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Autore: Elisabetta Violani
Solo uno sbirro
Narrativa
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Solo uno sbirro
Sono su un autocarro.
Sopra la testa un telo verde che sibila per le raffiche di vento.
Sto seduto su una panca di legno e il mio corpo sbatacchia di qua e di là.
Ad ogni curva finisco ora sul compagno seduto alla mia sinistra, ora sul compagno seduto alla mia destra.
Prima cercavo di tenermi diritto, ma ora non ne ho più la forza, mi lascio andare di qua e di là e così fanno anche i miei compagni: sbatacchiamo tutti di qua e di là lasciandoci andare.
Da quante ore siamo in viaggio?
Boh, non me lo ricordo più.
Ogni tanto sobbalzo e rischio di finire con la faccia per terra ... maledette le buche di questa maledetta strada.
Respiro nafta.
E' una missione per pochi uomini scelti, volontari ...
All'improvviso l'autocarro ha uno scarto.
Si blocca, fa retromarcia e poi si infila in uno slargo in mezzo a delle rocce.
A poco a poco l'odore del gas di scarico si dilegua.
Sento il profumo di un'erba aromatica ma non riesco a capire cos'è.
Tutt'intorno macchia, macchia mediterranea che mi ricorda quella di casa mia.

- Tutti giù! - urla il capo, - di corsa! -
Uno dopo l'altro ci buttiamo giù dall'autocarro.
- Dobbiamo raggiungere il luogo dell'appostamento - continua il capo, - è a circa un'ora di marcia. Forza! -
Il capo si incammina per primo con il suo andamento da vecchio bisonte e tutti noi dietro a Bisonte, perché è così che noi chiamiamo il capo.

Fa un caldo bestia e le tute mimetiche sono pesanti.
Pesanti gli anfibi, pesante lo zaino, pesante il fucile che ho di traverso sulle spalle.
Incomincio a grondare di sudore.
- Merda! Quanto è lontano 'sto posto? - chiede il compagno che ho di fianco.
- Risparmia il fiato - gli rispondo brusco.
- Ma dico così, tanto per dire - , ribatte il tipo che è giovane ed ha un fisico da atleta; di sicuro non patisce la fatica, ha fiato da vendere.

Ad un certo punto la macchia si dirada e davanti a noi si apre un pianoro: tutto intorno colline brulle e rocce.
Rocce a perdita d'occhio.
E dietro montagne.
- Arrivati! - esclama Bisonte guardandosi intorno, - Tu, tu e tu dentro a quel buco laggiù! Tu e voi altri due dentro a quell'altro buco. Tu e gli altri dietro a quelle rocce. Il luogo da piantonare è questo. Tenete d'occhio tutta la zona, sapete cosa dovete fare. Segnalate ogni minimo movimento, qualunque cosa si muova, anche il buco del culo di una lucertola. Ci rivediamo fra tre giorni. Avete scorte sufficienti. Sapete chi comanda qui - e fa un cenno verso di me col suo muso da bisonte, - buon lavoro! -


CAPITOLO SECONDO

Eccomi dentro al buco insieme ai miei compagni.
Ci guardiamo in faccia e quello con il fisico da atleta comincia a ridere.
- Cos'hai da ridere, Atleta? - faccio io.
Il tipo lo chiamiamo tutti così.
- Proprio niente, ma rido lo stesso! Che altro dovrei fare? Devo stare tre giorni in questo buco e dovrei anche piangere? Ma non ci penso neanche! Cercherò di sopravvivere il meglio che posso a questi tre giorni di merda: voglio uscirne con il sorriso. -
- Ti invidio. Ma come minchia fai a ridere, me lo vuoi spiegare? - , gli rispondo io.
E qui riattacca a ridere ancora più forte: - Nessuno mi piega, a me! E poi penso che alla prossima andrà meglio ... -
- Tu lo pensi davvero che alla prossima andrà meglio? -
- Certo! E tutto serve per un avanzamento! Io in caserma non so stare, nemmeno chiuso in un ufficio. -
- Ah ah ah! Voglio ridere con te, Atleta! - faccio io, con un tono che sembra quasi allegro, - sei giovane, è giusto che tu la veda così. -
- L'Atleta qui presente è un ottimista! - fa l'altro compagno con il quale avrei condiviso il buco, - io so già che questi giorni non passeranno più. Stare chiuso qua dentro non mi garba, ma quando si parla di missione mi faccio sempre fregare. -
Il tipo che parlava era basso e tarchiato, aveva il collo largo e corto, sembrava un toro, e così lo chiamavamo, Toro.
- Allora amico mio siamo in due! - gli rispondo, - è una vita che mi faccio fregare! Ora prendiamo possesso della nostra bella residenza, mettiamoci comodi! Conosciamo le zone che dobbiamo tenere d'occhio e i passi di montagna. Non perdete mai i contatti con le altre squadriglie e con le forze stazionarie. Siamo qui a supporto e dobbiamo dare il meglio. Tutte le indicazioni vi sono state date e sapete quello che dovete fare: guardare e aspettare, aspettare e guardare. Il primo turno di guardia ve lo fate voi due. Lasciatemi riposare due ore 'ché sono il più vecchio, poi vediamo di organizzarci. Svegliatemi solo quando non ne potete più. -
- Avevi detto due ore ... - fa Toro, quasi soffiando in mezzo ai suoi denti taurini.
- Sì, l'avevo detto ... -

