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Autore: Arsenio Siani
Viaggio in Cambogia
Letteratura di viaggio
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Viaggio in Cambogia
Un viaggio. 6 mete. 18 giorni. 1000 avventure.

Il mio più grande sogno, quando ero bambino, era quello di viaggiare. Come conseguenza, forse, di un'eccessiva introversione e timidezza che mi portava a ripudiare il contatto coi miei coetanei e a non condividere i giochi e la spensieratezza dell'infanzia, avevo sviluppato un universo interiore, fantastico e totalmente immaginario, fatto di grandi avventure, esplorazioni, emozioni forti. Leggevo tanto, passavo molto tempo in casa e la mia accesa fantasia era la navicella che mi permetteva di viaggiare pur stando fermo. Dai sei a quattordici anni la routine delle mie giornate prevedeva sempre le medesime esperienze: mattinata a scuola, rientro a casa, pranzo, poi la mia adorata cameretta. Il mio mondo segreto, l'angolo magico da cui accedere attraverso ponti incantati in ogni anfratto della mia anima e dell'ambiente che mi circondava. Lasciavo la realtà fuori da quelle mura, chiudevo le finestre e aspettavo che il buio mi sommergesse ancora prima che chiudessi gli occhi. Quell'oscurità era calda ed accogliente, potevo muovermi senza paura al suo interno, perché dentro di essa perdevo i confini del mio Io e potevo proiettarmi in altre dimensioni solo con la forza del pensiero. Ancora oggi, se devo pensare ad una situazione in cui sento di poter trovare la piena percezione di me stesso e del potere che mi consenta di travalicare i miei limiti, il senso di disagio e di inadeguatezza che mi accompagna da tutta una vita, penso ad una camera buia. So bene che può essere un'immagine forte, che richiami sensazioni negative, generalmente per spiegare la depressione e altri disturbi dell'umore si ricorre proprio ad allegorie come la stanza in cui non penetri la luce, ma per quanto mi riguarda è un'immagine dolce, serena. E' nutrimento, vita, esplorazione. E' perdersi, per ritrovarsi. In quel buio dovevo procedere a tentoni, se non fisicamente almeno pischicamente, ma era l'unico modo in cui potevo ritrovare me stesso.
E cosa c'era, al termine di questa ricerca? Un sogno, un desiderio, una speranza.
Da grande farò il marinaio e vedrò il mondo. Sarò un esploratore.
Visiterò terre sconosciute, in cui nessuno ha mai messo piede.
Vivrò avventure emozionanti, degne di Indiana Jones.
Per anni è stato questo il mio desiderio costante. Gradualmente si sono introdotte alcune varianti e il sogno lavorativo passò dall'essere un marinaio ad un pellegrino, poi una guida ambientale, un reporter d'inchiesta, un fotografo. L'unico elemento che rimase sempre invariato, fu il profondo desiderio di viaggiare. Non importava molto il "come." Ciò che mi premeva era il "cosa."
"Quando sarò grande farò questo, questo e quest'altro" rispondevo alle persone che mi chiedevano come mi vedessi da adulto. Se replicavano "e perché?" la risposta era sempre la stessa: "per vedere il mondo." L'immenso, vasto mondo che si estende oltre gli orizzonti visibili ad occhio nudo. Aspettavo l'età adulta, lasciavo che gli anni passassero e che mi si presentasse l'occasione per partire. Ero pronto in rampa di lancio, ma l'attesa si protrasse più del dovuto. La vita non sempre va come desideriamo. Spesso contrattempi ed imprevisti ci costringono a rimandare un sogno, se non, talvolta, a rinunciarvi. La maturità arrivò, ma non fu come me l'ero immaginata. Non avevo più tempo da dedicare alla stanza buia, preso com'ero da lavori che nulla avevano a che fare con i viaggi, sia materiali che di fantasia. Le esigenze della vita mi avevano ancorato alla realtà, costringendomi ad essere concreto e razionale per sbarcare il lunario. Il poco tempo libero che avevo dal lavoro dovevo dedicarlo al riposo fisico o ad altre attività onerose ma necessarie nella società moderna: fare la spesa, pagare le bollette, dedicare del tempo ai rapporti umani, ad amici e parenti. Il sogno era sempre lì, ma ora faceva sanguinare. Era sempre più lontano, e i suoi colori si erano sbiaditi, come una foto del passato che ci rimanda un'immagine sfuocata di ciò che fu e in cui fatichiamo a riconoscerci. Ma è a quella rimanenza, a quelle piccole braci che ci ancoriamo per riscaldarci quando dentro fa freddo. Una diapositiva di giorni lontani può riaccendere entusiasmi sospiti e resuscitare quella vitalità sommersa dal grigiore del vivere quotidiano. Il tempo dei viaggi arrivò lo stesso, pretesi rabbiosamente dalla mia vita che mi concedesse ciò che le avevo chiesto.
