Aprii gli occhi sollevandomi bruscamente dal cuscino, come chi annega si fa strada nell'acqua spingendo la testa oltre la superficie. Come chi, nel panico, si strappa dall'incubo. Respirai tanto a fondo che mi parve di esser stata in apnea per tutta la notte. Le lacrime iniziarono a scendere e tossii, ancora mi sentivo i polmoni allagati. Cercai di ricordare cosa fosse successo. Era stato questo: io stavo annegando. Stavo annegando anche se ero a letto, la stanza era piena d'acqua e gli oggetti fluttuavano, si scagliavano violentemente contro i muri spinti dalle onde. C'erano onde in casa. L'acqua doveva essersi ritirata se ero ancora viva, non c'era altra spiegazione. Coraggio di girarmi a guardare non ne avevo molto, ma di scelte non ne avevo, nemmeno. Accettai di aprire gli occhi, mi sollevai sedendomi sul letto; sì, l'acqua si era ritirata, ma la stanza era ancora allagata. Quando poggiai i piedi per alzarmi, mi accorsi che mi arrivava solo alle caviglie. Sembrava finita. Camminai per la casa in cerca della mia famiglia: non c'erano. Non mi ci volle molto a constatare che alcune porte erano state spazzate via, nemmeno sapevo dove fossero. Le tende alle finestre erano cadute, la carta da parati sui muri era rovinata e umida, le sedie spostate e le cose disseminate ovunque. Arrivai in cucina e nemmeno lì traccia di anima viva. Erano morti, pensai. Dovevano essere morti tutti o fuggiti, forse mi avevano lasciata lì ed erano andati via. Avevano fatto bene, pensai. Nel silenzio assoluto della casa ascoltavo solo i miei passi farsi strada a fatica nell'acqua calda. Strano che l'acqua fosse calda. A un tratto udii un rumore sordo, il suono di qualcosa che sbatteva. Sembrava lontano. Veniva sicuramente dalla porta dei vicini; chissà se lì qualcuno era sopravvissuto. Mi avvicinai all'ingresso ma mi accorsi che nel pianerottolo non c'era nessuno. Non era da lì che proveniva. Rientrai e, arrivata in corridoio, sentii quel rumore farsi frastuono. Quando vidi la porta del bagno tremare capii che qualcuno doveva esserci rimasto chiuso dentro, qualcuno di molto forte o di molto disperato. Una voce urlava “Esci di lì!” Non riuscivo a capirne il senso, era lui quello chiuso dentro. “Chi sei?” “Esci da lì ti ho detto!” fu l'unica risposta che ottenni. Chiunque fosse andava salvato; l'alluvione ci aveva travolti tutti, chissà da quanto se ne stava chiuso lì dentro. “Tranquillo, adesso ti faccio uscire”, abbassai la maniglia della porta e la aprii, senza difficoltà. Che bisogno c'era di fare tutto quel baccano, mi domandai, ma quando lo guardai trovai facilmente risposta. Fu lì che lo riconobbi. Se ne stava lì seduto nell'acqua a sbattere i pugni ovunque, se ne stava lì incapace di agire, come era sempre stato incapace di agire se non facendo rumore. Urlava alle avversità del mondo per mascherare la sua inettitudine, la sua cecità. Aveva quelle ossa sporgenti e la pelle bianca, quei capelli neri e quegli occhi vuoti. Non poteva essere nessun altro. “Cosa ci fai qui?” dissi avvicinandomi al suo volto, preoccupata per lui, come ogni volta mi ero preoccupata per lui. “Amore... io sono qui...” Attese un interminabile istante prima di finire la frase, preso dall'affanno. Io mi avvicinavo alle sue tremende occhiaie, mi avvicinavo alle sue labbra carnose e livide per accarezzargli il viso. “Cosa gli è successo per diventare così?”, mi domandai. “Quando l'ho conosciuto lui non era così.” “Perché sei qui?” gli chiesi ancora. Lo invitavo a continuare, non capivo il motivo della sua esitazione. La sua voce sibilante si fece strada in un bisbiglio: “Sono qui... per annegarti.” In un istante mi fu addosso, non feci nemmeno in tempo a gridare, soffocò ogni lamento spingendomi la testa sott'acqua. La spinse con tutte le sue forze, e con tutte le mie forze io spingevo per riemergere. L'acqua iniziò ad alzarsi, ad aumentare, e io iniziai a morire. Mi dimenavo per sopravvivere ma sembrava inutile, continuava a tenermi stretta: era più forte di me. Lui non era più forte di me, ma io credevo indiscutibilmente che lo fosse, e questo bastava a dargli il potere di uccidermi. Quando riuscii a riemergere e per un istante lo