Raffaella era nata in quel paesino montano con meno di mille abitanti, quello che ha un affaccio spettacolare su una vallata attraversata da un torrente che si ingrossa d'inverno e si quasi secca d'estate, quello di cui si racconta che fu fondato da alcuni reduci della sesta crociata prigionieri in Terrasanta e che, liberati da Federico II nel 1228 con la presa di Gerusalemme, seguirono l'imperatore in Italia, per qui stabi-lirvisi. La vita di Raffaella iniziò con un mal evento; il padre morì di una brutta malattia che lei ancora succhiava il latte dal seno materno. Questo tragico fatto obbligò la madre a cercare fortuna in città appena dopo il suo svezzamento, affidandola alla nonna e allo zio che, scapo-lo, coabitava colà. Crebbe perciò con la nonna e lo zio fino all'età scolare, per seguire poi la madre in città. Evento questo, che le causò qualche trauma. In paese cresceva coccolata dai vicini che sempre per lei avevano qualcosa da regalarle e così sovente le mattine le portavano uova fre-sche, ciambelle appena sfornate, crostate, latte appena munto... Abitava in una casina incollata ad altre posta proprio al centro della via dove, uscendo da casa era la discesa a destra e la salita a sinistra: “abbásc” e a “môônt” era la maniera locale di indicare “giù al paese” e “su al paese.” Dietro ognuna di queste case era un orticello che sporgeva, appena prima di un sentiero di terra battuta, sulla vallata e quell'esposizione permetteva di godere di almeno sette ore di sole al giorno. Tutte le ca-se avevano quel fazzoletto di terra posto davanti all'ingresso di servi-zio, dov'era, immediatamente dopo l'uscio, la camera da letto mentre la camera destinata al pranzo era dall'altro ingresso, quello principale, così che al mattino, aprendo i battenti, si potesse godere del sole; e per chi ne avesse l'anima, anche dello splendido panorama. L'orticello era coltivato nelle ore libere dal lavoro dei campi e che si rivelava utile per ricavarne ortaggi nei mesi dell'anno ed era coltivato secondo un calendario particolare che lo zio spiegava essere quello lunare. E così a gennaio, Raffaella vedeva lo zio zappare e vangare il terreno per eliminare i residui delle piante coltivate l'anno precedente per poi piantare cavoli, melanzane, pomodori, peperoni, ravanelli, sedani. Ed era in questo mese che lo vedeva potare l'alberello di melo e di pero posti ai lati del cancelletto d'ingresso. “A febbraio, con la luna calante” gli spiegava “Si seminano, al riparo, gli ortaggi a foglia e il sedano e a dimora le bietole, gli spinaci e la lat-tuga e con la luna crescente, invece, si concimano carote, ravanelli e piselli” e, mostrandole il lato sottovento: “lì al riparo andranno le piante aromatiche.” E così per ogni mese dell'anno. Questa bambina era dotata di una vivida curiosità e poneva sempre mille domande allo zio che con benevolenza soddisfaceva il suo bi-sogno di conoscere e sapere. Quelle case addossate le une alle altre formavano con il retro come un muro di cinta al centro storico. Le sere d'inverno, che lì in montagna risultavano sempre gelide, si riunivano tutt'e tre davanti al braciere di rame con la brace sempre vi-vida; era quello l'unico modo per riscaldare l'ambiente, e si racconta-vano ricordi, accadimenti e gli inevitabili pettegolezzi. Raffaella si accomodava sempre sulle gambe dello zio e lì stava ad ascoltare fin quando non cedeva al sonno. Fu in una di quelle sere che seppe di nonno Liberato (defunto) e della nonna. Quella era una storia di circa vent'anni prima e che in paese aveva fatto scalpore. Era una di quelle storie ingarbugliate tra leggenda paesana e verità. Quella sera, mentre credevano Raffaella addormentata in braccio, la nonna raccontò la verità di quel fatto al figlio. Glielo doveva. Era ora. E si sarebbe anche liberata di un segreto così lungamente taciuto. Il paese, iniziò serafica, era stato da poco occupato dai tedeschi per controllare il vallo. Avvenne in una fredda nebbiosa alba di marzo, verso le sei del mattino. Furono svegliati da un insolito rombo di ca-mion con sedici soldati tedeschi trasportati, e dallo scoppiettìo di un sidecar condotto da un militare con degli enormi occhiali da moto in-forcati sul viso e con, seduto al lato, un giovane ufficiale austriaco in-freddolito. Questi presero immediatamente possesso della casa del podestà, dove si acquartierarono, ordinando di adunare in piazza la popolazione per illustrare il motivo del loro insediamento. La piccola comunità, superata la sorpresa e lo sconcerto, si rassegnò subito, con quel tratto di carattere che li faceva credere