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Autore: Martina Vaggi
Il diario del silenzio
Non Fiction
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Il diario del silenzio
Storie reali di quarantena.

Ospedale in Piemonte, 11 marzo 2020
Quarantena, giorno 4. - Il nuovo reparto Covid
In reparto tirava un'aria diversa quel giorno. Alessandra lo percepì non appena ne ebbe varcato la soglia. Era arrivata a lavoro all'una e mezza, come faceva ogni volta che doveva entrare per fare il turno del pomeriggio. Il parcheggio di fronte all'ospedale era pieno, così aveva dovuto cercare un posto alternativo, che le era costato un tempo minimo di dieci minuti in più.
Si era incamminata velocemente superando lo stretto ingresso laterale e dalla porta a spinta era entrata nel suo quotidiano mondo. Erano ormai cinque anni che svolgeva il lavoro di infermiera in quell'ospedale e ogni giorno era sempre più convinta e felice del suo percorso, nonostante i problemi e le difficoltà alle quali costantemente andava incontro.
Quel giorno di problemi sembravano essercene più del dovuto, però. Alessandra era conscia, come tutti i suoi colleghi, del periodo che il suo reparto e gli ospedali in generale stavano attraversando in quei giorni. L'allerta Covid-19 aveva scosso tutti, fin da quando si era sviluppato il primo focolaio in Cina: ma era in quelle settimane in cui era approdata anche in Italia che gli ospedali viaggiavano con un'allerta non da poco.
Questi e altri pensieri la tormentavano, quel giorno, mentre finiva di indossare la divisa nello spogliatoio. Si legò i lunghi capelli castani in una coda alta, come faceva di solito, mentre i suoi occhi scuri incontravano il suo riflesso nel piccolo specchio sopra il lavabo. Lo specchio le restituì uno sguardo stanco, incorniciato da un volto magro e grazioso. Voltò leggermente la testa di lato per ammirarsi meglio, mentre si sistemava la divisa sul corpo snello e asciutto.
“Dovrei proprio mettere su qualche chilo” pensò, mentre abbandonava il suo riflesso per dirigersi verso il corridoio del reparto. Mentre apriva la porta dello spogliatoio, vide una persona sfrecciarle davanti: era la caposala, che attraversava il corridoio a passo svelto. Era al telefono, notò subito Alessandra, ed era talmente presa dalla chiamata che nemmeno la notò.
La vide dirigersi verso la sala medicazione, dove gli infermieri di solito si radunavano e fu lì che Alessandra si diresse.
Entrò nella stanza con fare guardingo: la caposala era lì, seduta al tavolino con la schiena ricurva, i gomiti appoggiati al ripiano, la mano destra a reggere la fronte in una posa che sembrava dichiarare a gran voce il suo livello di stress e stanchezza. Il telefono nella mano sinistra, premuto sull'orecchio.
Appena la vide entrare, la sua caposala alzò la testa e le lanciò un'occhiata penetrante. Alessandra notò gli occhi cerchiati di nero, contornati da profonde occhiaie. Non disse nulla, ma continuò ad ascoltare ciò che l'interlocutore le stava dicendo al telefono. Ogni tanto annuiva, ma sempre senza proferire parola.
Alessandra la salutò con un cenno e andò alla macchinetta del caffè in silenzio.
Poco dopo entrò l'infermiere che aveva appena finito il turno: Alessandra prese consegna e timbrò, pronta a cominciare il turno.
Si stava dirigendo verso l'uscita che dava sul corridoio, quando, ad un certo punto, sentì la sua caposala chiudere la comunicazione. Si voltò verso di lei e la vide seduta con la testa fra le mani, perfettamente immobile.
“Mary?” la chiamò Alessandra, scandendo lentamente le parole: “Va tutto bene?”
Lei alzò la testa: “Sto continuando a ricevere chiamate” farfugliò, parlando più a se stessa che all'infermiera, “Non so cosa possa succedere, ora.”
Lo squillo del telefono interruppe il suo discorso: la caposala lo prese con mani impacciate, attaccando la chiamata al secondo squillo: “Pronto?”
Seguì una voce concitata dall'altro lato. Alessandra poteva
quasi sentirla, tanto alto era il tono che proveniva dall'altro capo del telefono. Ad un certo punto la caposala disse brevemente: “Certo, certo. Mi muovo subito” e attaccò la comunicazione.
Seguì un lungo silenzio, che Alessandra non osò interrompere, fino a quando non fu lei stessa a chiamarla: “Alessandra” la voce era poco più di un sussurro, “Chiama a raccolta gli altri colleghi. Falli venire subito qui.”
A questo seguì una veloce ricerca dei colleghi in corridoio. Ad Alessandra ci volle poco per trovarli tutti: erano in quattro quel giorno. Ne trovò due in una delle prime stanze, sulla sinistra del lungo corridoio: gli altri erano in pausa a fumare una sigaretta. Li chiamò tutti a raccolta e insieme tornarono in sala medicazione.
Al loro arrivo la caposala si alzò, un poco traballante dal tavolo. Passò in rassegna ognuno dei loro volti, senza vederli realmente. I suoi occhi erano aperti, in allerta, la voce trasudava preoccupazione ad ogni sillaba quando disse: “Iniziate a mettere via le cartelle dei pazienti nelle buste, che dobbiamo trasferirli nel reparto di sopra.”
Un lungo silenzio accompagnò le sue parole.
“Cosa...” fu il collega alla destra di Alessandra a parlare. Si chiamava Mattia, era un ragazzo di venticinque anni, poco più giovane di lei, mingherlino e con le lentiggini sul naso: la sua carnagione era olivastra, come quella di Alessandra e aveva un tono leggermente stridulo. “Perché dobbiamo...?”
“Non discutere, Mattia.” sbottò la caposala, interrompendo la sua domanda sul nascere, “La situazione non è delle migliori e richiede un intervento immediato. Dobbiamo trasferire subito i pazienti nel reparto di sopra. Qui vanno liberate le stanze per gli altri pazienti che arriveranno.”
“Quali... quali altri pazienti?” fu di nuovo lui a parlare e questa volta la voce gli tremò un poco.
Adesso non era più stridula, era acuta.
“Pazienti Covid.”
Silenzio. Un lugubre silenzio carico di terrore li avvolse tutti.
“Ma...” fu di nuovo Mattia a prendere parola. Adesso balbettava.
Alessandra gli lanciò un'occhiata di sbieco, mentre vedeva il volto della caposala farsi più pallido, man mano che i minuti passavano.
“Non c'è tempo” farfugliò, “Non possiamo stare qui a parlare, la situazione si sta aggravando velocemente.”