guardai, supplicandolo con gli occhi di risparmiarmi, del suo volto restava solo un'orribile ombra, aveva assunto sembianze mostruose. Non era più il ragazzo con un paio di stelle nel profondo degli occhi scuri, no, non era più il ragazzo dal sorriso di neve che brilla col sole. Non ne era rimasto niente, quel che vedevo sul suo volto era terrificante. Improvvisamente sentii quella porta sbattere di nuovo, questa volta dall'altro lato, lontanissima e poi sempre più vicina. “Esci di lì! Esci di lì ti ho detto!” Non era stato lui a parlare. Chiunque mi avesse cercata prima mi cercava ancora, voleva che uscissi di là. Non aveva alcun senso, ma ancora meno senso aveva pormi queste domande in punto di morte. Mentre annegavo, mi convinsi che stessero arrivando soccorsi. Mentre annegavo pensai che, presto, chiunque ci fosse dall'altro lato avrebbe sfondato la porta e il mostro sarebbe andato via, mi avrebbe lasciata andare, sì. Ero salva: la porta si spalancò, l'acqua defluì altrove, si ritirò di nuovo. Il mostro scomparve e tossendo riemersi dalla morte. Avevano dovuto forzare la porta, si erano accorti che non sarei più uscita di là. Quando mi trovarono in quella vasca da bagno non ebbero dubbi, e all'improvviso anche ai miei occhi bagnati tutto divenne chiaro. Avevo perso i sensi, avevo immaginato tutto, tranne quella voce che mi gridava di uscire dal bagno. La casa non si era allagata. Nessuno mi aveva spinto la testa sott'acqua, nessuno se non una parte di me, mentre l'altra si dimenava per sopravvivere alla mia scelta fatale. Mi assalì la più profonda disperazione. Ero salva per miracolo. Non avrei più tentato il suicidio, mai più, mi dissi, mai più.
Mentire a me stessa era così facile, visto che metà di me non ero più io.
Gennaio 2035
È un incubo che a volte ritorna, il mio passato. Passa qualche anno e una notte qualsiasi mi vedo affogare in quella vasca, rivivo il sogno nel sogno e mi sveglio due volte prima di esser sveglia per davvero. Non credevo che l'adolescenza si potesse ricordare bene come la ricordo io, e che sia un bene o un male proprio non lo so. “Quando sarai adulta e avrai una famiglia tua sarà tutto così poco importante” ti dicono quando sei ragazza, se stai male per qualcosa. Perché, se tutto diventa poco importante, mi ricordo anche di quella frase inutile, e, a questo punto, falsa? Guardare qualcosa con occhi diversi non è smettere di credere che sia importante. Ricordo quattro anni fa quando Martina mi ha afferrato la gonna e mi ha detto con gli occhi lucidi: “Mamma, io a scuola ho paura di andarci”: solo perché a casa mamma e papà parlano italiano ha paura che gli altri la trovino “diversa” da loro. Le ho spiegato che il primo giorno delle elementari è un giorno importante, e che le cose importanti sono sempre difficili. Ciò che conta è che poi tutto diventi più semplice, che ne valga la pena. Adesso è così piena di amici che a scuola ci va volentieri, tanto che se l'accompagno a piedi tira la mano come un cagnolino al guinzaglio. Mi domando perché da bambini si ha ancora la meravigliosa esigenza di tirare la mano, di spingere verso ciò che ci piace. Gli adulti non lo fanno mai. Gli adulti non camminano tenendosi per mano se non sono dichiaratamente amanti, o se lo sono da “troppo” tempo. Tantomeno spingono e tirano se il loro cuore ordina loro di correre in un luogo dove vogliono essere più di ogni altro. Bambina mia, averti mi ha insegnato così tanto sull'amore, e su quanto la generazione che ci divide sia un peso che ho voglia di togliermi dalle spalle quando si tratta di imparare la felicità da te. Tua madre non è mai stata esattamente un grande esempio di gaiezza e felicità: in compenso, mi è sempre piaciuto tenere gli occhi aperti dinnanzi alla bellezza del mondo, lasciare mi facesse innamorare con facilità estrema. Quando hai tirato la mia mano per la prima volta ho capito che non dovevo opporti resistenza, che non dovevo insegnarti l'arte della calma e della posatezza: ho capito che chi doveva imparare qualcosa, quel giorno, ero io, e che se le mie scarpe col tacco sono troppo scomode per permettermi di correre al tuo fianco, allora è meglio indossare qualcosa di più comodo.