Mi stendo su una coperta nel fondo del buco: la testa è vicino ad uno spigolo di roccia, ma almeno così riesco ad allungare le gambe.
Mi metto sul fianco destro che per me è la posizione migliore e chiudo gli occhi.
Non mi va di dormire.
Sono troppo stanco e mi fanno male le ossa.
Mannaggia alla vecchiaia, che brutta malattia!
Cosa darei per avere di nuovo la giovinezza e tutta la mia forza.
Maledetti ricordi.
Perché invece di dormire mi metto a ricordare?
I ricordi sono pericolosi, soprattutto quando si è nella mezza età.
Vorrei avere la testa sgombra, sgombra da ogni pensiero, una bella tabula rasa su cui poter disegnare di nuovo.
Due vite ci vorrebbero, due vite!
Non tante, due!
Era quello che mi diceva mio padre, povero vecchio, ed io dentro di me lo prendevo ancora per il culo!
Quanto si è scemi da giovani.
Ma in fondo non ero scemo, ero solo giovane.

Ricordo quando sono partito dal paese.
Avevo diciott'anni.
Mio padre mi accompagnò alla stazione.
Mia madre e i miei fratelli li avevo lasciati con un cenno della mano, di fronte alla casa in mezzo al niente ma da cui si vedeva il mare da lontano.
- Figghiu miu - , mi disse mio padre prima di lasciarmi, mentre mi teneva stretto a sé con entrambe le braccia, - va cun Dio ma ricorda: la vita senza unuri è poca cosa, ma l'unuri senza vita è niente! -

Io non ero mai stato al Nord.
Il viaggio fu lungo e dal finestrino vedevo case e campi ma anche capannoni e ammassi di ferraglie: erano le industrie, “quelle che danno lavoro!”, mi avevano detto.
Ma io non volevo lavorare in fabbrica.
Sentivo un fuoco che mi bruciava dentro e che mi diceva: “Fa' qualcosa di cui tu possa essere orgoglioso”; forse era il desiderio di farmi “unuri”, come lo aveva chiamato mio padre, o forse era solo il desiderio di qualcosa di diverso.
Al paese mio, avevo fatto domanda di arruolamento in polizia: ci avevo pensato bene e sapevo che per me era l'unica strada possibile.
“Devo saltare il fosso”, mi ero detto, “o di qua, o di là”.
E avevo scelto “di là”.
Scesi dal treno e chiesi al primo passante dove fosse la caserma: era lontana, ma io l'avrei fatta a piedi.
Arrivai che era quasi buio: per sentito dire sapevo che al Nord fa buio prima e fa pure più freddo che a casa mia.
Chiesi al piantone: - Ho fatto domanda di arruolamento, devo fare la visita di idoneità e tutto il resto. -
Quello rispose secco: - La visita è domani mattina. -
- E io che faccio? -
- Ma perché sei arrivato così presto? -
- Presto? Ma se è quasi notte! -
- Presto per la visita! - ribatté il piantone come per dire: “Ma che? Sei scemo?”
- Non c'è un posto dove stare fino a domani? - chiesi io con aria smarrita.
- Certo, c'è un albergo in paese. -
- Sì, l'albergo! Me li dai tu i soldi per l'albergo? -
- Ho capito, terun della malora! Gira qui all'angolo, c'è una casermetta in disuso. Infilati là dentro. Torna domani mattina alle sette. -
- Grazie! - dissi, anche se quel “terun” mi rimbombava nelle orecchie.

