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Autore: Stefania de Girolamo
Richiamo dalle foibe
Narrativa
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Richiamo dalle foibe
Erano quasi le tre di notte, quando finalmente sentì in maniera chiara e nitida questa volta, il rumore di una chiave entrare nella toppa. Corse verso l'uscio, raggiungendolo nell'istante stesso in cui Massimiliano lo stava varcando. Era già pronta a chiedere dove fossero finiti lui e Caterina per tutto quel tempo, quando le parole le morirono nella gola alla vista dell'uomo, solo. Il suo sguardo gli guizzò tutto intorno in cerca della sorella.
Elisabetta comprese immediatamente che era successo qualcosa di terribile: il ragazzo aveva il volto bianco come quello di un cadavere, il suo corpo era smagrito come se non stesse mangiando da mesi, si potevano vedere le ossa sotto la pelle delle mani e del volto, i vestiti, sporchi e bagnati cadevano giù come cenci.
Massimiliano le raccontò ogni cosa...
...Senza dimostrare l'intenzione di scusarsi o di cercare il perdono di Elisabetta, confermò alla giovane il suo amore per lei, differente da quella spasmodica, misticamente carnale attrazione che aveva avuto per Caterina, quello non lo si poteva chiamare amore.
Spiegò che la sua era una sorta di irresistibile seduzione di cui era stato egli vittima in principio, quindi carnefice, insinuando in lui una sorta di vendicativa rabbia, come se lei incarnasse qualcosa di superiore e lo facesse quindi sentire un essere infimo, con il suo sguardo assente, ma assente soltanto per lui, mentre ciò che di potente sapeva dare ad altri, a tutti, con quella sua estasi, a lui era negato.
Le raccontò del gruppo di partigiani, suoi amici, compagni di lotta contro l'oppressore, di come avesse confidato sul loro rispetto per la sua prigioniera. Le raccontò di come invece avessero violato quello che doveva essere un tacito accordo in base a un tacito codice d'onore, di come poi non avesse fatto nulla per salvare la vita alla giovane e di come avesse fatto tutto per salvare la propria.
Le raccontò del pozzo e le raccontò della luce.
Barcollando cercò di raggiungere la stanza da bagno. Quasi appendendosi con tutto il peso alla maniglia della porta riuscì a entrarvi e a raggiungere il lavabo. Aprì il rubinetto, appoggiandosi con gli avambracci gettò il viso nell'acqua fredda, se lo sfregò con le mani e lasciò quindi che l'acqua continuasse a scorrere sui suoi polsi e sulla nuca.
Rimase immobile, davanti allo specchio, fissandosi negli occhi come se volesse cercarvi quelli di sua sorella, o un modo per tornare indietro nel tempo, non era poi così lontano. Sarebbero bastate poche ore, soltanto poche ore, per annullare quel devastante presente.
Udì uno sparo.
Rimase immobile, continuando a fissare dentro lo specchio, non batté un solo ciglio, i battiti del suo cuore non accelerarono, così come non rallentarono, non mosse un passo verso le scale per scendere ed entrare nel bel salotto ottocentesco, dove Massimiliano si era sparato alla tempia