Mia figlia adora andare a scuola, adesso. Penso che lei ricordi la paura che ha provato il suo primo giorno, non ha smesso di essere un giorno difficile, non ha smesso di essere importante solo perché adesso la scuola le sembra una cosa bellissima. Quello che superi non diventa insignificante una volta lasciato alle spalle, diventa una parte della tua forza, e per me dimenticare è vanificare le lezioni che ho imparato. Quindi a mia figlia non dirò mai che quello che sta vivendo, un giorno, le sembrerà una sciocchezza. Le dirò che un giorno lo sfoggerà, portandolo addosso come una pietra preziosa che nessuno le potrà mai portare via. Una catena d'argento che andrà periodicamente lucidata, per poterla preservare in tutta la sua bellezza. Le insegnerò il valore delle cicatrici e il fascino che si concentra nella loro unicità. Le insegnerò l'arte del non dimenticare nulla, nemmeno ciò che “non avrà più importanza”.
La sera è sacra per noi, è un rituale irrinunciabile. Senza una favola non si addormenta. Si mette sotto le coperte e ogni volta sceglie cosa vuole ascoltare dei mille libri che abbiamo in casa. Suo padre è un uomo affezionato alla carta, nonostante i tempi che corrono, e così anch'io. Mi alzo e prendo il suo libro preferito, quello che sceglie almeno una volta al mese e ogni volta sento che se lo gode come fosse la prima. “Lo leggiamo di nuovo?” le chiedo, mi fa di no con la testa. “Scegli tu!” le dico. “Mi racconti una storia nuova?” “Vediamo... l'abbiamo mai letto questo?” “Sì, li abbiamo finiti mamma.” “Se vuoi domani ti porto in libreria e ne scegliamo di nuovi. Cosa ne pensi?” Gli occhi le si illuminano all'idea. “Ma stasera non mi racconti niente?” “Non so cosa raccontarti tesoro.” “Inventa una storia!” Non me lo aveva mai chiesto prima. Ci penso un po'. Il ricordo di me che affogo mi pervade. Perché lo sto vedendo adesso? Non racconterei mai qualcosa del genere a mia figlia di nove anni. Sarebbe una cosa da pazzi. È un istinto egoista, quello che ho avuto con l'insorgere di quel ricordo. Cosa sta cercando di dirmi il mio cervello? Che avrei bisogno di raccontare quella storia a qualcuno, in questo momento? Che forse potrebbe darmi sollievo dalla pesantezza che mi ha dato il suo brusco riemergere, stamattina? Non molto tempo fa pensavo al valore di lucidare l'argento per non perderne la brillantezza. Ma chi ho davanti adesso non è un'amica, né una terapeuta: è mia figlia, e non è mio compito confidarmi con lei, bensì essere colei con cui potrà confidarsi. Eppure, una parte di me vorrebbe solamente che lei sapesse; raccontarle ogni cosa, così che non cada nei miei stessi errori, così che sappia che la vita può essere strana e difficile, ma così come per le cose che contano, l'importante è che ne valga la pena. Mi guarda e con aria delusa e mi spiazza: “Nessuna storia stasera?” “Se ti raccontassi una storia diversa? Una storia per grandi?” “Sì! La voglio sentire!” “Posso fare un tentativo. Ma non ti devi spaventare: certe storie per grandi non sono fatte per regalarti tanti sorrisi, come quelle che abbiamo letto finora”. “E per cosa sono fatte?” mi chiede. “Per farti riflettere su qualcosa. Su come funziona il mondo. Su come funzionano le persone.” “Non fa niente, so che ci sono storie che finiscono male, però sono belle lo stesso. Sono pronta!” “Non credo che questa storia finirà male...” mentre lo dico un flash del mio volto sott'acqua mi attraversa la mente, e mi sono resa conto di non essere poi così certa di quale sarebbe stato il finale. Ho schiacciato l'orrore nel petto, l'ho guardata negli occhi e ho sorriso. Ho raccolto ogni pezzo e iniziato a raccontarle una favola diversa da tutte le altre. La favola vera che ha vissuto sua madre. Racconto, Gennaio 2035
