentemente abbandonato. Davanti all'ingresso principale, venne accolto da un uomo di mezz'età con capelli e barba bianchi. Aveva un'aria molto aristocratica e fiera, con un vezzo da intellettuale che lo faceva chiaramente identificare con il proprietario della villa. Sembrava un uomo dedito alla lettura e ad altri ozi di tipo culturale. Forse l'avrebbe preso in simpatia, se avesse saputo che era uno scrittore. O almeno lo sperava. “Buon giorno! Non ho prenotato, ma sarei felice di sapere se avete la disponibilità di una stanza singola... possibilmente a buon prezzo.” L'uomo guardò spazientito il costoso orologio che portava al polso. Poi tornò a concentrarsi sull'ospite inatteso. “Cosa intende, esattamente, con “buon prezzo”?” Jean si schiarì la voce. “Ecco, sono uno scrittore in cerca di ispirazione e non ho purtroppo molta disponibilità, sino a che non avrò pubblicato il mio libro.” Restò con il fiato sospeso, mentre veniva squadrato da capo a piedi, con cipiglio severo. “Intende dire che dovrei farle uno sconto in cambio di qualche copia del suo prossimo libro?” Jean arrossì per l'imbarazzo. “Non mi permetterei mai. Speravo di poterla aiutare con il giardino, oppure nel cantiere che avete giù alla dépendance...” “Mi chiede una stanza senza conoscerne il prezzo e senza sapere che tipo di ambiente offriamo ai nostri ospiti. Non è un po' avventato? Oppure l'ha mandata qualcuno?” Jean colse la palla al balzo e mentì. “Ho visto le foto e le recensioni su Tripadvisor. Mi sono innamorato subito di questo posto, credo che restare qui per un po', mi aiuterà a finire prima il libro.” Il proprietario della villa lo squadrò nuovamente, pensieroso, prima di emettere il suo verdetto. “Non ho prenotazioni per le prossime due settimane. Se è disposto a dare una mano al giardiniere, ci sono un po' di lavori da finire prima dell'inverno. Potrebbe pagarmi la metà del prezzo normale, in cambio di una decina di ore di lavoro settimanali. Posso farle... 45 euro al giorno, compresa la prima colazione, che ne dice?” Jean gli sorrise soddisfatto.
“D'accordo. Grazie mille! Mi chiamo Jean Mae, a proposito.” Dopo un attimo di esitazione, in cui Jean scorse un rapido moto di smarrimento, l'uomo annuì, accennando persino ad un sorriso. “Piacere. Sono Vieri Nocenti, il proprietario di questa villa. Entri pure e dica ad Anna, la nostra governante, di darle la camera bianca e che ha già parlato con me. Io stavo uscendo e sono già in ritardo. Spero che la vista sul giardino sia di suo gradimento e le permetta di scrivere un best seller. Con permesso..." Sopra il portoncino, si trovava un decoro dipinto a mano che rappresentava delle rose intrecciate dai colori tenui, ma quello che colpì Jean fu la scritta che si trovava al di sotto: La Vie est Belle. Si soffermò qualche istante ad osservarla. Le rose e la Francia sembravano seguirlo ovunque. Doveva essere sulla buona strada, una forza misteriosa lo stava guidando verso la meta. Se avesse continuato a fidarsi del suo istinto e del fato, non sarebbe tornato a casa a mani vuote, se lo sentiva, ma prima doveva leggere il diario della madre. Era sicuro che lì dentro avrebbe trovato molte risposte alle sue domande e, forse, anche qualcosa di più. L'ingresso della villa era a dir poco monumentale. Esagerato nel contesto di una casa di campagna, seppur grande e signorile, sembrava disegnato e decorato piuttosto per una villa di città. Il pavimento era interamente di marmo lucidato a specchio, color crema, con al centro un tavolo rotondo che sosteneva una grande composizione di fiori freschi. Ai lati, si aprivano due porte. Quella di sinistra dava su una sala da pranzo, arredata con pochi tavoli e un buffet per le colazioni e quella di destra su un ampio salotto, la cui parete di fondo era