Al diavolo il lavoro, le incombenze, gli affanni quotidiani. Si parte!, pensai.
E partii. I miei primi viaggi furono traumatici. Mi accorsi che non c'era nulla, nell'ambiente esterno, che risuonasse con il mio animo. Era tutto freddo, anestetizzato. Visitai città e campagne, spiagge e monti, per sperimentare sempre la medesima sensazione di apatia del vivere che provavo quotidianamente. Osservavo tramonti lontani nella speranza che il sopraggiungere del crepuscolo mi portasse con sè in quelle nuove terre che ancora non avevo realmente visto. Ovunque andavo sentivo abbagliarmi gli occhi, senza che quelle immagini mi riscaldassero il cuore. Il palazzo del parlamento di Budapest, il mare della Gallura, le highlands scozzesi, le raffinate architetture di Nizza, il vento caldo della costa valenciana non mi parlavano. Le osservavo da spettatore neutro, mi arrivavano filtrate da uno schermo invisibile e il trasporto che provavo nel vedere quei paesaggi non era molto diverso da quello che si prova guardando una foto. Avevo fatto migliaia di chilometri viaggiando per cielo, terra e mare per sperimentare un'emozione che avrei potuto provare comprando una cartolina dal tabaccaio sotto casa. Che delusione...
Fu così che accantonai nuovamente quel sogno. Stavolta non potevo rimproverare più nulla alla mia vita. Mi aveva fornito l'occasione che le avevo chiesto, ma non avevo saputo sfruttarla. Anzi, giunsi a pensare che qualche forza misteriosa avesse boicottato volontariamente quei progetti puerili per tutelarmi dal dolore della disillusione. Qualcosa di beffardo e dolce allo stesso tempo sorse dentro di me, una voce interiore che mi diceva "ecco, vedi? Ora capisci il motivo dell'attesa? Avevi caricato quel sogno con troppe aspettative, era inevitabile che provassi questa cocente delusione."
Svegliarsi da un bel sogno fa sempre male. La realtà che mi ero costruito dentro la mia testa di bambino non esisteva. L'estero, il paese straniero, era un luogo estraneo, che non voleva saperne di comunicare con me.
Smisi di viaggiare. Per anni mi rifiutai di rivivere quell'esperienza perché ogni volta avevo la sensazione di riaprire una ferita che non si era mai rimarginata. Spostarmi era diventato un supplizio, divenni sedentario e monotono, trascorrevo le ferie a casa mia evitando di spostarmi da quello che era diventato il mio porto sicuro. Avevo gettato l'àncora e decisi di stazionare a lungo in quel luogo che non amavo, ma era diventato la mia unica certezza di vita.
Ma i sogni non li annulli così facilmente. Aspettano solo la condizione esterna adatta a cui agganciarsi per ritornare a galla. Se sei ancora in tempo per recuperare e cercare di realizzarlo puoi costruirti ancora un barlume di felicità. Se invece è tardi, beh, si prospettano tempi duri, costellati di rimorsi e rimpianti. Nel mio caso, per fortuna, non era ancora successo nulla di irreparabile e fui pronto a fare un altro tentativo per dare un senso a quel sogno che premeva per essere vissuto fino in fondo.