“C'era una volta una ragazzina con gli occhi vuoti. Viveva in una casa lunga e stretta, in una famiglia lunga e stretta, in una vita lunga e stretta. In quei corridoi esigui non c'era spazio per la sua creatività, non c'era spazio per la disobbedienza. Un percorso già tracciato e sempre uguale: era la casa dove aveva visto la sua libertà appassire. A lei piacevano le case degli altri, quelle circolari, quelle dove i posti a tavola non erano fissi, dove qualche volta si riusciva anche a dire: “Ma che importa?” davanti a quelle cose che non importavano. Persino la sua famiglia era composta da gente lunga e stretta, tutti convinti di essere detentori della verità, ossessionati da un ordine che pareva provenire da un piano “superiore”, come se vivere fosse combaciare con lo stampo che qualcun altro ha preparato per te. Sapeva che il suo destino sarebbe stato quello di scappare via. Non avrebbe mai lasciato che quelle mura la schiacciassero: lei aveva un sogno, un piccolissimo sogno che un giorno aveva seminato in una terra sterile e che ogni notte innaffiava con le sue lacrime, alimentava con le sue preghiere, sottovoce per non farsi sentire. Il suo sogno era di toccare il cielo, correre lontano dove nessuno avrebbe mai potuto ritrovarla, non dover mai più contare i passi ed essere in ordine per nessuno. La sua era un'ansia di infinito, un desiderio di grandezza e profondità, di eterno. Voleva scoprire come ci si sentisse ad avere dentro qualcosa di così immenso da non poterlo contenere, qualcosa che non riusciva a trovare nei libri che leggeva prima di dormire, qualcosa che non avrebbe mai imparato tra i banchi di scuola, tanto meno nella sua casa lunga e stretta. Voleva essere libera di dire e di raccontare, di raccontarsi per ciò che veramente era; così aveva cominciato a scrivere un diario, le cui pagine si erano riempite tanto in fretta da necessitare sempre nuovi spazi. Fu a lui e solo a lui che confessò di aver sentito il richiamo dell'infinito. Solo lui seppe che una parte di lei era già fuggita, tanto lontano da non poter più ritornare, tanto lontano da essersi persa. Solo lui seppe quanto lei fosse felice di non ritrovare più la strada di casa. Quella parte di lei era svanita in una foresta. Sulla sua testa s'incontravano le fronde, i rami più alti oscuravano il cielo e nessun tetto le era mai stato più caro di quello. Quando trovò il posto che stava cercando non poteva crederci: in una radura si apriva un grande lago, la sua acqua era illuminata dal chiaro di luna e le pareva un sogno. Decise che da quel giorno avrebbe vissuto lì. Non sarebbe mai più andata via: anche se il suo corpo era a casa nei suoi corridoi stretti, la sua mente sarebbe sempre ritornata in quella fantasia, in quella radura nel cuore del bosco dove finalmente sarebbe stata sola, dove sarebbe stata libera di respirare e di essere. Divenne il suo rifugio, la sua evasione, il suo luogo magico, e magie vi accadevano davvero quando lei ci andava. Un giorno, mentre se ne stava ad osservare la quiete del lago, qualcosa ruppe il