che il destino non si cambia mescolando le carte. La convivenza non risultò particolarmente problematica nonostante questi non perdessero occasioni per rimarcare gli italiani traditori. Quei pochi maschi rimasti in paese, ingoiavano amaro, invitati a farlo dal podestà, dal comandante dei carabinieri e dal parroco, le più alte cariche della comunità. Non cedere alle provocazioni era la parola d'ordine. Il nonno non era sotto le armi per via di un incidente di lavoro capita-togli anni prima in campagna che l'aveva reso zoppo: un colpo di zappa andato a vuoto su un terreno talmente duro da richiedere forza nel menare i colpi, gli aveva spezzato l'osso della tibia. L'infezione prima e il male intervento che seguì poi, compromisero per sempre l'uso corretto della gamba e quello che all'inizio parve a tutti una sciagura, si rivelò, il giorno dell'arruolamento, una grazia. Quando si azzoppò fu da tutti commiserato e additato come perseguitato dalla malasorte, sfortunato, disgraziato, ma quegli stessi, quando si appre-starono a partire per il fronte, si ritrovarono a invidiargli l'invalidità; avrebbero volentieri, e subito anche, scambiata la loro condizione di “abile e arruolato” con la sua di “inabile all'esercito regio”, mentre lui, con invidia e amarezza contro quelli che erano stati favoriti più di lui dal destino, avrebbe preferito salire su quelle tradotte pur di riave-re la sua gamba sana: “che da lì” andava pensando con malanimo, “si può sempre tornare”.
Il nonno andava ogni mattina, a dorso di mula, a curare il podere e le bestie, distante dal paese circa sette chilometri mentre la nonna si oc-cupava del governo della casa e di svolgere il mestiere di sarta. Era l'unica in paese a svolgere quella professione e il lavoro non manca-va. La figlia più grande poi, di anni sette, quando tornava da scuola con la sorellina e il fratellino, sempre le dava un aiuto nelle faccende casalinghe. Con l'arrivo di quella ventina di militari, il lavoro era un po' aumen-tato, con gran gioia della sarta che si vedeva, rispetto ai propri com-paesani, pagar meglio il proprio mestiere. Un giovane tedesco in particolare, pareva aver sempre più bisogno della sua opera e le sue ripetute visite insospettirono qualcuno e uno di questi si preoccupò di mettere la pulce nell'orecchio al nonno. Il nonno era il tipico montanaro taciturno e determinato. All'informazione ricevuta non tradì al confidente nessuna emozione, si limitò solo a scrutarlo profondamente come a voler capire quanto quell'insinuazione fosse meritevole di considerazione o quanto fosse solo frutto d'illazione. Ma il compare era uomo fidato e mai, se non ne fosse stato certo, si sarebbe permesso tanto. La nonna non sapeva da quando il marito fosse a conoscenza di que-sta tenerezza nata bottone dopo battone, rinàccio dopo rinàccio, ram-mendo dopo rammendo. Il giovane soldato era gentile, sorridente, accorto nei modi e sempre si ricordava di lasciarle del cioccolato prima d'andar via. E fu così che un mattino, appena dopo che il nonno chiuse dietro di sé l'uscio, si ritrovò piena di ansia preoccupata, di timorosa attesa e con un forte desiderio della sua visita; un sentimento che mai aveva provato pri-ma. Il giovane sempre entrava in casa sorridendo prima con gli occhi e poi col resto. Sapeva sempre di pulito e le sue mai, oh quelle mani! erano così affusolate, delicate, morbide, curate e incredibilmente bianche. Quelle del marito per contro, erano tozze, cotte dal sole, cal-lose e annerite da quella sporcizia frutto di lavoro senza ore. Riuscivano a intendersi a fatica, con tanti gesti e poche parole d'italiano che il giovane Hugbert, che lei sempre aveva chiamato Ugo non riuscendo a imparare il suo nome, stava apprendendo. Era riusci-to a farle capire, non senza difficoltà, che era studente, che appartene-va al ceto medio-borghese, e che era contrario all'ideologia nazista. Che aveva fatto parte di un movimento studentesco di protesta e che, all'arresto e decapitazione dei fratelli Sophie e Hans Scholl... e qui rinunciò a spiegare oltre perché iniziava a diventare complicato; ag-giunse solo che riuscì fortunosamente a sfuggire alle maglie delle in-dagini della Gestapo perché era entrato nell'esercito a combattere sul fronte italiano. Quando “Ugo” le parlava della madre, del padre medico, della sorella maggiore e della piccolina di otto anni, lei avvertiva la sua sofferta nostalgia e fu in una di quelle circostanze che lei, commossa, sentì il bisogno di fargli una carezza e fu così che si ritrovarono pericolosa-mente vicini, gli occhi negli occhi e le