dominata da un elegante camino bianco e arricchito da divani e poltrone in velluto blu. Su un tavolino vicino alla porta, si trovava un libro per gli ospiti. Istintivamente, Jean lo aprì. Sulla prima pagina era incollata una vecchia foto in bianco e nero della villa, e sotto, a mano, qualcuno aveva scritto in francese A volte, i ricordi prendono forma ed affiorano sulla superficie delle cose. Benvenuti nella casa di Aimée e Vieri. Che combinazione! La signora Nocenti è francese, allora! Magari conosce persino mia madre! Quante donne francesi potranno mai vivere in questo borgo? Jean richiuse il libro e si guardò intorno, per capire dove avrebbe potuto cercare la governante. Dei rumori lo spinsero ad entrare in sala da pranzo e da lì scorse una seconda porta, che evidentemente dava su di una cucina. Un tintinnio di porcellane e lo scorrere dell'acqua non lasciavano dubbi. Vi fece capolino con circospezione, salutando in inglese le spalle della donna all'acquaio. “Buon giorno! Sono appena arrivato. Il signor Nocenti mi ha chiesto di parlare con lei, per la stanza...” Anna si voltò lentamente e si asciugò le mani sul grembiule, prima di avanzare in direzione dell'ospite. “Benvenuto! Sono la signora Li, ma qui tutti mi chiamano Anna. Il Signore le ha assegnato una stanza in particolare?” “Sì, quella bianca.” Anna sorrise. “Deve averla presa in simpatia. È una delle più richieste per la vista sul roseto e i campi di girasoli sullo sfondo. Si gode anche di un bellissimo tramonto, da lì. Lei è coreano, vero? Io sono italo-cinese, ma sono nata qui e non sono mai stata in Cina, però sono stata due volte a Seoul.” Jean annuì e si passò una mano nei capelli per liberare il viso dalla frangia. “Sì, sono coreano.” “Gliel'ho chiesto, perché dietro questo sportello conservo la mia piccola dispensa di cibo asiatico. Se ne serva pure quando vuole. Troverà anche del buon ramyun6 e del kimchi7, di cui io vado matta. C'è anche un foglio con tutti i prezzi e un barattolo dove lasciare i soldi.” “Grazie mille, ne approfitterò sicuramente.” Si erano appena conosciuti e già si comportavano entrambi come fossero a proprio agio nel conversare. Jean sentiva di aver trovato un nuovo alleato in quella casa. 6 Ramyun: simile al ramen giapponese, ma piccante. 7 Kimchi, preparazione a base di pasta di peperoncino e cavolo cinese fermentato che accompagna ogni pasto dei coreani.
“Bene. Adesso mi segua. La stanza è al secondo piano.” Mentre lo accompagnava, Anna pensò che quel ragazzo lo incuriosiva. Era arrivato da lontano con null'altro che una sacca, da solo. Non sembrava il solito turista. I turisti asiatici che aveva visto passare di lì, negli anni, erano tutti vestiti in modo simile, con abbigliamento casual-sportivo, cappellacci di tela, macchina fotografica appesa al collo e di solito erano normalmente in coppia o in gruppo. A parte il fatto che nessuno di loro poteva vantare l'aspetto di un attore appena uscito dal set! Vestito completamente di nero, con un lupetto aderente a costine, jeans e giubbotto di pelle e quei folti capelli lunghi alle spalle era una presenza che riempiva una stanza fino a togliervi l'ossigeno... Strano che il signor Vieri non l'avesse informata del suo arrivo. Chi era veramente quel ragazzo? E poi, aveva visto con i suoi occhi come in passato il padrone adducesse delle scuse per non ospitare maschi single - e soprattutto di bella presenza - nel timore che potessero ronzare intorno alla figlia. Forse pensava che gli orientali appartenessero ad un'altra categoria? Aprì una porta in cima alle scale. “Ecco qui. Questa è la sua stanza. Ha un bagno privato. La porta qui accanto è quella di un salottino. È in comune solo con le stanze della famiglia, che però non lo utilizzano mai. La colazione è dalle 7 alle 10. Se ha bisogno di me, può cercarmi in cucina.” Anna fece un breve inchino e si chiuse la porta alle spalle. Rimasto solo, Jean lasciò cadere a terra la sacca, ne tolse una maglia e i pantaloni grigi di una tuta, che ripose su un ripiano in bagno e si buttò sul letto ad occhi chiusi, con l'intenzione di riposarsi qualche minuto, prima di farsi una doccia. ***
