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Autore: Joseph R. Meister
Inferno - Saga Arcangelo (vol. 3)
Urban Fantasy YA
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Inferno - Saga Arcangelo (vol. 3)
Ripresi conoscenza nella più assoluta e spaventosa oscurità. Un indescrivibile dolore mi trapanava le tempie e penetrava nella parte più profonda del mio cervello. Cercai di riprendere fiato ed ebbi dei conati di vomito, ma non potevo vomitare niente essendo a stomaco vuoto. Respirai profondamente e a ritmo regolare finché la cecità assoluta che mi opprimeva cominciò a cedere e la vista si schiarì.
Ero distesa su una superficie di pietra ricavata dalla roccia in modo piuttosto rozzo. Una fiaccola illuminava debolmente, dal suo sostegno fissato alla parete, quella che sembrava essere una cella. Una porta di legno dallo spessore notevole, dotata di una finestrella chiusa da una griglia di ferro, mi precludeva l'unica uscita e mi teneva prigioniera in uno spazio piccolissimo, opprimente, simile a una tana scavata nella profondità della terra da qualche bestia selvatica.
Vicino a me, rovesciato per terra, giaceva il cestino che faceva parte del mio travestimento da Cappuccetto Rosso. Malgrado il dolore pulsante che mi flagellava la testa, vedendolo mi ricordai tutto: la festa in maschera, il sorriso di Iago, il bacio di Uriel, le tracce di sangue che mi avevano portato ai piani superiori della scuola, da Suzie, e la sua trasformazione in strige, l'inseguimento per tutto il quarto piano abbandonato, il fatale incontro con Apocalisse... e il vortice, il portale che conduceva nell'abisso.
Mi trovavo dunque all'inferno?
Dentro il cestino, ricoperti da uno strofinaccio a quadretti bianchi e rossi, c'erano dei panini cotti al forno da Elisa, un vasetto di miele e una bottiglia di vino che, come nella fiaba, avrei dovuto portare alla mia nonnina. Adesso che il lupo mi aveva trovato e imprigionato, forse sarebbero stati la mia unica fonte di sostentamento. Pensai a Elisa e Gabriel, i miei genitori adottivi, e mi chiesi se si fossero accorti della mia scomparsa.
Trattenni le lacrime, non era certo il momento delle lamentele. Piangere non mi sarebbe servito a niente, in quella situazione. Decisa, mi alzai malgrado mi girasse la testa, rischiando di cadere. Il martellio nella mia testa era insopportabile. Il dolore andava e veniva a ondate, come una marea costane e incontenibile.
Mi avvicinai alla porta a passi incerti; il legno era molto vecchio, scheggiato e inaridito. Cercai di aprirla scuotendola, ma la serratura resistette. Trovai il coraggio di affacciarmi attraverso la grata di ferro nero che chiudeva la finestrella e riuscii a intravedere un corridoio scavato nella roccia, illuminato da una serie di fiaccole alternate ad altrettante porte simili a quella che mi impediva di fuggire dalla mia angusta prigione. Ero sicura che si trattasse di celle simili alla mia.
Non si vedeva nessuno. Non si sentiva alcun rumore.
“Aiuto” gridai con voce flebile e impastata. “C'è qualcuno?”
Nessuno rispose, ma mi parve di udire un gemito proveniente dall'interno di una delle celle contigue.
Senza forze per gridare, la bocca secca e la lingua simile alla carta vetrata, ero torturata da una sete insaziabile. Mi girai a ispezionare il minuscolo spazio che mi circondava e lo trovai vuoto, freddo e sterile.
Il vino, pensai.
Mi inginocchiai a terra vicino al cestino, spostai lo strofinaccio e vi trovai la preziosa bottiglia. Disperata, fui costretta a ricorrere a tutte le mie forze per riuscire a strappare il tappo di sughero e bere in fretta e furia qualche sorso. Il vino era denso e forte, fresco e legnoso con sentori di frutta, ma riuscii a fermarmi in tempo. Non volevo che mi desse alla testa intorpidendo i miei sensi. Ancora più difficile fu la lotta con il tappo per riuscire a infilarlo di nuovo nella bottiglia, che poi rimisi nel cestino insieme al pane e al vasetto di miele.
Non avevo fame, non sapevo nemmeno quanto tempo fosse trascorso da quando ero stata rapita, ma era meglio tenere da parte le scarse scorte di cibo per il futuro, quando non sarei più riuscita a resistere al loro richiamo.
“Sembra che la nostra deliziosa damigella abbia ripreso i sensi” disse una voce perniciosa, carica di veleno.