Le ultime gocce di pioggia stavano cadendo dal cielo scuro, mentre l'incedere indifferente di un nuovo giorno andava a illuminare la città e la bora stava già scacciando le nubi e le loro tenebre.
Elisabetta, senza piangere e senza cambiarsi, uscì di casa per andare alla stazione dei carabinieri. Parlando con una voce flebile ma calma, chiese come potere far portare via il corpo di Massimiliano. I militari, sbalorditi più che dal fatto in sé, lo erano dal caso che fosse una giovane donna a descriverlo, si fecero raccontare ogni cosa più volte, prima di lasciarla andare. La ragazza fremeva come avesse avuto l'urgenza di assolvere chissà quale compito, come se il suo più intimo desiderio fosse stato che il tempo scorresse velocemente e in egual modo come se non volesse che scorresse affatto. Ogni minuto che passava inesorabile l'allontanava sempre più dalla sorella, dalla sua presenza, dal vivido ricordo di lei, come se ora che non c'era più la sua immagine andasse man mano a offuscarsi, senza poter essere rinnovata da una nuova visione e un nuovo ricordo.
Si recò quindi all'ufficio postale...
...I carabinieri si mobilitarono talmente in fretta che furono presto nell'appartamento, così presto che la cameriera che nel frattempo era giunta, in orario come ogni mattina, fece in tempo a vedere la raccapricciante scena, gettando nell'istante stesso l'orrore provato dietro al meno impegnativo problema di dover ripulire.
Pur rimanendo pressoché impietrita di fronte al corpo di Massimiliano che veniva portato via proprio in quel momento, senza chiedere spiegazione alcuna, andò a prendere acqua calda, sapone e strofinaccio, tornò nel salotto, si mise in ginocchio a tentare di ripulire il vecchio tappeto macchiato del sangue e del peccato dell'uomo.
Elisabetta, quindi, venne accompagnata dai carabinieri al pozzo Mazzin, il corpo di Caterina ne fu estratto in non poco tempo, solo dopo aver riportato in superficie quelli dai quali era ricoperta.
La giovane rimase tutto il tempo a guardare, senza alcuna espressione nel volto. Vide sfilare davanti a sé i primi corpi riportati alla luce, fra essi anche quello di uno dei bambini cui Caterina impartiva le sue lezioni: indifferente agli uni, le si manifestò spontaneo sul volto un accennato sorriso, quasi come se ne fosse contenta.
“Non eri sola” pensò “ecco uno dei tuoi angeli.”
Quando vide il corpo della sua cara sorella salire gli ultimi metri del baratro barcollò quasi svenendo. Un carabiniere se ne accorse e la sorresse.
La ragazza chiese in quel momento, con un filo di voce, che il corpo di Caterina fosse portato a casa.
Alcuni amici, venendo a conoscenza dell'accaduto, si erano prodigati a far sentire la loro discreta presenza, nondimeno la sua cara amica Giorgia, con la quale il giorno prima aveva vissuto alcune ore di paura, che ora al confronto, sembravano una vera sciocchezza. Proprio il padre di Giorgia mise a disposizione il suo carro, sul quale vennero adagiate le spoglie di Caterina, salirono quindi Elisabetta e l'amica, mano nella mano, e altri due amici che le riportarono in città, mentre i carabinieri dovettero rimanere sul posto per seguire le operazioni del recupero degli altri corpi, quelli ricoperti dai primi.
Quanto fosse profondo quel pozzo era difficile a dirsi.
Lo sguardo di uno di quegli uomini in divisa sembrava chiedersi quanta di quella profondità fosse stata colmata, quanti corpi avrebbero dovuto estrarre, quanto tempo sarebbe occorso per trovare il fondo originale del baratro.
Con l'espressione di chi non può far più nulla, l'uomo sembrava di tratto in tratto accennare a compiere il primo passo per scappare via, per andarsene, vinto dalla disperazione, ma in effetti senza riuscire ad allontanarsi di un solo centimetro, fermo nel proposito di assolvere fino all'ultimo il suo dovere, di essere umano più che di uomo, di uomo in divisa più che di essere umano, per il solo fatto di essere ancora un uomo in vita, quasi che ne fosse stata una colpa.
Era un giovane alto e di bell'aspetto, aveva già moglie e due figli. Ripensava ancora con orgoglio alla grande emozione che ebbe quando fu ammesso nell'arma. Ora avrebbe da una parte desiderato non indossare quella divisa, non essere lì, avrebbe voluto essere in una qualsiasi altra parte del mondo a coltivare un pezzo di terra, anche sterile, purché non vi fosse una sporca guerra da sopportare, pur di non assistere a quell'orrore, ma il rispetto e l'onore per quella divisa amata e odiata allo stesso tempo, sapevano vincere su ogni altro sentimento.
Assolse al suo compito con coraggio e determinazione, quasi di nascosto cercava, o provava a cercare, lo sguardo di un collega, istanti brevissimi in cui confidavano l'uno all'altro le proprie atroci emozioni, rompevano in tutte le lacrime che avrebbero voluto piangere. Ma l'onore della divisa e il rispetto per essa vincevano anche sulle emozioni, la forza veniva loro data dalla divisa stessa e dalla comprensione che solo un collega poteva dare.
Lo stesso rispetto e onore per la divisa procureranno al bel giovane la morte, qualche giorno innanzi, per mano di un commando fascista, dopo essersi rifiutato di eseguire gli ordini ricevuti.

Stefania de Girolamo

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