Un leggero bussare alla porta lo risvegliò dal suo torpore. “Sono Anna, signore. Volevo dirle che nel salotto piccolo è stato servito del tè, se lo gradisce.” Jean cercò l'ora sulla sveglia accanto al letto. Erano passate le cinque, segno che si era addormentato e aveva riposato un paio d'ore. “Grazie! Vengo subito.” Non avrebbe avuto tempo per farsi una doccia e cambiarsi, ma non si sentiva impresentabile, quindi uscì dalla stanza ed entrò con circospezione nel salottino familiare, non sapendo se vi avrebbe trovato qualcuno e temendo un nuovo incontro esaminatore con il padrone di casa. Ma la stanza si rivelò vuota. Sul tavolino da caffè erano ancora presenti due tazze vuote con altrettanti piattini da dolce, segno che, recentemente, una coppia vi aveva soggiornato. Alla sua destra, vide un carrello portavivande coperto da una tovaglia di pizzo, su cui si trovava un samovar d'argento e una tazza da tè di fine porcellana inglese con alzatina floreale abbinata. Ancora rose... aleggiavano anche nell'aria, adesso, sotto forma di profumo. Un profumo fresco e leggero che gli fece chiudere gli occhi per assaporarlo appieno. Si riempì una tazza e si sedette sul divano, posando sulle ginocchia il pesante diario della madre, che, per rispetto, o forse per paura, non aveva ancora osato aprire. Ne sollevò dunque con reverenza la copertina. Sulle prime pagine, erano presenti degli schizzi di paesaggi anonimi e alcuni citazioni poetiche. Poi, finalmente, riconobbe una grafia femminile ed ordinata su un foglio, nel quale erano stati vergati luogo e data, in testa ad una prima annotazione. Beijing, 16 ottobre 1983 Devo essere pazza. Sono partita due settimane fa per un Paese lontano e sconosciuto, unicamente per ripicca. Pensavo di restare qui solo una decina di giorni, ma questo viaggio in Cina mi sta rapendo l'anima! Ho deciso persino di iniziare un diario per raccogliervi le mie tante emozioni e testimoniare a chi vorrà leggerlo che non sono la ragazza che molti pensano di conoscere e che nessuno potrà impedirmi di realizzare i miei sogni. Nel frattempo, però, dovrò fare i conti con una cultura molto lontana dalla mia e una situazione politica non proprio favorevole. Qui, agli stranieri non è consentito girare liberamente, tanto meno per me, che non parlo il mandarino. Fortunatamente, nel mio albergo ho trovato un uomo d'affari coreano che parla molto bene l'inglese e che si è offerto di condurmi a visitare la città. Oggi mi ha portata a vedere il Tempio del Cielo e domani, forse, visiterò la Via Sacra delle Tombe dei Ming. Conosce moltissime cose della Storia e della cultura cinesi ed è un cicerone perfetto, anche se non credo riuscirò mai a ricordare tutto quello che mi racconta. Faccio già fatica a ricordare il suo nome e quindi me lo scrivo, per evitare figuracce nei prossimi giorni: Mae Sang-Woo. A corredo del testo, Suzanne aveva incollato sulla pagina una foto del tempio e una piccola foglia secca d'acero. Jean richiuse il diario e si servì di una porzione di torta alle mele. E così i suoi genitori si erano conosciuti in Cina. Nel 1983 suo padre aveva già quarant'anni e sua madre solo diciannove, non si sarebbe stupito, quindi, se fosse stato il padre a fare la prima mossa. Era molto bella e giovanissima e, probabilmente, la prima donna bionda che egli avesse mai visto. Jean aveva timore di continuare quella lettura, sospettando che vi avrebbe trovato più che un accenno alla ricchezza del padre e alla sua generosità, perché gli restava difficile pensare che una donna così spensierata e poco più che adolescente potesse trovare un qualche altro interesse in un uomo così vecchio. Invece, tornò in camera sua e, dopo aver riposto il diario in un cassetto, prese il laptop e tornò nel salottino dove, grazie ad un'ispirazione sopraggiunta all'improvviso pochi istanti prima, iniziò finalmente la stesura dello schema generale per il suo nuovo romanzo. *** Nella stanza era sceso il buio. Jean era rimasto così concentrato sulla scrittura da non accorgersi dello scorrere del tempo. Erano quasi le nove, quando finalmente si diede per soddisfatto e spense il computer. Si tolse gli occhiali e si massaggiò il ponte del naso. Allargò le braccia e si stirò la schiena per alleviare la tensione muscolare, causata dall'essere rimasto troppo a lungo incurvato sulla tastiera, poi si alzò dal divano e si avvicinò alla finestra. Dal salotto, si godeva la vista sulla piscina, che in quel momento era solo flebilmente illuminata. Presto, l'avrebbero sicuramente svuotata in attesa dell'inverno, ma al momento, sull'acqua galleggiavano alcune foglie trasportate dal vento e... uno straccio? C'era una macchia nera che galleggiava in piscina. Jean aprì la finestra per guardare