'Mago, Mago, Mago', ripeteva mentre gli scarponcini affondavano nella neve con quel rumore crepitante che gli riempiva il cuore di gioia. 'Mi chiamo... che importa qual è il mio nome, tutti mi chiamano Mago. Mago, ecco chi sono io.' Aveva la voce roca, anche se infantile. I suoi occhi si posarono sul prato, bianco e intatto. Il viso gelato del ragazzo si illuminò quando vide che sarebbe stato il primo a mettere piede sulla neve. Una cosa era certa: l'inverno era una stagione magica e non solo perché c'erano tanti giorni di vacanza, ma anche per il silenzio che si veniva a creare nel posto segreto di Mago, rendendolo ancora più speciale. Passo dopo passo, scricchiolio dopo scricchiolio, il bambino attraversò il lenzuolo bianco in cui si era trasformato il prato. Era come una macchiolina che camminava lasciando dietro di sé una scia di puntini. Gli alberi si allungavano verso di lui, con i loro rami spogli che puntavano verso la sua testolina protetta da un cappello colorato con un grosso pompon. Ben presto gli scarponcini sporchi di neve salirono sul vecchio tronco che era caduto sul torrente chissà quanti anni prima, e ora faceva da ponte. Mago guardò in basso: l'acqua si era ghiacciata bloccando al suo interno foglie secche e altri scarti del sottobosco che fino a una trentina d'ore fa scorrevano via in libertà. Continuò a camminare mentre con l'alito disegnava arabeschi nel vento. Si avvicinò al viso le mani guantate per scaldarsi il naso, e con gli occhi vispi e salterini si disse: 'solo un altro po'.' Eccolo lì finalmente, come una magia: il 'suo' albero. Un massiccio tronco contorto che sembrava aspettarlo con i rami spalancati. Mago si arrampicò agilmente: da ogni suo movimento traspariva la familiarità che aveva con quell'albero. Una volta in cima si guardò intorno. Inspirò profondamente e lasciò che l'aria gelata gli riempisse i polmoni. Aveva nevicato per tutta la notte e la campagna sembrava appartenere a un altro mondo; un mondo disegnato in bianco e grigio. Mago si distese sul suo ramo preferito come faceva sempre, come aveva fatto migliaia di volte. Lo strato di neve che lo copriva cedette sotto il suo peso e cadde emettendo un rumore sordo. Non si sentiva l'eco, era come trovarsi in uno spazio privato completamente diverso dal mondo normale. Sdraiato, giocò a guardare senza fretta il modo in cui le volute del suo alito si intrecciavano con le nuvole piatte e grigiastre che il vento muoveva a gran velocità. Erano molte le figure che si potevano indovinare nel cielo. Un castello, un leone, un coraggioso cavaliere con la sua spada, un razzo e poi un aereo ad elica. Per Mago, il cielo era pieno di vera magia. La magia più bella, quella che può trasformare i sogni in realtà. Non importava cosa dicesse suo fratello maggiore, né quanto potessero ridere i suoi compagni di classe. 'Un giorno viaggerò nel cielo. Vedrò tutto dall'alto. Volerò e sentirò il vento sulla faccia', pensò Mago mentre muoveva una mano come se fosse un uccello leggero. Aveva un buco sul dito indice del guanto attraverso il quale si vedeva la pelle arrossata dal freddo. 'Sarò agile e leggero come quelle nuvole e potrò...' “Potrò toccarle!” Mago pronunciò queste parole a voce bassa, facendo molta attenzione perché erano parole di cristallo nelle quali c'era qualcosa di molto prezioso: i suoi sogni. Lui sapeva che tutto era possibile, nessuno avrebbe mai potuto convincerlo del contrario perché lo sentiva dentro il suo cuore. “Volerò, sì” disse in un sussurro. “E troverò mondi che nessuno ha mai scoperto.” Sotto le nuvole plumbee, piuttosto lontano dall'albero, si intuiva appena il campanile della chiesa. Mago si alzò all'improvviso e allungò il collo ossuto. Che cos'era quella cosa che si muoveva sul campanile? Un'ombra dal profilo strano, troppo grande per essere un uccello. Le mani si misero a cercare in gran fretta nelle diverse tasche del giubbotto. Cicche, le chiavi di casa, una pallina di gomma, una