Mi girai di scatto, presa alla sprovvista, e vidi Suzie... o meglio, vidi Dementia oltre la porta, che mi osservava con odio attraverso la grata del finestrino. Il suo sorriso, crudele e sibillino, sembrava rigido, artificiale.
Non volevo che mi vedesse in quello stato, debole e sconfitta, così mi coprii con il cappuccio del mio mantello rosso, sperando che l'oscurità celasse il mio volto al suo scrutare. Mi alzai a fatica e mi avvicinai alla porta che ci separava.
“Dove sono?” le chiesi stancamente. “Dove mi avete portata?”
“Sei all'inferno, cara.” Il suo sorriso velenoso si fece più largo. “Un luogo da cui non riuscirai mai a scappare, anche provandoci.”
“Perché? Perché mi avete fatto questo?”
“Ordini, te l'ho detto” rispose asciutta. “Non sempre mi piace ubbidire, ma questa volta l'ho fatto con sommo piacere. All'inizio ero decisa a ucciderti, perché eri la più debole e sarebbe stato il modo migliore di ridurre il vostro circolo in mille pezzi. Ma poi hai liquidato Tormento, evidentemente sei più pericolosa di quanto pensassi all'inizio.
“Mi hai dato della gatta morta.”
Alle mie parole, Dementia scoppiò in una delle sue folli risate, riuscendo ad acuire il dolore che mi torturava.
“Mi sbagliavo.” Si leccò le labbra con fare lascivo, assaporando la mia disfatta e la mia prigionia. “Adesso invece mi rallegro che tu sia ancora viva e possa sentire l'orrore e il dolore che ti attendono.”
“Avete intenzione di uccidermi?” chiesi, terrorizzata dalle sue parole.
“Tutto dipende da te e dalla tua decisione” affermò soddisfatta. “In tutti i casi, sei condannata.”
“No!” mi ribellai. “Sarai tu a essere condannata per le tue malefatte, anche se non dovrai attendere l'altra vita per essere punita. L'odio ti sta già corrodendo da dentro come una malattia incurabile.”
“Sono orgogliosa dei miei peccati.” Sorrise e socchiuse gli occhi, in fondo ai quali brillava un'insondabile follia. “Vi ho ingannati tutti, ho fatto appello ai tuoi buoni sentimenti per trascinarti in questo luogo da incubo e ho portato a termine la mia missione. Adesso mi attende una ricompensa, una glorificazione.”
“Di che cosa stai parlando?”
“Il Padrone è molto soddisfatto della tua cattura e ha autorizzato l'Aquelarre a celebrare un rituale. Con il sangue delle mie sorelle defunte, che conserviamo in minuscole fiale, trasmetteranno a me la loro forza e le loro abilità” dichiarò tra le risate. “Sarò tre volte più potente!”
“Mi hai mentito. Hai detto che mio padre era ancora vivo, ma è morto in un incendio, quando ero piccola.”
“Ah, è questo che pensi?” inarcò un sopracciglio e mi osservò sorniona. “Sei ancora una bambina ingenua e ignara di tutto, ma presto scoprirai la verità, una verità che ti farà desiderare di essere morta.”
Rimasi senza parole e fui sul punto di svenire.
“I miei amici mi porteranno via da qui” dissi alla fine.
“Non ci sperare” mi disse, con una smorfia repellente. “Chi di loro sarebbe disposto a scendere nell'averno per non tornare mai più? Un arcangelo reincarnato che preferisce rimanere umano invece di riacquistare il suo ruolo nella guerra celeste? Iago, un abile spadaccino incapace di amare di nuovo dopo la morte di colei che fu la sua fidanzata? Victor, che potrebbe essere il più potente di tutti se non fosse per la sua avversione alla violenza e agli spargimenti di sangue, se non fosse così limitato dalla sua erronea concezione del bene e del male?”
“Forse tutti loro, guidati da Zabulón” ipotizzai.
Sul suo volto comparve per un attimo un'ombra di terrore, che sparì subito dopo.
“Zabulón è un egoista manipolatore” replicò con rabbia. “Non rischierà la sua vita né per te né per nessun altro. E qui ci sono esseri demoniaci che potrebbero ridurlo ad un vago ricordo di quello che è adesso, strappargli la sua immortalità e torturarlo fino a costringerlo a supplicare pur di ottenere una morte pietosa.”
“Ti sei mai chiesta perché ci aiuta?” le chiesi, cercando di seminare il dubbio e la paura nella sua mente malata. “Perché uno come lui lavora in una biblioteca pubblica, conducendo una vita monotona, grigia e lontano dalla ribalta?”