L'occasione mi fu data dall'incontro con Serenesse, la mia attuale compagna di vita, che imparerete a conoscere nelle pagine successive. In un certo senso credo che lei sia la mia nemesi in quanto ha rappresentato tutto ciò che avrei voluto essere, ha avuto dalla vita ciò che avrei voluto per me. Ha vissuto intensamente, ha imparato a godere di ogni attimo che la vita le ha donato, ad apprezzare le piccole e le grandi cose dandogli la stessa valenza ed importanza. Ha amato ed è stata amata, e soprattutto ha viaggiato. Ha esplorato nel modo in cui avrei voluto farlo io, sentendo i luoghi sulla pelle, nelle ossa, fin dentro al cuore. Mentre mi parlava delle sue avventure in Thailandia, Laos, Valencia e Barcellona captavo la sua frenesia, era riuscita a chiamare casa ogni porzione di terra su cui aveva posato i suoi piedi, glielo leggevo negli occhi, in cui si riflettevano le immagini delle situazioni che mi stava raccontando. Le erano rimaste impresse, si era fusa con esse ed erano diventate parte di lei.
"Ecco ciò che cercavo", pensai. "Questa ragazza mi sta mostrando come si realizza un desiderio."
"Portami con te, Sere. Insegnami a vedere il mondo attraverso i tuoi occhi. Voglio guardarlo come fai tu. Insegnami come si fa" le dissi un giorno.
Fu così che iniziò il nostro viaggio insieme. Nella vita, ma anche verso paesi e popoli lontani.
La prima tappa di questo viaggio fu la Cambogia. Quello che segue è il racconto di questa esperienza, la mia prima vera visita di quel mondo che avevo potuto solo tastare tanti anni fa mentre andavo a tentoni in quella camera buia. Adesso potevo metterci gli occhi, le orecchie, il naso. E soprattutto il cuore.

Phnom Penh,
17 gennaio 2019
"Arse-niooo! Arse-niooo!"
L'addetto al rilascio dei visti urla il mio nome, sbandierando il mio passaporto come un trofeo. Funziona così in Cambogia, arrivi in aeroporto e, senza spiegarti niente, ti mettono a fare una fila interminabile in attesa di ricevere il visto che ti permette di circolare liberamente nel paese. L'addetto afferra un passaporto a caso dal mucchio riversato sul bancone e urla il nome del "sorteggiato", che avanza in mezzo ad una calca che gli riserva occhiatacce di risentimento e invidia per essere riuscito a saltare la fila.
Il benvenuto in Cambogia è stato questo, un'indescrivibile confusione che inevitabilmente si prova quando visiti un'altra terra, ma in alcune di queste la confusione è incredibilmente amplificata in virtù del caos pungente, pulsante e tangibile che vi regna sovrano.
Phnom Penh è stata capace di sconvolgermi, risucchiarmi e spaesarmi come poche altre realtà, con la frenetica, anarchica e travolgente vitalità che la contraddistingue.
Il tragitto dall'aeroporto al centro città avviene attraverso un viale, Russian Boulevard, una lunga striscia d'asfalto che taglia perpendicolarmente Phnom Penh. Il traffico caotico e folle ci fa sobbalzare di continuo a causa degli scooter che s'infilano tra le auto, sgusciando tra angusti spazi che sarebbero difficili da attraversare anche a piedi.