matita. E finalmente, finalmente il binocolo! Mago aveva sentito dire spesso che non si poteva mai sapere quando si sarebbe presentata l'occasione di fare una grande scoperta, e da allora si teneva sempre pronto. Si mise il binocolo davanti agli occhi, tracciò una breve traiettoria nel cielo e trovò il cocuzzolo del campanile. “È un uccello!” esclamò. Ma non era un uccello qualunque, almeno non era un uccello di quelli che Mago conosceva. Amava osservare la natura ed era capace di riconoscere ben trenta specie diverse di uccelli. Ma quello... quello aveva delle zampe lunghissime e un becco affilato e infinito. Lo strano animale giocherellava sul campanile, sembrava che stesse costruendo un nido. Era completamente concentrato a sistemare e risistemare del materiale che aveva sotto le zampe. Mago non si rese conto del tempo passato ad osservare quell'animale affascinante. Gli si congelarono le dita appiccicate al cannocchiale. Il berretto gli copriva tutta la testa, a parte il bordo della frangetta spettinata che si era riempito di brina. Mago starnutì. Quello starnuto fu l'inizio di tutto. Una piccola esplosione che spezzò il silenzio perfetto della landa innevata. L'uccello alzò la testa all'improvviso e si girò in direzione di Mago, a cui saltò il cuore nel petto, perché attraverso il binocolo vide che l'uccello lo stava guardando. Si, lo guardava fisso. 'È impossibile!' si disse spostando il binocolo da davanti agli occhi. 'È impossibile! O no?'' La voce dentro di lui gli diceva, come sempre, che tutto era possibile. Mago guardò di nuovo attraverso il binocolo ma l'uccello era sparito. Non c'era niente sul campanile, dove diavolo si era cacciato? Mago sentì che qualcuno gli dava dei colpetti sulla spalla per attirare la sua attenzione. Gli si strinse lo stomaco, gli salì su per la gola come un palloncino per poi scendere di colpo. Chi c'era dietro di lui? Chi gli stava dando i colpetti sulla spalla? Aveva il collo irrigidito a causa dell'insieme di freddo e paura, così fu costretto a girarsi con tutto il corpo per vedere cosa ci fosse dietro di lui. Si sentì un urlo strozzato e Mago sprofondò pesantemente nella neve. Un uccello enorme lo osservava dalla cima dell'albero, quello che pochi secondi prima era sul campanile. Aprì le ali che diventarono così grandi da coprire completamente il bambino. Il pennuto scosse le ali un paio di volte con una delicatezza insolita. Mago girò lo sguardo verso l'enorme uccello che si era appena posato accanto a lui. Il suo becco lungo e affilato gli accarezzava il petto come un gatto che chiedeva di essere coccolato. Mago capì che voleva sapere se stesse bene. “Sì.” Gli occhi dell'uccello lo guardarono con dolcezza. “Sei dorato!” esclamò Mago e il suo interlocutore fece segno di sì con la testa. “Non avevo mai viso uccelli di questo colore. Mai nella realtà, voglio dire. Perché non sei giallo, ma proprio dello stesso colore dell'oro, brillante come... L'uccello non staccava gli occhi dal viso del bambino. I suoi occhi erano come due biglie rosse, grandi e brillanti come due caramelle. Mago appoggiò le mani sulla neve per alzarsi in piedi. Cercava di non fare movimenti troppo bruschi perché, anche se l'uccello non sembrava pericoloso, non doveva rischiare di farlo spaventare. L'attacco di un animale così grosso certo non sarebbe stato cosa da poco. Cominciò a camminare e il pennuto prese a seguirlo con piccoli salti. “Non seguirmi” gli disse, “devo andare a casa. È già tardi, mia mamma sarà preoccupata. L'uccello non capiva o non voleva capire. Continuò a saltellare dietro a Mago per un bel pezzo. “Va bene” cominciò a dire fermandosi e guardando fisso negli occhi l'uccello dorato. “Tu devi rimanere qui, capito? Tu qui, io vado via.” Niente, non ci fu verso. Mago uscì dal bosco e raggiunse il sentiero e lo percorse cercando di ignorare che un grande uccello d'oro lo stava seguendo. 'Prima o poi si stancherà', pensò mentre saliva su per la strada principale, che era in salita. 