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Autore: Sergio Beducci
Pocofuturo
Narrativa
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Pocofuturo
Cosa significava che sua madre era dovuta partire per un lungo viaggio? Che voleva dire che adesso era in paradiso? Sua madre era morta, punto. Credevano che non capisse cosa volesse dire essere morti?

Quando era successo al suo canarino, l'anno prima, lo aveva trovato lui, disteso e immobile sul pavimento della gabbia. Aveva aperto la porticina prendendolo in mano e la sua piccola testa si era subito piegata in un modo strano, come se il collo fosse diventato di gomma. Ruotando il polso era riuscito a fargli muovere la testa di qua e di là, a suo piacimento e ogni volta che voleva. Suo padre lo aveva trovato così, in piedi davanti alla gabbia e col canarino ancora in mano. Gli aveva poggiato un braccio sulla spalla e per un po' era restato in silenzio al suo fianco. Poi con cautela gli aveva preso di mano l'uccellino, a cui nessuno aveva mai dato un nome, e l'aveva messo sopra un tovagliolo di carta. Gli aveva spiegato che doveva essere morto pochissimi minuti prima, probabilmente nel sonno. Ecco morire è quando il tuo collo non riesce più a tenere salda la testa; quando i tuoi occhi si chiudono e non si aprono più, oppure rimangono aperti ma non vedono nulla.

A sua mamma era successa la stessa cosa; solo che lui dopo non aveva potuto vederla. Ogni volta che aveva cercato di entrare nella sua camera da letto, c'era sempre stato qualcuno che lo aveva preso per mano e lo aveva portato in un'altra stanza o gli aveva chiesto di mostrargli la bicicletta nuova che teneva nel garage. Poi c'era stato il funerale, i cugini che non vedeva da due anni, la gente che piangeva; era stato allora che era fuggito. Quando il prete aveva iniziato a parlare di sua madre senza nemmeno averla mai conosciuta, aveva approfittato di un momento in cui suo padre gli aveva lasciato la mano ed era scappato via. Aveva corso come solo lui sapeva fare, veloce come la luce, veloce come il pensiero, più veloce ancora. Attraverso i vicoli e le scorciatoie che conosceva da sempre, era arrivato alla spiaggia e si era seduto sopra una barca rovesciata per recuperare un po' di fiato e asciugarsi il sudore.

Il mare quel giorno era come lo disegnava lui a scuola quando la maestra gli faceva usare le tempere e i fogli da disegno: senza onde, turchese vicino alla riva e in lontananza blu.
Qualche turista si avventurava già sulla battigia, malgrado la stagione fosse solo agli inizi. Una bambina bionda, con un grande e buffo cappello rosso ciliegia, si stava avvicinando.

- Ciao. Forse tra qualche giorno si potrà già fare il bagno... - gli disse fermandosi di fronte a lui e guardandolo negli occhi.
- A me non importa di fare il bagno. -
- Non sai nuotare? -
- Sì che so nuotare! -
Cosa voleva da lui quella bambina con quello strano cappello parasole e quegli occhi blu che lo fissavano? Desiderava stare da solo e guardare il mare.
- Io ho nove anni, e tu? -
Alzò le spalle senza rispondere e si mise a osservare un gabbiano che si era posato al largo; poi d'istinto si girò ancora, per vedere se gli occhi di quella bambina fossero veramente della stessa tonalità di quella del mare all'orizzonte. Sembrava di sì.
- Io ne ho dieci, - mentì.
- Io però dimostro più di nove anni. Mia madre dice che potrei averne almeno dieci. -
- Mia madre io non ce l'ho più. -
- E perché? -

Fino a quel momento non aveva pianto; nemmeno quando l'infermiera che accudiva sua madre lo aveva preso in braccio e lui aveva sentito suo padre fare quel verso prolungato e sconcertante che sembrava un lamento. Perciò arricciò il naso e con un gesto veloce e quasi violento si asciugò la lacrima che gli spuntava dall'occhio destro.

- E tu perché porti quel ridicolo cappello? Non c'è nemmeno vento. -
- È perché sono una maga. -
- Non dire cavolate. -
- È vero. So fare magie. -
- Tipo? -
- So piangere quando voglio. -
- Non è vero. Nessuno ci riesce. -
- Sì invece. L'ho sempre saputo fare. Guarda... -

Osservò la bambina mentre si sfregava con due dita i lati degli occhi chiusi; attese. Poco a poco le lacrime iniziarono a scenderle copiose sulle guance.
Rimase incantato a vederle risplendere al sole. Si accorse di stare a sua volta per piangere. Ma non gli importava più, perché ora anche la bambina stava piangendo. Guardò i suoi occhi blu pieni di lacrime.