labbra in bramosa attesa. Il nonno, nei giorni che seguirono la confidenza ricevuta, si era mo-strato più taciturno del solito e questo avrebbe dovuto insospettirla, raccontava pacata al figlio, forte ormai della sua età di vecchia che gli consentiva di sorridere ai ricordi e di non temere più i giudizi altrui che la vita è, ripeteva saggia, effimera. E invece, proseguiva tendendo le mani verso il braciere, avvolta nello scialle scuro e nel buio della sera, rischiarata a malapena dalla brace ardente e da una tenue fiam-mella di candela posta al centro della tavola, quel suo silenzio lei non lo coglieva poiché era cosi invaghita di quello straniero così diverso dai suoi compaesani, da non riuscire a concentrarsi sul presente e porre le necessarie attenzioni. Questo effetto si nota in particolare all'inizio della relazione, quando gran parte delle risorse cognitive sono utilizzate per pensare all'innamorato e se a questo aggiungiamo che il nonno non era mai stato loquace, si comprende bene come la nonna non ne cogliesse i segnali. La fatidica giornata del fattaccio il nonno, che in seguito alla iattura era divenuto per tutti “Liberato u' sciangat”, presa la bisaccia e posta-la ad armacollo sul mantello, calcato il cappello, s'avviò in groppa al-la mula verso il podere. Impiegava quasi un'ora per coprire i sette chilometri che separavano la terra di sua proprietà dal paese. Arrivato, ignorò i cani latranti bloccati alla catena. Erano affamati ed eccitati di vederlo. Non li de-gnò d'attenzioni; si preoccupò invece di dare nervosamente il fieno ai conigli e il mangime alle galline e s'affrettò a tornare indietro mentre i cani avevano preso ora ad abbaiare rabbiosi tirando le catene come a volerle spezzare. Coperta la distanza del ritorno, si fermò al santuario posto fuori le mura per lasciare la mula. Nessuno avrebbe fatto caso alla sua tra quegli altri fermi all'anello con le redini annodate. Lì ci arrivavano anche quei pochi uomini rimasti e le donne: per pre-gare, confessarsi, udir messa e chiedere grazie per quelli al fronte. Il nonno si preoccupò di mettere la musètta carica di biada al collo dell'animale per farla stare quieta e s'avviò per il sentiero esterno che costeggiava il paese, quello di terra battuta su cui si affacciavano gli orti. Alzò il collo del mantello e abbassò in giù la falda del cappellac-cio fin quasi al naso per rendersi il meno riconoscibile possibile. Da quel sentiero, e a quell'ora, non avrebbe dovuto incontrare anima viva. Mentre procedeva per la salita, a metà tratto notò uscire da casa zi-Filumena con una bagnarola piena di panni da stendere. Zi-Filumena lo riconobbe subito dal suo modo zoppicante d'incedere e finse di non vederlo. Gli dava le spalle per stendere il bucato su fili posti alla parete. Teneva delle mollette in mano e altre in bocca. Quel-lo di mettere le pinze da bucato in bocca era un modo per evitare ogni volta di calarsi per prenderle dal cestello. Continuò nella pratica senza girarsi anche in virtù del fatto che doveva essere sempre l'uomo a sa-lutare per primo e alla donna spettava il dovere della risposta. Mai il contrario! se non si voleva essere tacciate come donne poco serie. Una sola donna in paese non rispettava quest'antica forma di com-portamento ma era giustificata se non voleva compromettere i suoi affari di letto, e che, dall'arrivo dei crucchi, andavano ora a gonfie ve-le. La superò, ingobbito nei suoi panni, senza salutare e lei fece come si conveniva: finse di non vederlo. Il nonno, proseguiva la nonna sistemandosi lo scialle sulle spalle di-venute curve sotto il peso degli anni, lei! che era stata così bella da ragazza, tra le più belle che quelle comunità montane ricordassero, il nonno, proseguì, non aprì il cancelletto per timore del cigolìo ché non gli aveva ancóra dato l'olio sui cardini: “lo farò domani” andava ripe-tendo da mesi, e scelse di scavalcarlo nonostante la gamba offesa. Coprì, stretto fra le spalle e piegato in avanti per rendersi meno visi-bile, coprì il breve tratto che conduceva all'ingresso e giunto alla por-ta poggiò l'orecchio. Non udiva alcunché e questo lo rese più furio-so. Anche se può sembrare incomprensibile, avrebbe preferito trovare la moglie in compagnia di quello piuttosto che dover riconoscere di es-sersi sbagliato. Restò impalato davanti all'uscio, interdetto sul da far-si. Aveva perso, si lamentava adombrato, una giornata di fatica per niente! Si rodeva dalla rabbia e già stava per voltarsi e tornare indie-tro rimuginando di affrontare il compare, quando gli parve di udire il rumore di una sedia