Il perché la situazione si stesse aggravando fu chiaro alcuni minuti dopo, quando un medico arrivò trafelato in reparto. Doveva aver corso perché aveva il fiatone. Entrò dalla porta della stanza proprio mentre la caposala si preparava per dare un'ulteriore girata di capo a Mattia.
Tutti gli infermieri si voltarono a guardarlo.
“Abbiamo settanta pazienti in pronto soccorso da ricoverare” disse il medico, la voce impastata dalla corsa, il sudore che gli colava dalla fronte. Si tolse gli occhiali quadrati e se li pulì sul camice. Poi alzò lo sguardo su ognuno di loro, mentre l'agitazione gli faceva alzare la voce come non era mai accaduto prima: “Vi aiuterò anch'io. Ma ci dobbiamo m-u-o-v-e-r-e! SU- BITO!”

Qualche minuto, non di più. Al medico occorse solo qualche minuto per dare precise istruzioni agli infermieri. In totale erano cinque e ognuno di loro si sarebbe occupato di cose ben precise: uno avrebbe dovuto prendere le cartelle dei pazienti e infilarle nelle buste, da portare al piano di sopra. Un altro avrebbe dovuto occuparsi dei pazienti del reparto, somministrando le terapie e svolgendo le quotidiane mansioni: l'altro avrebbe dovuto spie- gare ai pochi pazienti vigili che avrebbero dovuto spostarli. A tutti gli altri non occorreva spiegare nulla, in quanto erano sedatio non svegli.
Ad Alessandra toccò il compito di raccogliere tutti gli effetti
personali dei vari pazienti e metterli nelle loro valigie: poi avrebbe radunato il tutto e lo avrebbe portato su. Assieme a que- sto compito, avrebbe dovuto trasportare i letti dei pazienti al piano di sopra, portando con sé anche i monitor e le apparecchiature: il reparto che li avrebbe ospitati, infatti, non era predisposto per pazienti in condizioni così delicate, per cui non avrebbe avuto le macchine necessarie alla loro degenza.
“Chissà poi per quanto dovranno restare lì” pensò Alessandra mentre prendeva il primo carrello che si trovava a tiro e iniziava a buttarci sopra qualunque affetto personale trovasse nella stanza del primo paziente in cui era entrata.
I pazienti da spostare erano venti in tutto.
Alessandra non sapeva nemmeno lei da dove iniziare e il panico prese il sopravvento nel momento in cui dovette spostare il primo letto di un paziente sedato. Subito al suo fianco arrivò il medico, quello che poco prima aveva dato l'annuncio nella sala di medicazione.
Afferrò i manici del letto con una presa salda e disse: “Muoviamoci, forza.” Poi le fece l'occhiolino, forse per tranquillizzarla “Sei un po' troppo pallida, Ale. Stai calma e vedrai che ce la faremo.”
Alessandra non ne era così sicura. Soprattutto dopo che si rese conto di quanta strada avrebbero dovuto fare per trasportare tutti i pazienti di sopra.
Per arrivare all'ascensore, infatti, era necessario attraversare il corridoio del loro reparto, poi passare attraverso un altro e, infine, arrivare nell'atrio dove prendevano l'ascensore. Al piano di sopra, poi, il medico e Alessandra furono accolti dalla caposala e dagli infermieri dell'altro reparto. Lì fu loro detto dove sistemare i letti con i pazienti e sempre lì Alessandra e il medico presero i letti vuoti da portare di sotto, che avrebbero ospitato i malati Covid.
Al secondo giro in ascensore, Alessandra guardò il medico dritto negli occhi: “Tu ci credi che tutto questo stia realmente accadendo?”