meglio, accorgendosi che quello che inizialmente gli era sembrato solo un fagotto inanimato era invece un animale in procinto di affogare. In pochi istanti, stava già correndo giù per le scale e fuori in giardino. Fece il giro della casa e si guardò intorno, per capire cosa potesse afferrare allo scopo di avvicinare al bordo il gatto, senza doversi tuffare. Identificò allora un rastrello abbandonato a terra e, dopo averne afferrato l'estremità del manico, si sporse in avanti nel tentativo di raggiungere il felino. Angelica aveva appena finito di intrecciarsi i capelli per andare a dormire ed era seduta sul suo letto, nel suo pigiama preferito. Era di raso, di un tenue azzurro celeste, su cui erano disegnati dei giaguari e delle orchidee rosa. Dormiva sempre con la finestra aperta e quindi le fu facile sentire il tonfo di passi rapidi che percorrevano il perimetro della casa. Si avvicinò al davanzale, e si sporse per guardare nella direzione verso la quale sembravano essere diretti quei passi. La piscina. Aveva già tolto le lenti a contatto e attraverso il buio poteva distinguere solo i contorni delle cose. Notò però una figura vestita di scuro, in bilico sul bordo della piscina, che stava agitando un palo sull'acqua. Poi vide che, proprio in quel punto, il povero Merlino stava faticando a restare a galla. Quel mostro lo aveva evidentemente buttato in acqua e ora stava cercando di dargli il colpo di grazia. Nonostante lo spavento e l'orrore, riuscì a soffocare un urlo, per non mettere in allarme l'intruso, trovò velocemente gli occhiali sul comodino e li inforcò, prima di afferrare una piccola coperta, che spesso usava come scialle, e precipitarsi in giardino. Ancora un ultimo sforzo e Jean sarebbe riuscito a riportare al sicuro il micio spaventato. Il rastrello era pesante e non stava certo facilitando l'operazione. Ancora solo un piccolo sforzo... “Metti subito giù quel rastrello!” L'ordine perentorio, urlato in italiano, lo prese contropiede e gli fece perdere la presa sul rastrello, che cadde in acqua con un tonfo. Ruotò di scatto su se stesso, per vedere il volto della donna che gli aveva appena rovinato un'operazione di salvataggio altrimenti perfetta, ma nella posizione in cui si trovava, il baricentro lo fece inclinare all'indietro, così, istintivamente, per riuscire a riconquistare l'equilibrio, la sua mano sinistra si proiettò in avanti ad afferrare la prima cosa che trovò, nello specifico, un lembo dello scialle di Angelica. A quel punto, a lei sarebbe stato sufficiente osservarlo cadere nell'acqua portando con sé lo scialle, ma fece invece l'errore di afferrarlo e di aggrapparvisi con forza. Questo tuttavia non permise a Jean di ritornare in posizione verticale. L'altezza, l'inclinazione e il peso di Jean rispetto ad Angelica giocarono a suo sfavore e il ragazzo precipitò all'indietro trascinando con sé la ragazza. Riemersero entrambi dall'acqua con i volti coperti dai lunghi capelli bagnati. Jean la aiutava a galleggiare tenendola per la vita, urlante e chiaramente spaventata. Sputò dell'acqua e si tolse i capelli dagli occhi, mentre Angelica era impegnata a tempestargli il petto di pugni. Nel frattempo, Merlino si leccava una zampa e osservava la scena dall'alto di una sdraio, al sicuro e all'asciutto. “Lasciami andare! Togli subito le tue sudice mani da me!” Questa volta, Angelica gli parlò in inglese, avendo compreso dai tratti chiaramente orientali, che si trattasse di un turista. Jean non le diede comunque retta e la trascinò invece verso le scale in pietra che costituivano l'ingresso in piscina. Fece sedere Angelica sul gradino più alto e solo allora la lasciò andare. Vide che stava tremando e appariva confusa, come se fosse in stato di shock. Vide anche che aveva perso gli occhiali. “Aspettami qui, torno subito.” Corse in bagno e si concesse solo il tempo di indossare una nuova maglia prima di prendere un accappatoio bianco con il monogramma della Villa e tornare da lei. Le tolse dalle spalle lo scialle fradicio e si accorse che i suoi occhiali erano rimasti impigliati nelle frange, li liberò per asciugarli e poi li appoggiò sul naso di lei. Finalmente, l'aiutò ad alzarsi e le fece indossare l'accappatoio, cercando