Smog, auto, gente che urla, clacson, baracche con venditori ambulanti. Ma nonostante ciò, alla nostra destra ci sono dei fiori. I marciapiedi della Russian Boulevard sono adornati con graziosi prati, larghi quanto una stuoia, lunghi quanto l'intero percorso pedonale, che accompagnano il tragitto dei veicoli. Dal prato sbucano delle piante adornate da bellissimi fiori colorati, che rilasciano un profumo delicato e avvolgente che va a mescolarsi con quello nauseante e pungente dello smog e delle bancarelle che vendono cibi. Se dovessi descrivere Phnom Penh con un odore, sarebbe questo, un miscuglio di opposti, delicatezza e durezza, dolcezza e asprezza, luci e ombre, bene e male. Due facce della stessa medaglia, che riescono a convivere come vita e morte, entrambe parti della stessa entità.
La guesthouse che ci ospita in questo primo giorno non tradisce le prime impressioni sul luogo. Situata in fondo ad un vicolo stretto e maleodorante, la "Lakeside guesthouse" è un locale decadente, che accoglie i suoi ospiti con un'insegna sbiadita e mostrando un'area ristoro ricavata su un terrazzino, con tavolini bassi e sedie di legno. In fondo alla sala un bancone da bar è in bella vista sotto a un cartello con nomi e prezzi di cocktail. Una motocicletta con appeso un cartello con scritto "for sale", in vendita, troneggia al centro del piazzale, dove avventori dall'aria triste sorseggiano birre scadenti e fumano sigarette che rilasciano nubi di fumo dense e nerastre. Qualcuno fuma anche uno spinello, l'odore dolciastro della marijuana giunge alle mie narici, solleticandole e stuzzicando la fantasia e facendo emergere i ricordi di giorni passati.
La mia attenzione è poi rapita da un uomo, se ne sta con lo sguardo attaccato al cellulare e ignora completamente il resto del mondo. Seduto nella sua sedia, sprofonda sempre più nell'alienazione e nell'isolamento, un tizio seduto di fronte a lui manda qualche occhiata colma di disagio. Forse sono amici, vorrebbe dialogare, ma sembra che non riesca a superare il muro d'incomunicabilità che talvolta la tecnologia sa ergere.
Ci mostrano la nostra camera, che si trova in un palazzo fatiscente, vecchio di almeno cinquant'anni. La stanza è piccola, ha due letti ad una piazza e mezzo e un piccolo comodino. Un ventilatore sferragliante ci annuncia che sarà una lunga notte, tra pidocchi che si annidano tra le lenzuola, calura insopportabile e rumori sinistri.
Siamo stanchi morti ma decidiamo di fare ugualmente un giro veloce in centro. La prima meta è Wat Phnom, uno dei templi più importanti della città, dove i cambogiani si recano a pregare per avere la protezione del Buddha e ingraziarsi il suo aiuto nella vita quotidiana. Prima di entrare nel tempio ci rendiamo conto di avere fame e decidiamo di fare uno spuntino. Ai piedi del tempio è pieno di venditori ambulanti di frutta e decidiamo di comprarne un chilo. Il proprietario della bancarella ci vende dei mandarini, Lici e uno strano frutto spinoso, simile a un fico d'India. La frutta ha un sapore buonissimo, divoriamo con gusto quei succosi e dolci mandarini, sbucciamo i Lici e la dolcezza dell'odore annuncia un'esplosione di gusto sulle papille gustative. L'altro frutto ha invece la consistenza di una nespola, si scioglie sulla lingua per quanto è delicato, la buccia si stacca e nell'aria risuona un sonoro friccichío, come se qualcosa si fosse sgretolato sotto la pressione delle dita.
Dopo aver finito il nostro pasto, visitiamo il tempio, costituito da una sola stanza al cui centro è posta una statua di Buddha grande due volte un uomo, di colore dorato. Di fronte ad essa, un gruppo di fedeli in ginocchio su un grande tappeto sta facendo offerte votive utilizzando lo stesso tipo di frutta che abbiamo mangiato poco prima.
A quel punto io e la mia compagna capiamo di aver fatto una gaffe, ridiamo di gusto chiedendoci se abbiamo urtato la sensibilità di qualche cambogiano. La frutta non era per noi, anche se l'avevamo pagata. Abbiamo mangiato il cibo del Buddha. Chissà se attirerà davvero su di noi fortuna e prosperità...