“Immagino allo scopo di tenervi d'occhio, per lo stesso motivo per cui io mi sono infiltrata nella vostra scuola...” Esitò per un attimo. “Ma dove vuoi andare a parare?”
“Questa è una guerra e lui farà tutto il possibile per vincerla” affermai, sempre più insicura. “Siamo suoi alleati e non ci abbandonerà. Se anche solo io dovessi cadere, ve la farà pagare a caro prezzo. Te lo assicuro.”
“Ora devo andarmene” mi salutò con un sorriso cinico, “ma voglio metterti in guardia: non cercare di scappare. Al di là di queste mura esistono creature orripilanti e assetate di sangue che non esiterebbero neanche un attimo prima di avventarsi su di te e farti a pezzi. Sii paziente. Così, la sorpresa che ti attende sarà ancora più grande.”
Mi lanciò un bacio, si allontanò dalla finestrella e se ne andò lungo il sinistro corridoio, lasciando dietro di sé una torbida scia di malignità che fece tremare la fiamma delle torce.
“Aspetta!” le gridai.
Le sue risate isteriche rimbombarono sulle pareti di roccia fino ad estinguersi.
Ero di nuovo sola, con un mal di testa che mi stava uccidendo e che non accennava a diminuire. Non sapevo se fosse giorno o notte. Non si sentiva il minimo rumore.
Meglio così. Non volevo nemmeno pensare alle creature di cui mi aveva parlato Suzie, i ributtanti abitanti dell'inframondo e i peccatori irredenti la cui condanna si prolungava per tutta l'eternità.
Era quello il destino che avevano in serbo per me? Una condanna eterna?
Non mi sembrava di aver fatto nulla per meritarla. Anche se fosse stata colpa mia se Uriel si rifiutava di unirsi alle schiere celesti e Dio stesso avesse voluto punirmi per questo motivo. Ma doveva essere un Dio crudele e non misericordioso se mi infliggeva una punizione così severa per un peccato tanto lieve come può essere un bacio che avevo desiderato e anelato, ma che alla fine avevo rifiutato.
Mi lasciai cadere a terra, in un angolo, e mi coprii con la mantella che adesso, nella penombra, sembrava ricoperta di sangue rappreso. Mi accorsi che la fiaccola ardeva senza consumarsi, immaginai grazie a qualche incantesimo demoniaco. La fiamma si agitava, dotata di vita. Il dolore non mi dava tregua, tormentandomi incessantemente.
“Fuoco, vieni a me” sussurrai. “Allevia il mio dolore e la mia solitudine.”
Le fiamme ballerine tremarono, si allungarono e poi tornarono ad acquietarsi sulla loro base di legno, come un vigoroso fiore di fuoco.
E presto uno strano tepore mi invase, mi confortò, si annidò nel mio corpo e nella mia mente donandomi conforto e sollievo.
Il dolore si placò lentamente. Respirai un'aria impregnata di un leggero sentore di zolfo e di cenere. Abbassai le palpebre. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti.
Tutto era iniziato con gli specchi, con le visioni dell'incendio e le urla di quelli che nell'incendio erano morti. Prima, quando mi specchiavo, vedevo solo una bambina spaventata e fragile. In seguito cominciai a vedere una giovane nel fiore della vita, una strega che aveva appena scoperto i suoi poteri, una ragazza insicura che si era innamorata della persona sbagliata... o meglio, delle persone sbagliate.
Che cosa avrei visto, adesso, in loro?
Sofferenza, dolore e morte?
Ricordai una magnifica poesia di Gioconda Belli intitolata “Dolore degli specchi”, che fa così:

Non è che con timore
che una donna si avvicina
ogni giorno allo specchio
e si confronta con la sua immagine.
Arriva il momento degli incantesimi
e delle streghe.
Il momento dei cosmetici e delle abluzioni,
la nostalgia tra le foto luminose
della giovinezza, per nulla eterna.
Allora una si chiede
per quanto tempo ancora durerà la passione,
l'amore per le biciclette
e i racconti di amanti furtivi.
E si domanda se l'amore avrà età,
se il tempo sarà implacabile
quanto gli specchi.

Sì, l'ora degli incantesimi e delle streghe era arrivata. Non potevo arrendermi, non l'avrei fatto. Pensai a Victor, Anna. Saray, i miei compagni, i miei amici. Neanche loro si sarebbero mai arresi.
Mi lasciai cullare dal sonno con un leggero sorriso sulle labbra.
Era il momento degli incantesimi e delle streghe.

Joseph R. Meister

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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