intanto di non guardare alcuni dettagli del suo corpo, inevitabilmente rivelati dal tessuto fradicio del pigiama che le si era appiccicato addosso. Angelica, che era rimasta tranquilla e silenziosa fino a quel momento, gli parlò balbettando, con la voce flebile e lamentosa di una bambina. Le battevano i denti. “Ch-chi s-sei? P-p-perc-ché vo-volevi an-an-annegare il m- mio g-gat-to?” Jean le stava massaggiando la schiena e le spalle attraverso il cotone dell'accappatoio. Si accorse che aveva una corporatura sottile ma ben proporzionata ed era molto più bassa di lui, forse un metro e cinquantacinque, non di più. Era curioso di vedere il suo viso, ma non l'aveva alzato a sufficienza. Gli stava fissando lo sterno. “Non cercavo di fare del male al tuo gatto. Ero nella mia stanza e ho visto che era caduto in acqua. Così sono corso in suo soccorso... poi, sei arrivata tu.” L'ultima frase suonava decisamente come un'accusa. Angelica premette allora le mani sul suo petto per allontanarsene e finalmente lo guardò in faccia. La sorprese un sorriso caldo e amichevole, che le produsse una strana sensazione alla bocca dello stomaco e la costrinse a sorridere a sua volta in risposta. Aveva dei lunghi capelli umidi e spettinati, come se li avesse tamponati di fretta con un asciugamano, prima di raggiungerla. Ricordava che avesse un lupetto nero, quando erano in acqua, ma ora indossava una maglietta a manica lunga con un ampio collo a barchetta che lasciava intravvedere la base del collo e le clavicole. Pensò che avesse delle bellissime spalle, larghe e diritte. Si stupì di quanti particolari avesse notato in quei pochi momenti così concitati, ma tutto di lui emanava una forza magnetica che sembrava acuirle i sensi. Per un istante, si disse che se le avessero mai chiesto di immaginare una divinità orientale, l'avrebbe immaginata esattamente così. Intanto, Jean afferrò l'asciugamano che aveva posato su una spalla e prese a frizionarle i capelli con delicatezza. “Sta' ferma. Adesso ti lascio andare. Sto solo cercando di–“ “Va bene così. Ci penso io, adesso.” Angelica scostò le mani dello sconosciuto. Iniziava a sentirsi a disagio, in sua presenza. Fece due passi per allontanarsi, ma poi si voltò verso di lui. “A proposito, mi chiamo Angelica: vivo e lavoro qui. Immagino che tu sia un ospite dell'ultimo minuto.” Jean si passò le mani tra i capelli e il movimento delle braccia fece alzare di poco la maglia, rivelando un piccolo lembo di pelle sopra la cintura, che lei si sforzò inutilmente di non notare. “Io sono Jean, vengo dalla Corea del Sud, ma sono arrivato oggi dalla Francia e credo che abbiamo qualcosa in comune di cui parlare...” *** Anna entrò nel salottino con un vassoio, lo appoggiò sul tavolino da caffè e si sedette sul divano. Se si aspettava che la ragazza avesse bisogno di parlarle, venne però delusa. “Grazie. Vai pure a riposare, ora e scusa se ti abbiamo disturbato.” La domestica stava trattenendo a stento una risatina. “Nessun problema. Tanto ero già in cucina. Però...” Ma non riuscì invece a trattenere la sua crescente curiosità. “... come mai siete finiti tutti e due in piscina?” Angelica indossava una tuta verde con un'ampia tasca sul davanti in cui affondò le mani, prima di rispondere. Il suo sguardo era concentrato in un punto indefinito sul tavolino davanti a sé. “È stato tutto un malinteso. Pensavo volesse uccidere Merlino.” “Non credo di capire.” “Merlino era in acqua e lui aveva un rastrello in mano, proteso verso il gatto. Pensavo stesse cercando di affogarlo.” “Continuo a non capire la logica del ragionamento. Non era più ovvio pensare che stesse cercando di salvarlo, invece?” “È che Tancredi insiste nel dire che farà una brutta fine, come il gatto di mamma e continuano a succedere strane cose. Papà si lamenta che spariscono oggetti dalla casa e dal deposito degli attrezzi, per esempio... Credo di essermi lasciata suggestionare troppo.” Anna batté una mano più volte sulle ginocchia di Angelica, in segno di conforto. “Sei troppo sensibile, ragazza mia e a volte mi sembri davvero una bimba spaventata. Sei a casa, qui. Non ci sono pericoli nascosti. E non ci sono ignoti che tramano nell'ombra e tendono agguati.” Gli occhi di Angelica