Di fianco al tempio notiamo un uomo che sta tenendo una cerimonia. Tiene tra le mani una risma di carta, poi le dà fuoco con una candela e comincia a far roteare il braccio, inondando di fumo un ragazzo di fronte a lui che nel frattempo stringe un piatto con le offerte. L'uomo, ben pasciuto e con una sgargiante camicia celeste, recita contemporaneamente e ritmicamente un mantra, infine butta la risma di carta nella buca di una specie di camino triangolare, color rosso, eccezion fatta per la bocca annerita dalle fiamme. Gli unici spettatori della cerimonia eravamo io, la mia compagna e un cucciolo di cane. Terminata la cerimonia, la mia attenzione è catturata dall'animale, ne seguo gli spostamenti notando sempre il dettaglio dei suoi occhi tristi. É magro, sporco, rovista tra i rifiuti. Ciò che è peggiore è che è ignorato da tutti, nessun cambogiano gli riserva uno sguardo, una carezza o gli butta un avanzo di cibo. Infine il cagnolino trova una busta di plastica e inizia a leccarla furiosamente. Lo sguardo è ancora triste ma i gesti sono decisi, cerca di asportare ogni frammento di cibo, liquido e odore da quella busta. Questa scena straziante mi muove a compassione, faccio qualche passo nella sua direzione per accarezzarlo ma la mia compagna mi ferma. "Stai attento, è malato. Potrebbe attaccarti qualche malattia."
Deglutisco e distolgo lo sguardo.
Nel proseguimento del mio viaggio avrò modo di costatare che la piaga degli animali randagi fa parte della realtà ordinaria in Cambogia. In tutto il sudest asiatico non hanno molta considerazione della vita degli animali, in particolare cani e gatti, che vivono un triste destino caratterizzato da indifferenza e insofferenza. Lo capisci dal modo in cui reagiscono se provi ad avvicinarti. Hanno terrore dell'uomo. Non hanno nessuno da amare, e nessuno che li ami.
La Cambogia è anche questo. Terra meravigliosa ma ricca di piaghe.


Phnom Penh,
18/01/19
Un viaggio a Phnom Penh non può esimersi da un tuffo nella memoria. Quella della Cambogia è particolarmente oscura e macchiata di sangue a causa del genocidio realizzato dai famigerati Khmer rossi nei quattro anni, dal 1975 al 1979, durante cui hanno governato questo paese.
Per affrontare questo dramma storico da testimone mi reco al campo di sterminio di Choeung ek, sito nella periferia di Phnom Penh, dove 17.000 prigionieri provenienti dal carcere di Tuol Sleng hanno trovato la morte, venendo poi sotterrati in fosse comuni all'interno dello stesso campo.
Appena entro nella struttura mi rendo immediatamente conto dell'atmosfera irreale che regna su questo luogo. Visivamente non ha nulla che non vada, varchi un cancello e ti trovi davanti ad un'immensa zolla di terra ricoperta di vegetazione, al cui centro troneggia una pagoda piuttosto anonima. Sulla destra del piccolo tempio c'è addirittura un laghetto. Ciò che desta spaesamento e inquietudine in questo luogo è l'anormale silenzio che vi regna. Un lungo, assoluto, eterno silenzio, rispettato anche dalla natura. Nessun animale, né insetto, fa rumore qui dentro, e anche intorno, persino le piante rispettano quell'ossequioso silenzio, le foglie che cadono lentamente sull'erba danno il loro contributo attutendo il rumore dei passi dei visitatori, il cui calpestio diventa un quasi impercettibile frusciare di foglie morte sulla superficie ricoperta da erba umida.
Ogni oggetto, ogni uomo, essere vivente, che attraversa o circonda il campo di Choeung Ek, sembra tenuto a rispettare un patto con gli spiriti dei morti, affinché possano riposare in pace. Forse è un modo, questo silenzio, per tributargli un briciolo di quel rispetto e di quella considerazione che non hanno avuto in vita.