Per la prima volta il medico non seppe cosa risponderle. Avevano ormai capito quanto grave fosse la situazione.
Ogni volta che Alessandra tornava nel suo reparto e ne percorreva il corridoio, guardava, di sfuggita, cosa stessero facendo gli altri e, ogni volta che i loro occhi si incrociavano per un fugace sguardo, vedeva in loro riflessi gli stessi sentimenti che, sicuramente, erano contenuti nei suoi: panico, paura, sgomento.
Nessuno di loro sapeva realmente a cosa sarebbero andati incontro.
Uno di loro dovette fermarsi nel reparto soprastante, quello che stava ormai ospitando i loro pazienti: fu Alessandra a scegliere di rimanervi, per allestire una “nuova” semintensiva (come quella presente nel loro “vecchio” reparto) che potesse ospitare al meglio i pazienti.
Nel frattempo, alcuni di loro avevano iniziato a non sentirsi bene e necessitavano delle solite cure di routine, che il loro lavoro richiedeva.
Erano ormai le sette di sera quando Alessandra iniziò questo lavoro di “allestimento”: due medici si fermarono ad aiutarla. Uno di questi era lo stesso medico che l'aveva accompagnata per tutta la giornata negli spostamenti dei pazienti. Tutti e tre fecero del loro meglio ma non riuscirono a finire prima delle nove. Fino a quell'ora, nessuno di loro tre sapeva cosa stesse succedendo nel loro “vecchio” reparto, dove sarebbero stati trasferiti i malati Covid.

Fu solo alle dieci di sera, orario in cui solitamente Alessandra dava consegna e se ne andava, che poté scendere a vedere cosa ne era stato del suo reparto.
Una volta raggiunto il corridoio, Alessandra vide una persona, in fondo. Doveva essere una sua collega, ma Alessandra non riuscì a riconoscerla perché era bardata da cima a fondo da una specie di tuta, più la mascherina, che lasciava intravedere solo gli occhi.
La sua collega la vide arrivare. Ci fu uno scambio di sguardi a distanza che sembrò durare un'eternità: poi, lei alzò la mano in un gesto di saluto, ma non c'era niente di felice o amichevole in quel gesto. Era, piuttosto, un “riconoscersi”, come un avvertimento, un constatare che entrambe, ora, si trovavano nella medesima situazione.
La cosa più strana, per Alessandra, fu il fatto che non sapeva chi la stava salutando. Non sapeva chi la stava guardando. Lo seppe solo più tardi, quando la sua collega le scrisse un messaggio al cellulare.
Alessandra dette uno sguardo attorno e vide un corridoio che non riusciva più a riconoscere. Le porte delle camere, di solito aperte, ora erano tutte chiuse. Al di fuori da ogni porta erano stati sistemati i comodini della degenza, con tutto il materiale per la disinfezione posato sopra: guanti, disinfettante, cerotti, gel per mani.
Alessandra si diresse verso la sala di medicazione. Una volta entrata, vide la sua caposala che stava preparando le cartelle dei pazienti Covid in arrivo. Lì Alessandra scoprì che il pronto soccorso ne era invaso.
Una volta che si fu cambiata uscì nell'atrio del reparto, si voltò e diede un ultimo sguardo al corridoio.
Il suo reparto, come Alessandra l'aveva conosciuto, ormai non esisteva più.

Martina Vaggi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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