silenzio. Dall'acqua fece capolino un grosso pesce. Era aggraziato e maestoso, le sue pinne lunghe e trasparenti. Il modo in cui si muoveva faceva pensare a una danza fluttuante, bastò poco perché la sua bellezza la stregasse. In quel magico luogo, dove tutto era possibile, la ragazzina riusciva a comunicare con ogni creatura: il pesce le chiese da dove venisse, del suo passato, e così lei narrò della sua vita nella casa lunga e stretta, di quanto avesse bramato l'immenso prima di giungere lì, di come sentisse di esserci ormai sempre più vicina. A sua volta il pesce le raccontò la sua storia, le disse di conoscere un passaggio che collegava il lago al mare, le descrisse le meraviglie degli oceani, delle loro profondità ignote. Solo ad immaginare l'incanto di quel mondo che il pesce le descriveva, si sentiva il cuore scalpitare nel petto. Ogni volta aveva nostalgia di quegli abissi che nemmeno conosceva, desiderava ardentemente essere uguale al suo nuovo amico: nell'immensità lui fluttuava come una piuma, leggero e libero, così come lei aveva sempre sognato. “Ti dirò un segreto”, le disse il pesce un giorno. “Chiunque incontrerai in questo luogo potrà esaudire un tuo desiderio, io stesso posso. Se lo vorrai ti farò diventare come me.” Lei allora non esitò a dire: “È ciò che più desidero al mondo!” e così, in un istante, il pesce la tramutò in una splendida sirena. Passò un tempo indefinibile, che era solo suo e del suo amico, un tempo che non è scritto da nessuna parte se non nel cuore, e i due ancora abitavano insieme le profondità del lago, lo esploravano in lungo e in largo, e s'innamorarono entrambi per la prima volta. La sirena però non poteva arrivare al mare, lo capì presto. Il pesce le spiegò solo dopo averla tramutata che il passaggio era troppo stretto per lei. Questo portò qualcosa tra loro a incrinarsi, per poi rompersi. E se la scelta di trasformarla in sirena e non in pesce fosse stata voluta proprio per questo? Per impedirle di poterlo seguire al di là dei confini del lago? C'erano giorni in cui lui se ne andava per quella strettoia e tornava dopo molto: lei se ne stava ferma ad aspettarlo confidando ogni volta nel suo ritorno. Un giorno, stufa, gli chiese di ritrasformarla in umana: conosceva alla perfezione il lago, ormai; non sarebbe potuta arrivare al mare e si sentiva tradita dal suo solo compagno, con cui condivideva quel posto così speciale. Il pesce le rispose che non era possibile, che il desiderio che aveva a disposizione era già stato esaudito, lo aveva già sprecato. Poco dopo venne il giorno in cui il pesce, senza avvisarla, senza spiegarle, decise di non tornare mai più indietro dal mare. La sirena si ritrovò prigioniera del suo lago, sola e con il cuore spezzato. I giorni erano vuoti e la vita di nuovo triste: capì di essersi fatta ingannare, si domandò a lungo come avesse potuto essere così ingenua, così impulsiva e stupida. Soffriva molto. Tutto le sembrava perduto, fino a quando non vide giungere una nuova creatura nella sua vita.”
Martina è sulle spine ed eccitata, anche se di solito a quest'ora letteralmente crolla. “E chi era? Chi era la creatura? Non me lo dici?” “È tardi adesso, devi andare a dormire”. “Ma uffa! Domani continui però, vero?” “Domani ti racconto il resto, un pezzetto al giorno. Che ne dici?” “Va bene...” farfuglia, mentre si addormenta.
Alex Ombre
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