si fissarono in quelli di Anna. “E allora perché Merlino era in acqua? Lui la detesta e non si avvicina nemmeno al bordo, eppure stava annaspando quasi al centro della piscina...” In quel momento entrò Jean. Si era evidentemente fatto una doccia ed aveva indossato una comoda felpa con cappuccio, che copriva i capelli bagnati, abbinata ad un paio di pantaloni arancioni di tela leggera. Anna si alzò. “Allora, io vi lascio alla vostra cioccolata. Buona notte!” Le risposero in coro. Jean intanto si accomodò sul divano di fronte ad Angelica ed inspirò i vapori caldi che salivano dalle tazze, con gli occhi chiusi e un sorriso da bambino felice sulle labbra. Istintivamente, Angelica si sistemò meglio gli occhiali sul naso. Jean le allungò una tazza. “Bevi, ti farà bene.” Come già in precedenza quella sera, ella gli ubbidì mite rivolgendogli finalmente la domanda che aveva in testa da un po'. “Hai detto che dovevamo parlare. Cosa intendevi?” Jean intinse un dito nella cioccolata e se lo mise in bocca estraendolo poi perfettamente pulito, per poi ricominciare. “Mmmm, buonissima. Adoro la cioccolata che fate in Europa.” Di nuovo portò un po' di cioccolata alla bocca senza ricorrere al cucchiaino e Angelica trattenne il fiato. “Giusto. Si tratta di questo: tua madre è francese, vero?” Angelica non riusciva a smettere di guardare i movimenti di quelle mani delicate, dalle dita lunghe e sottili, eppure decisamente maschili e si domandò se il loro proprietario avesse per caso il potere di ipnotizzare una persona semplicemente assaggiando una cioccolata. Notò che la stava fissando come se aspettasse qualcosa e allora si ricordò che aveva appena formulato una domanda e si affrettò a rispondergli. “Era. È morta quasi due anni fa. Era francese, sì.” Jean apparve imbarazzato. “Mi dispiace, non volevo rievocare ricordi spiacevoli. L'ho chiesto solo perché anche la mia lo è. Si tratta di una storia lunga e non vorrei annoiarti, ma sono qui per ritrovarla. So che è venuta a vivere da queste parti, o almeno che ci viveva un paio di anni fa e ho pensato che potesse frequentare o almeno conoscere tua madre...” “Mia madre non frequentava quasi nessuno, purtroppo. Soffriva di una brutta forma di depressione e non usciva quasi mai di casa. Come si chiama tua mamma?” “Suzanne Jolie.” “No. Questo nome non mi dice niente, ma dovresti chiedere anche a mio padre. Lui conosce praticamente tutti, qui nella zona, mentre anche io esco relativamente poco di casa. I miei amici si trovano quasi tutti a Siena, perché è lì che ho frequentato l'università.” Jean decise di osservarla con più attenzione, mentre sorseggiava lentamente la sua cioccolata. Era minuta, come molte ragazze coreane che conosceva, ma più bassa. La pelle era naturalmente chiara, ma con una lieve traccia di abbronzatura; l'ovale del viso incorniciava due occhi grandi e azzurri dietro occhiali a buon mercato che non li valorizzavano, un naso minuto con due narici precisamente tonde e una bocca ben disegnata, dalle labbra di un rosa pallido. Aveva capelli castano chiaro, lunghi fino alla vita, che lei intrecciava alle dita mentre parlava. Sembrava quasi una liceale, ma, più dell'aspetto, a farla sembrare tanto giovane era piuttosto l'atteggiamento timoroso e insicuro che esibiva. Lui aveva l'impressione di metterla a disagio e decise di verificarlo. “Non so perché, ma ho paura che la mia presenza ti renda nervosa. Sei ancora convinta che sia io lo psicopatico che ha buttato il tuo gatto in piscina?” Angelica scosse la testa con convinzione. “No. Certo che no. Non avrebbe senso. Mi sento solo ancora un po' scossa per l'incidente. Voglio dire, ho quasi annegato un ospite e poi–“ “Non sai nuotare, vero?” “Come hai fatto a capirlo?” “Eri terrorizzata, quando ti ho portato a galla.” “Sì, da piccola ho rischiato di morire annegata e da allora, l'acqua mi fa molta paura.” “Questo spiega anche la tua reazione irrazionale, quando hai visto il gatto in difficoltà.” Angelica bevve tutto d'un sorso la sua cioccolata. “Mi dispiace molto.” Jean le sorrise. “Di cosa?” “Per averti fatto cadere in piscina.” “Non preoccuparti, diciamo che è stato un modo originale per rompere il ghiaccio tra noi.” “Rompere il... ghiaccio?”