caduta. Accostò di nuovo l'orecchio e questa volta sì, udì. Spalancò furioso la porta che dava proprio nella stanza da letto e vide la moglie stesa sull'alto materasso, con le gonne tirate su, le calze scese sulle caviglie, le gambe divaricate e il soldatino in mezzo a quelle col pantalone abbassato e frenato ai piedi da degli ot-timi anfibi, lui che aveva sempre calzato scarponi alla buona. Provò un perverso senso di eccitazione misto ad appagamento nell'averli colti sul fatto: era preferibile quella verità piuttosto che continuare a tormentarsi nel dubbio. La nonna, nel vederlo, portò la mano alla bocca per soffocare l'urlo, con gli occhi che le si erano sgranati per lo spavento mentre il tedesco non fece neppure in tempo a voltare la testa che lo ebbe addosso, la mano del nonno gli sollevò fulmineo il mento e il giovane ebbe solo il tempo di avvertire un dolce taglio che da parte a parte gli tagliò la gola. “Forse” sussurrava la nonna: “Non si è neppure accorto di mo-rire”. “Ascoltami bene!” prese a dire il nonno con voce roca puntandogli un dito contro: “ora tu ti alzi e vai a prendere il coltello, il seghetto e il secchio. Questo è un maiale, è solo un maiale! Hai capito bene?” La nonna si mosse inebetita, come un automa, con la lunga gonna che le si era abbassata in modo naturale alzandosi dal letto. Era tutta im-brattata di schizzi e spruzzi di sangue; sul materasso, sotto la gola dello sventurato, s'andava allargando una pozza opaca, vischiosa, di colore rosso violaceo. In preda alle vertigini, col viso così sbiancato che quasi pareva che tutto quel sangue fosse il suo, s'elevò con sguardo sfocato e si apprestò a eseguire, priva di ogni volontà pro-pria, gli ordini. Il nonno era solito macellare i maiali aiutato dalla moglie, perciò non aveva incontrato nessuna difficoltà nello sgozzare il giovane. Fece prendere il secchio e le ordinò di aiutarlo a sdraiarlo sul tavolo. Lo spogliò decretando che quella divisa andava bruciata. Salvò solo i mutandoni e la canottiera, che erano di buona lana, e quando arrivò il turno degli anfibi provò una stretta al cuore nel decidere di distrug-gerli. Erano di ottimo cuoio e ingrassati a dovere. Li fece a brandelli col coltello dalla lama affilatissima lunga venti centimetri e non ci pensò più. Si avvicinò zoppicando al tavolo e prese a tagliare la testa dello sven-turato partendo da dietro le orecchie seguendo la mascella. Poi, con un colpo di mannaia ben piazzato tagliò la colonna vertebrale. Passò quindi alle gambe tagliando a livello dell'anca, lungo l'articolazione, aiutato dal seghetto. La nonna fungeva da assistente muta e collabora-tiva come fosse in uno stato ipnotico. Per rimuovere le spalle, il nonno lo girò su un fianco, gli alzò il brac-cio per esporre l'ascella e infilò il coltello per tagliare lungo l'articola-zione. Girò poi quel che dello sventurato era rimasto, su un fianco e indivi-duata la terza costola a partire dal basso, usò il seghetto per tagliare la colonna vertebrale. Completata l'operazione, raccolse tutti i pezzi e li infilò in due sacchi che usava abitualmente per le patate e, asciugatosi la fronte coll'avambraccio, ingiunse alla moglie di ravvivare a fiamma alta il camino e di bruciare tutto e di lavare e far sparire ogni traccia. E uscì a prendere la mula per portare, le disse: “la carne ai cani che so-no digiuni da giorni” ma prima di uscire la fissò torvo e disse terro-rizzandola: “Se ricapita, non ucciderò lui...” lasciando la frase sospe-sa. Appena allontanato, la nonna scoppiò in un pianto dirotto e liberato-rio, e mentre piangeva, guardava la divisa grigioverde del suo giova-ne amante floscia sul pavimento. Quella divisa portata fino a poche ore prima con tanta baldanza ed eleganza ora non era niente più che un mucchio di stracci imbrattati di sangue. Le lacrime colavano calde e copiose e dovette far ricorso a tutta la sua forza d'animo di monta-nara per reagire. Quando si fu appena ripresa, si apprestò a eseguire gli ordini di quel marito che è vero che la spaventava ma che pure, doveva confessar-selo, la affascinava per la sua bruttura e mentre tagliava a brandelli la giacca e il pantalone, riviveva quei brevi intensi momenti del suo li-mitato, tenero amore straniero e quegli occhi color del cielo, sempre sorridenti che parlavano una lingua universale, le si pararono davanti e quando fu il turno del maglione, non poté far a meno di stringerselo al petto e aspirarne gli odori: era ancóra così vivo! Dal comignolo, quella mattina, uscì uno strano fumo nero.
Michele Gatta
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