- Mi piacerebbe avere anche io gli occhi come i tuoi. -
- Allora chiudili e avvicinati, - rispose la bambina.
Con le dita di entrambe le mani raccolse il proprio pianto e glielo passò sulle palpebre, sulle ciglia, lo unì alle sue stesse lacrime che adesso scendevano inarrestabili.
- Ecco, ora li hai anche tu. -


IO HO RAGIONE

Non ho problemi di soldi: mia madre è morta sette anni fa e mi ha lasciato una buona rendita che mi permette di vivere in modo decoroso. Non posso permettermi viaggi lussuosi o auto sportive, ma tanto non viaggio spesso e per spostarmi uso i mezzi pubblici, oppure la mia Bmw F 800; è una buona moto, con un motore affidabile sia in andatura sportiva che in touring. Solo che non so dove metterla. Ho provato ad affittare un garage a cento metri da casa mia, ma al primo serio acquazzone, si è riempito di acqua che filtrava dai muri e si trasformava in melma maleodorante.

Quando ero andato a visionare lo stabile con il condomino del terzo piano, non avevo notato le strisce di muffa che decoravano il soffitto e la parete interna; era pomeriggio inoltrato, l'ambiente era in penombra e la lampadina che si intravedeva a mezz'aria aveva mandato un breve lampo e poi si era spenta. - Che problema c'è? Domani gliela cambio e con l'occasione gliene metto una a risparmio energetico, - aveva detto. Io lo avevo ringraziato dicendogli che il locale mi interessava. L'affitto non era alto, me lo potevo permettere. Lo avevo seguito nel suo appartamento per firmare il contratto. Però aveva preteso un anticipo (in nero!) e questo avrebbe dovuto insospettirmi. - Vedrà si troverà bene... e poi abitiamo nello stesso palazzo no? Per qualsiasi cosa può contare su di me, - aveva aggiunto sull'uscio di casa, prima di salutarmi stringendomi la mano.

Ma quando due giorni fa sono andato a fargli presente il problema dell'acqua che filtrava e rendeva inutilizzabile il garage, lui mi ha risposto che non era affare suo e che comunque avrei dovuto farglielo presente prima, appena mi ero accorto del difetto. - Non è un difetto, - gli ho risposto con la voce alterata, - è una truffa! - Da quel momento non ho quasi più chiuso occhio: continuo a vedere quel suo viso tondo come un oblò che mi sorride e ammicca gioviale. Continuo a sentire la sua voce densa, da fumatore rabbioso, che pronuncia parole ipocrite e fasulle.

La prima volta che ho telefonato ha risposto sua moglie, che dopo una breve esitazione ha detto che non era ancora rientrato a casa, ma io l'ho sentito lo stesso che le diceva: - no no, taglia... - Ho sentito in sottofondo la sua voce da mentitore seriale che si rivolgeva a lei e che con tono scocciato le ordinava di chiudere la conversazione. Mi è salito il sangue alla testa e mi sono dovuto sedere un attimo sul divano. Ho pensato che per colpa sua la mia moto era in quel buco fetido a marcire.

La mattina dopo mi sono alzato di buon ora e ho telefonato di nuovo, quando sapevo che la moglie era già in fabbrica e non poteva rispondermi... Il telefono ha squillato a lungo e io stavo quasi per riattaccare, quando ho sentito la voce un po' assonnata del figlio che diceva: - chi è? -
- Fammi parlare col tuo papà, - gli ho detto con tono gentile ma poi, quando ho sentito che non rispondeva, ho ripetuto ad alta voce: - voglio parlare col tuo papà! -
Lui deve avergli preso il ricevitore dalle mani, perché subito dopo ho ascoltato la sua voce alterata che mi diceva, quasi urlando, che non dovevo mai più permettermi di telefonare a quell'ora.
- Sennò che fai, bastardo! - gli ho risposto subito, ma lui aveva già attaccato.