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No, ma l'hai detto come se potessimo diventare amici.” “E perché no? Dovremmo anche avere suppergiù la stessa età. Sarò franco. Io ho bisogno di fare delle ricerche, qui intorno, ma non conosco la tua lingua, mentre tu parli bene l'inglese. Se avessi del tempo da dedicarmi, potresti darmi una mano. Purtroppo non posso pagarti, se non con il piacere di accompagnarmi in giro. Ecco perché, egoisticamente parlando, mi serve la tua amicizia...” Concluse quell'ammissione con un sorriso malandrino e un sopracciglio sollevato. Era indubbiamente un fanfarone, ma terribilmente adorabile e le fu impossibile dirgli di no. Tutto d'un tratto sentì allora sciogliersi la tensione e venne colta dal desiderio di approfittare di quel tempo insieme per conoscerlo meglio. “Ok. Allora mi unisco alla tua caccia al tesoro. Da dove si comincia?” “Purtroppo non ho molti indizi da cui partire...” Le raccontò quindi della foto della madre e delle prime ricerche in Francia, che lo avevano portato in Italia e del sogno di lei di aprire una casa di moda che probabilmente aveva - o aveva avuto - sede in una casa gialla nella campagna Toscana. Le raccontò anche della fissazione della donna per i giochi di parole. Angelica lo aveva ascoltato attentamente, facendo domande intelligenti quando ne aveva avuto bisogno e verificando di aver capito correttamente le sue spiegazioni. Sul nome della Maison Jaune, si soffermò pensierosa. “Maison Jaune... Non conosco un atelier di moda con quel nome, ma mi ricorda sicuramente qualcosa. Sono certa di averlo già sentito, quando ero piccola. Se è così, ne dovrebbe sapere qualcosa mio padre. Potremmo iniziare da qui. Trovare qualcuno che abbia memoria di questo atelier.” Un lampo le attraversò lo sguardo. “Un momento! Non è qualcosa che ho sentito da piccola! È un nome che ho letto! C'era un vestito che amavo tantissimo di mia madre e ogni tanto lo indossavo di nascosto. Il nome 'Maison Jaune' era ricamato sull'etichetta! Mio padre ha regalato tutta la sua roba, dopo la sua morte, ma quel vestito l'ho tenuto per me e l'ho messo in una scatola perché non si sciupasse. Aspettami qui, te lo porto.” Angelica ritornò con una scatola larga e piatta in cui era riposto un abito corto in seta, con delle maniche ampie e grandi rose stampate. Mostrò a Jean l'etichetta sulla fodera. “Non so se questo possa esserti utile, ma è almeno una prova che tua madre ha effettivamente aperto una casa di moda e ha venduto dei capi. Sembra plausibile che si sia realmente trasferita in Italia e potrebbe essere che abbia davvero conosciuto mia madre.” Jean si alzò in piedi, ritemprato da quell'esile eppur significativo indizio. Doveva mettersi subito al lavoro. “A questo punto, credo che la cosa migliore sia terminare di leggere il suo diario. Anche se è stato scritto prima che lasciasse la Francia, probabilmente mi aiuterà almeno a capire le motivazioni per cui l'ha fatto e quindi quali fossero più precisamente i suoi piani.”
Marta Brioschi
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|