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Autore: Maria Laura De Luca
Il vero colore dei camaleonti
Narrativa
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Il vero colore dei camaleonti
Citofonò come sempre, - Sono io - rispose, aspettò i soliti trenta secondi e il portone si aprì. Per le scale non c'era alcun profumo: “Spero che il nutrizionista non abbia deciso per il digiuno, anche se forse sarebbe l'unica via efficace per la mole di lavoro di cui si sta occupando” pensò Marco, indeciso se continuare a salire o fingere di aver dimenticato i libri a scuola per andare a prendersi un pezzo di pizza strada facendo. La porta era già aperta. - Ciao Marco come è andata? - chiese sua madre secondo il solito copione. - Bene ma' - rispose, cercando di sbirciare sul tavolo per capire dove avrebbe dovuto versare i suoi due cucchiaini di olio quel giorno. Un piatto di riso in bianco. Forse “piatto” era un quantitativo eccessivo, il fondo di un piatto, saranno stati quattro cucchiai. Marco non era d'accordo sul fatto che dovessero essere tutti a dieta, nulla di più sbagliato per il suo fisico da canarino spennacchiato, ma che dovesse adeguarsi anche alle quantità era davvero assurdo. Già consapevole della risposta che avrebbe ricevuto, si limitò a sedersi e mangiare senza parlare, programmando una merenda nel tragitto da casa al convento di Don Pietro.
- Oggi pomeriggio sistema quel porcile che c'è in camera tua - minacciò l'avvocato Dominici dal suo trono nella penombra.
- Non posso, devo andare a finire un lavoro da Don Pietro - ribatté Marco continuando a mangiare.
- Ci sei stato ieri, non prenderti gioco di me - tuonò ancora suo padre.
- Dobbiamo finire un lavoro, dovrò andare da lui anche domani - spiegò Marco, sollevato dal vedere il suo piatto vuoto, chiaro lasciapassare per poter abbandonare la tavola e andare finalmente a riposare qualche minuto disteso sul letto. Appena chiusa la porta della stanza alle sue spalle si lanciò in un tuffo a peso morto sulla trapunta blu elettrico. Il tonfo suonò misto a uno scricchiolio che ricordò a Marco della lettera ancora nascosta nella tasca della felpa. Girandosi di scatto a pancia sopra la cercò per guardarla di nuovo. Non c'era nessun indirizzo, né mittente né destinatario, ma era chiusa. “Non so cosa sia ma non dovrei aprirla. No, non devo aprirla, ho fatto male anche a portarla via, non è per me, non è mia. Certo, ma di chi vuoi che sia? Sarà finita lì con il vento... beh, no. Con il vento sarebbe stato davvero difficile. Forse è lo scherzo sciocco di qualche ragazzino. Oppure ce l'ha messa quel gallo ossigenato di Vittorio e io ci sono cascato? Che stupido! Sicuramente sarà così. Di sicuro era nascosto con i suoi amici e magari mi stavano guardando per vedere se il pollo anoressico ci sarebbe cascato e io puntualmente non li ho delusi! Potrei scoprirlo solo aprendola. Ormai mi hanno visto, tanto vale che la apra. E se fosse una lettera per quella ragazzina con gli occhi gialli? Se l'avesse lasciata per lei e io l'avessi portata via? Oddio! Se fosse così so già che lo troverei domani mattina fuori scuola pronto a farmi la faccia come un pomodoro dopo un giro in lavatrice. Devo aprirla, almeno posso prepararmi o magari decidere una strategia di fuga...” I pensieri giravano nella testa di Marco come coriandoli in un tornado, la curiosità strattonava il senso di colpa per essersi appropriato di una busta da lettera completamente bianca che comunque non era sua. Ormai era incastrato nella situazione, come quando decidi di tagliare i capelli a zero ma dopo il primo tocco della macchinetta cambi idea: prendere quella busta era stato il primo chilometro sull'autostrada, quando ti accorgi di aver sbagliato imbocco, ne avrebbe dovuti fare molti altri in quella direzione prima di poter tornare indietro, forse. E con Vittorio non si scherza: non ha cervello ma ha troppi muscoli e i muscoli senza cervello possono essere molto più pericolosi di un cervello senza muscoli, quindi a Marco non rimaneva che giocare d'astuzia e aprire la busta: la verità poteva essere l'unica in grado di aiutarlo. Scoprire che si trattava realmente di un'idea di Vittorio gli avrebbe permesso di prepararsi, scoprire che non si trattava di lui sarebbe stato sollievo immediato. Infilò l'indice nell'angolo in alto e iniziò a strappare il bordo della busta: conteneva un semplice foglio bianco piegato in quattro. Marco lo estrasse per aprirlo. Era scritto a macchina. Con una vecchia macchina da scrivere. Si potevano vedere le lettere in rilievo sul retro del foglio, l'inchiostro, più o meno scuro a seconda della forza impressa sul tasto, sembrava venire da un'epoca molto lontana, ma la carta era perfettamente bianca e asciutta. Non doveva essere lì da molto. Non c'era una data, non c'era una firma, solo parole e foglio bianco. Gli occhi di Marco si agganciarono d'istinto alla prima parola e proseguirono rincorrendo la lunga catena di caratteri.