Sono rimasto assolutamente calmo anche se mi aveva attaccato il telefono in faccia ed è una cosa che non tollero. Mi sono finito di vestire, sono andato in bagno, mi sono fatto la barba, poi sono uscito. Tirava una brezza insistente che mi scompigliava i capelli, puliva i pensieri e rendeva limpida la mente. C'era pure qualche rondone nel cielo che volava basso sui tetti e semi di pioppi sospesi nell'aria a introdurre la bella stagione. Quando sono arrivato di fronte al suo garage, dove tiene l'auto, non mi sono nemmeno guardato in giro per vedere se qualcuno mi avesse notato, ma ho tirato fuori il pennarello con l'inchiostro indelebile e ho scritto quello che dovevo scrivere. Mi sono allontanato un po' per accertarmi che fosse leggibile e in quel momento è passata una signora con una borsetta a tracolla, che ha guardato verso il garage: sulla saracinesca di alluminio c'era scritto se non mi restituisci l'anticipo ti apro in due. Non sono tornato subito a casa ma ho camminato con un buon passo fino al parco, osservando un gruppetto di ragazzi fare footing sullo sterrato; quasi tutti avevano gli auricolari infilati nelle orecchie e ho immaginato che stessero ascoltando Wagner o Beethoven, come facevo io alla loro età. Mi sono seduto su una panchina al sole e ho lasciato che il calore della primavera penetrasse attraverso i vestiti e rilassasse i muscoli e riscaldasse le ossa.


Quando sono tornato verso casa, sul pianerottolo della mia abitazione ho notato un foglietto infilato tra lo zerbino e il pavimento, sotto la porta. Sono riuscito a leggere sole le prime parole scritte in uno stampatello sbilenco, prima che un furore sconnesso mi invadesse.

Ho strappato in mille pezzi il foglietto mentre salivo le scale a due a due, lasciando una scia di francobolli bianchi dietro di me. Arrivato al terzo piano mi sono fermato davanti al suo appartamento e ho gridato due volte: - apri questa cazzo di porta. - Ho sentito la sua voce rappresa di catarro che mi rispondeva incerta; - vattene o chiamo la polizia. - Allora ho iniziato a colpire la porta blindata, prima con la parte laterale del pugno destro, poi con entrambi le mani aperte. Ho dato anche un paio di calci violenti e ho ascoltato l'eco dei colpi che si propagava per la tromba delle scale. Questo mi ha un poco calmato. Dopo aver preso una breve rincorsa ho dato un ultimo calcio ancora più violento, poi ho ridisceso le scale, lentamente, fino ad arrivare al mio pianerottolo. Ho sorriso alla mia vicina che mi guardava dalla porta semiaperta del suo appartamento e finalmente sono entrato in casa e mi sono lasciato cadere sul divano letto. Ho respirato profondamente per qualche minuto, chiudendo gli occhi per rilassarmi meglio.

Quando mezzora dopo ho sentito il campanello dell'ingresso che suonava, ho immaginato subito chi potesse essere. Ho aperto la porta d'ingresso senza nemmeno provare a guardare dallo spioncino o chiedere chi fosse al citofono. Ho fatto accomodare i due poliziotti in soggiorno e gli ho chiesto se volevano bere qualcosa. Gli ho domandato chi li avesse chiamati ma loro non mi hanno voluto rispondere. Ho capito che erano scocciati per essere dovuti venire senza una ragione evidente, ma mi hanno chiesto lo stesso in che rapporti fossi con il condomino del terzo piano. - Lo odio, - gli ho semplicemente risposto. - Mi ha fregato. Mi ha affittato un locale inutilizzabile. Si è fatto licenziare per non so quale motivo, probabilmente qualche truffa che ideava in orario di lavoro, e adesso ha bisogno di soldi. Io però i miei non glieli do. -
- Non è una buona ragione per fare casino, - mi hanno risposto. - Hanno anche un figlio piccolo... parli col suo avvocato. -
Dopo qualche minuto hanno detto che dovevano tornare in centrale; io li ho accompagnati alla porta e poi mi sono affacciato alla finestra della cucina a riflettere.

Per la prima volta ho avvertito un po' di stanchezza e di sonnolenza, causate sicuramente dalle due notti trascorse a rigirarmi nel letto in preda allo sdegno e alla rabbia. Invece di stendermi sul divano per cercare di recuperare qualche ora di sonno, mi sono messo in poltrona a vedere la tv, ma i miei pensieri vagavano e non riuscivo a concentrarmi né a seguire quello che dicevano sullo schermo.