Mentre cammino per il campo noto degli avvallamenti nel terreno, che presentava delle voragini e dei crateri che lo rendono non dissimile dal paesaggio lunare. L'audioguida mi spiega che erano quelle le fosse comuni, dove i corpi di decine, centinaia di uomini, donne e bambini furono seppelliti dopo che erano stati ammazzati nei modi più atroci. Nel campo è presente anche "l'albero della morte", così chiamato perché situato accanto ad una delle fosse comuni, che però presentava una peculiarità: al suo interno furono ritrovati principalmente cadaveri di neonati. I Khmer rossi afferravano i bambini per le caviglie e gli fracassavano la testa sbattendoli contro il tronco dell'albero, poi buttavano il corpo dentro la fossa. Quando il campo fu scoperto, dopo la fine del regime, furono ritrovati frammenti di cervella su quel tronco. Dopo aver scoperto la fossa comune, le autorità intuirono il motivo di quel ritrovamento.
La mia visita termina all'interno della pagoda, dove un'interminabile pila di teschi è mostrata attraverso delle teche di vetro, rivelando il contenuto di quello che è il memoriale del campo di sterminio di Choeung Ek. Un viaggio negli abissi dell'animo umano, l'inferno in terra.
L'audioguida termina il suo discorso, inondando le mie orecchie di silenzio e inquietudine. Ancora silenzio, che fa da cassa di risonanza con il baccano che ho dentro. Chiudo gli occhi, stringo i pugni e piango, ripensando all'orrore che l'uomo può generare, e alla lucida follia che può far perdere l'umanità.
Il silenzio è interrotto da una meccanica e inquietante musica che emerge dalle cuffie. L'audioguida è ripartita, inondando le mie orecchie e il mio animo con un rumore assordante e tremendamente angosciante. E' l'inno dei Khmer rossi. L'audioguida mi spiega che nel campo erano sistemati degli amplificatori che avevano il compito di far rimbombare quella musica in ogni angolo della struttura. "Quella musica, era l'ultimo suono che i deportati sentivano un attimo prima di morire. " spiega l'audioguida. La voce cessa, rimane solo la musica, il volume si alza da solo, e in un attimo sono un contadino cambogiano, un maestro di scuola, un infermiere, un venditore ambulante, una sarta, un artigiano, una madre, un padre, un figlio, che ascolta la sua condanna, e si avvia verso una morte orrenda. Mi viene la pelle d'oca, l'orrore s'impossessa di me, in sottofondo sento il rumore di motori diesel che fanno parte della sinfonia infernale, vedo luci, riflettori, è buio. Di fianco a me altri compagni, fratelli, amici, che condivideranno la mia stessa sorte.
Il cuore mi batte all'impazzata, sudo freddo, lo stomaco mi si stringe facendomi venire dei conati di vomito. Corro verso il cancello, devo uscire da lì. Mani invisibili cercano di trattenermi, migliaia di arti sanguinanti e scarnificati di coloro che risiedono in quel posto, il cui incubo riecheggia da quarant'anni in quella terra.
Nel pomeriggio cerco di disintossicarmi da quell'esperienza visitando il museo nazionale cambogiano, ma non riesco a scacciare dalla mia mente i fantasmi di quel luogo tetro e oscuro. Le statue votive e gli artefatti di epoca pre-angokoriana e angkoriana non riescono a distrarmi, quegli oggetti sono il simbolo di un passato glorioso e di una civiltà evoluta, capace di lavorare l'arenaria e il bronzo, di scolpire statue piccole e gigantesche, a esprimere una devozione religiosa e il rispetto per ogni elemento della natura, uomo incluso, che si è poi perso nel tempo.