'Si stancherà', si disse, mentre scendeva giù lungo la strada della scuola. 'Gli uccelli volano, non è naturale per loro camminare. Si stancherà', cercò di convincersi Mago mentre passava davanti al mercato. “E va bene!” disse con fermezza, faccia a faccia con il pennuto. “Adesso basta, fine della passeggiata. Grazie di avermi accompagnato. Lo vedi, sto bene. Questa che vedi è casa mia, mi stai lasciando in buone mani.” La creatura continuava a fissarlo. “Grazie!” disse Mago agitando le braccia in avanti per allontanarlo. “Ma tu che cosa sei, una specie di guardiano?” L'uccello mosse il becco in su e in giù. 'Non è possibile', pensò Mago, e subito dopo qualcosa da dentro il suo cuore gli disse: 'sì che è possibile, tutto è possibile.' “Ti ho detto che sto bene, non mi sono fatto niente cadendo dall'albero. Ti assicuro che entrerò subito in casa mia, non mi metterò nei pasticci.” L'espressione seria dell'uccello era impassibile. “Ti perdono di avermi spaventato, è questo che volevi? È per questo che mi stai seguendo?” L'altro continuava a guardarlo attentamente. “Ecco fatto, adesso puoi tornare al campanile o volare in qualunque posto tu voglia. Avrai una famiglia che ti aspetta... Il pennuto inclinò la testa. “Va bene, se vuoi puoi rimanere qui per un po' ma io me ne vado a casa.” Mago girò su sé stesso e attraversò il giardinetto che c'era davanti a casa sua con le mani nei capelli, sperando che né sua madre, né suo fratello... insomma, che nessun umano curioso si accorgesse dello strano animale che era con lui. Entrando in casa, Mago lasciò gli scarponcini sporchi di neve e di fango vicino alle scarpe degli altri membri della famiglia, poi si tolse il giubbotto e la sciarpa e li appese all'attaccapanni. C'era odore di cibo, di qualcosa di quella roba buona che cucinava sempre la mamma. “Mago, apparecchia” si sentì dire dalla cucina. Il bambino si lavò le mani e corse in soggiorno per affacciarsi alla finestra. Finalmente riuscì a respirare tranquillo, l'uccello era sparito. Eppure, per qualche strano motivo sentiva che la faccenda non poteva essersi chiusa così facilmente. Mago si concentrò sulla richiesta della mamma. Sistemò con attenzione i piatti e le posate e piegò i tovaglioli con cura. Credeva che, se si fosse tenuto occupato, quello che era successo sarebbe sparito dalla sua testa. “Mago” disse sua madre appena si furono seduti a tavola, “sai che non puoi tenere il berretto in testa, quando sei a casa.” “Devi toglierlo almeno durante la cena” aggiunse suo padre. “È il suo cappellino fortunato” disse suo fratello maggiore in tono burlone. Mago gli rispose con un grugnito e si tolse il berretto, mettendo in mostra dei capelli sparati degni di un porcospino. “Sarebbe ora di dare una spuntatina a quella zazzera” osservò suo padre. “A me i miei capelli piacciono così” rispose Mago. Per la verità a Mago non faceva molta differenza quale fosse l'aspetto dei suoi capelli, ma detestava i pizzicotti sulle guance che gli davano le signore quando andava dal parrucchiere. “Ma quanto sei carino!”, “Che bel bambino!” ecco che cosa voleva evitare. Dopo cena, la famiglia si ritrovò davanti al camino per giocare, come tutte le sere, a ‘non t'arrabbiare'. Poi arrivò il momento di andare a letto. Mago si infilò sotto la trapunta. Sorrise, pensando che fosse una specie di grotta che lo proteggeva da tutto. Si chiese da che cosa volesse mettersi in salvo e gli tornò in mente l'uccello. Era enorme e dorato. Aveva degli occhi rossi che avrebbero fatto paura a chiunque, ma non a lui. Quello sguardo come di fuoco non lo spaventava assolutamente. E allora, da cosa mai avrebbe dovuto proteggersi? Non lo sapeva, non trovava una spiegazione razionale. Il fatto era che il suo intuito gli diceva che qualcosa di molto strano stava per accadere. 'Ancora più strano che essere seguito da un uccello così strambo?'...
Marta Faë
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