Mi infilai nella casermetta: tanto ero abituato a dormire all'aperto, in campagna, sotto le stelle.
Dentro alla casermetta c'era una puzza tremenda, però ero al riparo dall'aria fredda.
Stelle da lì non ne vedevo, ma tanto, in cielo, di stelle ce n'erano veramente poche, lì al Nord.
Avevo fame, ma avevo finito le scorte che mi aveva dato mia madre.
Dormii lo stesso come un sasso.

Mi risvegliai che erano quasi le sette: così mi diceva l'orologio che avevo al polso, il regalo più ambito che avevo ricevuto alla mia Prima Comunione.
Radunai velocissimo le mie cose e mi diressi all'ingresso della caserma con lo stomaco che rumoreggiava.
Davanti al portone c'era un gruppo di ragazzi con la valigia simile alla mia: ce n'erano di alti, di magri, di bassi e di grassi, biondi e bruni, ce n'era persino uno con i capelli rossi.
Mi avvicinai e dissi: - Buongiorno. -
- Buongiorno a te! - , mi sentii rispondere.
- Buon dì! -
- Ciao. -
- Bun giurnu. -
- Ben truvou. -
- Tutti qui per la visita? - feci io cercando di assumere un'aria disinvolta.
- Noooo.... Qui pe' fa' 'na passeggiata! Ah ah ah!!! -
Burlone il tipo.

Ad un certo punto aprirono la porta della caserma e ci fecero entrare in uno stanzone con delle panche.
- Sedetevi qui e aspettate il vostro turno - , ci disse un signore dall'aria stanca e vestito con un camicione bianco: “probabilmente è il dottore” mi dissi.
I miei compagni (così già li chiamavo io, non perché li conoscessi, ma per senso di solidarietà) vennero chiamati uno dopo l'altro e fatti entrare dalla porta da cui era spuntato il presunto dottore.
Man mano che uscivano esclamavano: - Idoneo! -
- Idoneo! -
Finalmente arrivò il mio turno.
Mi fecero spogliare e il tipo col camicione bianco cominciò a visitarmi.
Avevo la fronte madida di sudore: ero a digiuno da ventiquattr'ore.
- Tranquillo, mi disse, è solo una prassi. Quando hai fatto domanda al tuo paese i colleghi già sapevano se eri idoneo oppure no. I raggi X te li hanno già fatti e l'esame del sangue pure. -
Era vero, era così.
Prima di partire mi avevano fatto i raggi e mi avevano cavato il sangue.
Il dottore mi fece rivestire e mi disse di sedermi alla scrivania lì accanto: c'era un collega suo, mi disse, che mi avrebbe fatto delle domande.
Il collega suo era un altro tipo col camicione bianco, gli occhiali e un'aria indifferente.
Mi fece delle domande del tipo:
“Come ti chiami? Quanti anni hai? Da dove vieni? Che studi hai fatto?” All'ultima domanda risposi con orgoglio: - Ho fatto tutta la scuola dell'obbligo! -
- Bene - rispose il tipo della scrivania, senza neanche sollevare lo sguardo occhialuto.
Poi mi fece l'unica domanda che a me parve sensata: - Perché vuoi arruolarti nella polizia? -
- Per vivere con unuri! -
Era quello che più o meno mi aveva detto mio padre.
- Bene. Idoneo! -

Uscii nel corridoio esclamando con orgoglio: - Idoneo! -
Ma nel corridoio non c'era più nessuno.
Arrivò un uomo in divisa: - Idoneo? - mi chiese con aria indifferente.
- Sì, signore! - risposi io con fierezza alzando il petto.
- Vai in camerata. Quella porta laggiù in fondo al corridoio. Ti assegneranno la branda e poi ti diranno cosa devi fare. -
Mi diressi alla porta laggiù come mi era stato detto.
La spalancai e vidi uno stanzone pieno di brande.
Tutti i miei compagni erano lì.
- Idoneo! - esclamai.
- Bene! - qualcuno mi disse.
- Buon per te! - disse qualcun altro.
- L'unica branda rimasta libera è quella! -
E mi indicarono una branda al secondo piano di un letto a castello addossato a un muro, lontano dalle finestre: non era un granché, ma era un inizio.
Sperai che mi dessero presto da mangiare.

Elisabetta Violani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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