Devo essermi anche addormentato perché d'improvviso la stanza era in penombra e fuori, nel terrazzo, le ombre delle piante si allungavano oltre la ringhiera. Ho guardato l'ora dall'orologio da polso lasciatomi da mia madre e ho visto che erano quasi le quattro del pomeriggio. Mi sono alzato in piedi e ho raggiunto il bagno, dove ho sciacquato più volte il viso con l'acqua fredda, senza asciugarmi; quindi sono uscito sul pianerottolo. Sulle scale non c'era nessuno. Sono sceso fino al portone e ho aspettato. Pochi minuti dopo ho sentito il rumore lontano di una porta ai piani superiori che si apriva, e la luce rossa di chiamata dell'ascensore si è accesa. Ho fissato la spia luminosa finché non è diventata verde. La porta dell'ascensore si è aperta cigolando e lui è uscito; indossava un'imbarazzante camicia verde chiaro, troppo lunga e un poco sformata, dei calzoni bianchi orribili, scarpe marroni anonime.

- Non ho tempo. Sto andando a prendere mio figlio alla Materna, - ha detto con un tono di voce incerto, quasi timoroso, appena ha visto che lo aspettavo con le braccia conserte e uno sguardo duro, ostinato.
- Lo so, - gli ho risposto mentre avanzavo verso di lui, tenendo le mani ben in vista come a dimostrare le mie buone intenzioni. Mi sono avvicinato continuando a guardarlo negli occhi, con un sorriso appena accennato che piano piano diventava aperto e rassicurante.
- Solo una parola, - gli ho detto quando sono arrivato di fronte a lui e mi sono fermato a guardargli gli occhi da grosso ratto impaurito.
Ho accennato a un gesto sul suo capo, con la mano sinistra, come fosse una carezza, e lui ha avuto un piccolo scatto nervoso e si è tirato indietro, verso la porta ancora aperta dell'ascensore; io ho fatto un altro passo in avanti e mi sono sporto verso di lui con il busto e la testa.
- Stai molto molto molto attento alla vita di tuo figlio, - gli ho sussurrato all'orecchio destro. Poi mi sono girato e senza affrettarmi mi sono diretto verso il portone; lo sentivo alle mie spalle, ancora immobile, incerto, che digeriva l'eco delle mie parole. Avevo ancora il sorriso dipinto in volto che presto si è trasformato in un accenno di risata oscena che non avevo previsto e nemmeno volevo e infine in un grido dissennato, quasi folle. Quando sono uscito sul marciapiede ho respirato a fondo guardando la gente che camminava veloce e mi è parso che una ragazza molto più giovane di me mi guardasse con interesse. Ho camminato un po' senza una meta precisa, perdendomi nel flusso rasserenante del pomeriggio.

Stamattina mi sono alzato riposato, ho fatto una abbondante colazione con un paio di uova fritte e un toast, e ho deciso di dare un'occhiata alle condizioni della mia moto. Ma quando sono sceso per la rampa di scale del mio palazzo e sono arrivato davanti al portone, con la coda dell'occhio ho notato qualcosa di bianco dentro la cassetta della posta. All'interno c'era una busta semichiusa con qualcosa che sbucava fuori. Appena ho visto le prime banconote da 50 Euro, ho richiuso la busta senza nemmeno controllare se corrispondevano alla somma che avevo versato per l'anticipo, ma mi sono appoggiato al muro per qualche secondo assaporando l'ebbrezza di quel momento. Poi sono uscito nel sole e non so come ho iniziato a correre più forte che potevo, senza nemmeno guardare dove andavo.

Invece, tutto a un tratto mi sono ritrovato vicino al garage; allora ho attraversato la strada e ho aperto la saracinesca di metallo: lei era lì che mi guardava, appena un po' umida, ma con il sole che si rifletteva sulle cromature e la accendeva di argento e di azzurro metallizzato. Il motore si è avviato subito. Ho dato un filo di gas ed è schizzata in avanti come volesse guidarmi verso il mattino. Mi sono ritrovato sulla superstrada, con il sole già alto nel cielo che mi guardava e un orgoglio smisurato che mi invadeva il cuore. Ho inserito il bluetooth del casco e ho premuto il tasto play del lettore mp3 dal pulsante del cruscotto: quando le prime note della Passionaria di Beethoven hanno accarezzato la mia mente, mi è sembrato di potermi sollevare da un momento all'altro insieme alla mia moto e di poter raggiungere il sole.

Ma ben presto un'immagine sgradevole si è sovrapposta a quella del sole e ho rivisto con gli occhi della mente, il viso incerto, spaventato del mio condomino il giorno prima, mentre mi avvicinavo a lui.
E ho pensato che di lui non ricordavo neanche il nome. Né quello della moglie, che forse nemmeno avevo mai visto. E del figlio non ricordavo il viso.

Sergio Beducci

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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