Le stanze del museo passano bruscamente dal quindicesimo secolo, fine dell'Impero Khmer, al diciannovesimo secolo, agli albori del degrado di un mondo che stava perdendo il proprio senso di appartenenza a qualcosa di grandioso e si limita a realizzare suppellettili in uso nella vita quotidiana come pipe da fumo, contenitori per il cibo e strumenti di lavoro. Unica testimonianza degna di nota per quell'epoca sono le macchine tessili, imponenti e maestose, che erano utilizzate per realizzare preziosi abiti di seta.
Il museo chiude alle 17:00, in sostanza ci cacciano fuori, ma torniamo per le 19:00 per assistere a uno spettacolo di danze cambogiane. Un documentario di presentazione dello spettacolo ci spiega che queste danze hanno un'origine antichissima, risalgono al sesto secolo d.C. e in qualche modo sono giunte fino a noi.
Resto ammaliato dalla bellezza dei costumi sgargianti, colorati, dalle maschere indossate dai ballerini per rappresentare divinità e demoni. Le danze sono in parte sensuali, con donne che muovono il corpo lentamente facendo roteare polsi, braccia e caviglie in maniera ipnotica, in parte allegre e vivaci, con balli di gruppo che ricordano vagamente le danze popolari per ritmo e vivacità d'esecuzione. In una delle sequenze i ballerini, in coppia, devono eseguire una sorta di balletto saltellante, infilando i piedi nello spazio interno a due assi di legno che altri due ragazzi alle loro spalle facevano battere tra loro chiudendoli e avvicinandoli a ritmo con la danza. Un secondo di ritardo nell'esecuzione del passo di danza comporterebbe che il ballerino si ritroverebbe le caviglie battute da quelle grosse e pesanti assi di legno. Non hanno sbagliato una mossa, sorridendo con grazia e leggiadria mentre si muovevano sul palco.
La serata si è terminata con un incontro singolare, di quelli che puoi fare solo in viaggio. Tornati alla guesthouse in cui alloggiamo, conosciamo un altro italiano, che attrae la mia attenzione fin da subito. Se ne sta in un angolo dell'area riposo della guesthouse bevendo una birra dopo l'altra, di fronte a lui un altro occidentale non lo degna di uno sguardo, osserva distrattamente il cellulare ignorando l'ambiente in cui è proiettato.
Quando riconosce la nostra parlata, s'illumina in viso e si volta verso di noi: "Italiani anche voi?”
E' impossibile non scambiare due parole con un connazionale all'estero, così quest'uomo ci ha raccontato la sua incredibile storia, di cui però omette alcuni dettagli: viaggia da tre anni, durante cui ha girato il mondo. Bosnia, Romania, Cuba, Brasile, e infine Phnom Penh, dove si trova da un mese e mezzo, e pare che ci resterà a lungo. Ha il passaporto scaduto, inoltre il 30 dicembre gli hanno rubato il portafogli con documenti, carte di credito e soldi annessi. Come fa a vivere? Cosa l'ha spinto a partire? Come trascorre le sue giornate?
“Sto alla guesthouse per tutto il giorno, quando viene sera esco a ubriacarmi nei locali notturni.”
“Ma hai visitato Phnom Penh? Almeno hai visto qualcosa?”
Scuote la testa con un gesto plateale, sorridendo in modo enigmatico e strizzando gli occhi.
“E ora che farai?” gli chiediamo. “Perché non vai all'ambasciata a chiedere aiuto?”
“All'ambasciata non posso andarci” risponde mantenendo il suo sorriso calmo e luminoso sul volto. Scrolla le spalle, sospira e dice: “Che vi devo dire. In qualche modo ce la farò.”
Lo salutiamo, augurandogli buona fortuna. Ne avrà bisogno, e di tanta.
L'ultimo pensiero prima di addormentarmi va a quel bizzarro viaggiatore, prigioniero volontario in quell'angolo di mondo, il cui sigillo è rappresentato da quell'incrocio di quattro strade in cui l'ha rinchiuso il destino.

Arsenio Siani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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