“Se stai leggendo è perché mi hai cercato, se mi hai cercato è perché avevi bisogno di me e sono felice che tu mi abbia trovato. Non avrei mai voluto incontrarti di nuovo, anche se non credo di essere mai riuscito a separarmi realmente da te, dal pensiero della tua vita che come una luna fedele ha sempre seguito il mio passo. Ti ho immaginato in ogni momento del giorno, ti ho accompagnato durante tutte le notti in cui nascosto nel buio non mi hai visto. Non avrei mai voluto incontrarti di nuovo. I tuoi occhi pieni e tremanti sono rimasti gli stessi che mai ho dimenticato, incontrarli ancora mi ha reso piccolo nei miei stessi panni. Ti credevo in luoghi lontani, ti vivevo nei luoghi che per te ho creato dentro di me. Lo stupore che ha socchiuso le tue labbra quando hai riconosciuto il mio volto, ha scosso la mia pelle ben oltre quanto avrebbe dovuto. Sono qui per te, come mi hai visto quella sera, sono qui per te, forse più di prima ma non come prima. Un tempo terribilmente lungo ha velocemente stravolto la mia vita, cambiata per sempre, anche per te, ma mai mi permetterà di allontanarmi dal tuo fianco. Molte volte ho creduto di esserci riuscito, ma in fondo non l'ho mai voluto e dentro l'angolo di un pensiero ho sempre trovato un profumo, una luce o anche solo una tristezza che mi parlasse di te. Un immenso dolore è stato per me ritrovarti, una lama di ghiaccio ha strappato le speranze che su di te avevo costruito, ma non ho potuto tacere. Non ho potuto fermare le mani che ora ti stanno scrivendo. Non scappare ancora. Non avresti dovuto andartene. Ora sai dove puoi trovarmi se hai bisogno di aiuto, di conforto, di sostegno e di speranza. Non so se avrò il coraggio di recapitarti le mie righe, ma ho il dovere di farmi trovare se tu vorrai cercarmi. Non fare parola di questa mia. Non una sola parola, a nessuno. Non avrei mai voluto incontrarti di nuovo.”

Rimase con il foglio che tremava nelle mani e i gomiti appoggiati sulle ginocchia. - Ma cos'è? - sussurrò con un filo di voce. “Una lettera così, abbandonata nella fessura di un muro, come un messaggio nella bottiglia perso nell'oceano” pensò cercando di darsi una spiegazione “A chi può arrivare una lettera senza indirizzo?” si chiedeva senza capire. Non era una richiesta di aiuto, chi scriveva sembrava piuttosto volerne offrire. Chi abbandona una proposta di aiuto per la strada, in un muro? Per chi se non ci sono contatti, modi per rintracciare il mittente? Il tornado di coriandoli nella testa di Marco non si sarebbe placato facilmente, non era Vittorio e questo era già un bel sollievo, ma aveva il timore di essersi infilato in un guaio ancora più grande. - Sei già in ritardo, se non ti muovi mi fai vergognare pure stavolta con Don Pietro, mai puntuale. Ma che ho fatto per meritare un figlio come te? - l'avvocato Dominici urlò dalla sua postazione con uno sforzo notevole ma facilitato dal peso del gravoso addome che, inclinato sulla poltrona, aiutava la voce ad uscire con maggior potenza. Marco nella sua stanza alzò gli occhi al cielo, infilò la lettera nella felpa e poco prima di uscire si limitò ad un semplice: - Vado, a dopo - .
In sella al suo motorino continuava a pensare a quel messaggio. C'erano davvero troppe stranezze: una lettera senza riferimenti, scritta a macchina e lasciata in un muro, quando basta accarezzare uno smartphone per comprare una casa. Che necessità c'era di rischiare così tanto che quella lettera non arrivasse a destinazione come, d'altronde, era appena successo? I coriandoli erano ormai diventati mosconi ronzanti e Marco era appena tornato nel suo girone degli ignavi: per la milionesima volta non sapeva decidere, non sapeva cosa fare.
- Buonasera Don Pietro, mi dispiace per il ritardo stavo studiando e non mi sono accorto dell'orario - mentì Marco scusandosi prima ancora che il parroco avesse aperto del tutto il portone, prima ancora di vederlo in volto, come nelle migliori confessioni. - Non sei in ritardo figliolo, ti aspettavo tra dieci minuti - rispose Don Pietro con il suo tono immutato nei decenni. Marco tirò fuori il cellulare dalla tasca: erano le 15.20, era arrivato in anticipo di dieci minuti. “Mai prendere per oro colato tutto quello che dice l'avvocato” pensò tra sé avviandosi al seguito del prete nel lungo corridoio. L'acqua del lavello scrosciava sulle melanzane intrise di sale, ce n'erano sette contenitori pieni ed era appena all'inizio. Accese la radio per cercare di fermare l'unica domanda che continuava a martellargli le tempie: - Cosa devo fare? -

Maria Laura De Luca

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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