La sveglia emise un suono gracchiante simile a quello di una cornacchia e spezzò brutalmente il suo sonno profondo. Si svegliò con una smorfia e un'imprecazione silente. Non si ricordava mai di selezionare quel dannato apparecchio sulla modalità radio; una musica armoniosa sarebbe stata meno irritante. Schiacciò con rabbia il tasto di spegnimento e affondò il viso nel cuscino. Aveva bisogno di qualche secondo, o forse minuto, per riprendere contatto con la sgradevole realtà e tentare di esorcizzarla, almeno in parte. Sgradevole, era un eufemismo. Sollevò il capo e prese a pugni il guanciale, quindi ci si tuffò di nuovo annegandovi un aborto di singhiozzo. Si alzò di scatto ed entrò in bagno. Era un locale minuscolo e doveva fare attenzione a come si muoveva per non prendere colpi contro i sanitari o la cabina doccia. La sua pelle si copriva facilmente di lividi che impiegavano molti giorni per scomparire e odiava avere l'aria pesta di chi è stato picchiato. Che buco infame, questo alloggio. Imprecò. Ho dovuto fare tutto di corsa ed è l'unico che abbia trovato. Aprì il getto della doccia e lo fece scorrere al massimo della potenza. Lasciò scrosciare l'acqua bollente sul corpo finché divenne quasi ustionante, nel tentativo di sopraffare la sofferenza dell'anima con quella fisica, ma non resistette e si allontanò strillando, la pelle vermiglia. Girò il miscelatore su una posizione più accettabile e il getto divenne freddo. Rabbrividì, maledicendo di nuovo. Quando uscì dal minuscolo bagno con l'accappatoio addosso, andò a guardare fuori dalla finestra dell'unica stanza che componeva l'appartamento: una camera soggiorno con angolo cottura a vista. Alla luce dei lampioni ancora accesi, scorse la strada tutta imbiancata; a giudicare dallo spessore, doveva aver nevicato per qualche ora, anche se al momento non scendeva nulla. Lo squillo del cellulare ruppe il silenzio e la fece sobbalzare, allertando i battiti cardiaci. Corse al comodino su cui l'apparecchio si trovava in carica e, quando vide il nome del chiamante, ebbe l'istinto di lanciarlo per terra. Maledetto. “Mina, devi venire subito.” Neanche ciao, buongiorno. Non cambia mai. “Si tratta di una faccenda molto urgente.” La voce di Stig era concitata. “Non sono ancora in servizio, a quest'ora” sbottò, acida. “Non dimenticarti che io sono solo un agente e tu il commissario.” “Sì, ma ho bisogno di te. Mi devi accompagnare alla chiesa di Sant'Olav. Ė accaduto un fatto grave.” “Perché proprio io?” Ribatté, sempre più acre. “Perché tu sei brava” sospirò. “Dai, Mina, non fare la stronza e muovi le chiappe!” “Lo stronzo sei tu, caro mio. Ed è un complimento, nel tuo caso! Non ti vergogni di quello che hai fatto?” “Per favore, adesso non è il momento di discuterne. Ti aspetto entro pochi minuti.” Troncò la comunicazione e Mina, che aveva un esercito di male parole pronte ad esplodere dalla bocca, dovette ingoiare tutto; respirò a fondo più volte per recuperare la calma. Avrebbe voluto mandarlo al diavolo e non farsi vedere mai più, ma non poteva permettersi di perdere il posto ed era conscia di non avere competenze per aspirare ad altre occupazioni, senza contare che quello era l'unico lavoro che le piacesse. L'estate precedente, dopo la soluzione del caso in cui aveva scoperto la tragica verità su sua madre, aveva vissuto qualche giorno di intensa passione con Stig, ma alla fine si era convinta che non fosse l'uomo adatto a lei e aveva rifiutato la sua proposta di trasferirsi a Oslo e di vivere insieme. Era quindi tornata, sebbene col cuore a pezzi, al suo lavoro di poliziotta a Tromso. Prepotente e maschilista, rigido come un pezzo di ghiaccio; mai una manifestazione affettiva. Il pensiero che, nel massimo disprezzo delle sue decisioni, l'avesse avuta vinta, la faceva fremere d'ira. Con la sua solita arroganza da padre eterno, è riuscito a realizzare quello che mi aveva proposto, benché gli avessi detto di no. Beh, non tutto. Mi ha costretta a venire a Oslo, ma non andrò mai a vivere con lui. Per quello, può crepare! Non c'era tempo sufficiente per preparare niente, inoltre la rabbia le aveva tolto l'appetito e rinunciò alla colazione. Si vestì in fretta, accompagnando i suoi gesti con una serie di invettive e insulti pittoreschi. Uscì nel gelido buio del primo mattino e rabbrividì, avvolgendosi la sciarpa attorno al collo. Stava obbedendo, suo malgrado, agli ordini superiori, mentre malediceva in cuor suo quel superiore. Il suo mini appartamento si trovava nel quartiere multietnico di Gronland ed era a due passi dalla centrale di polizia; l'unico pregio che avesse, a parte il fatto che non si sentiva affatto tranquilla con i disordini che erano all'ordine del giorno in quella zona, dovuti a cellule di immigrati che rifiutavano l'integrazione. La polizia aveva perso il controllo della situazione e questo era preoccupante. Sono un agente, si disse, non devo avere paura. Balle. Disarmata, sono una ragazza come le altre, pensò con scorno. Era tanto furiosa con Stig che si augurò per un attimo di essere aggredita, solo per farlo sentire terribilmente in colpa, e si sentì molto stupida. Ha ragione a dire che mi comporto come una bambina capricciosa, dovette ammettere a se stessa. A volte, ma non sempre. Si ripromise di cercare un alloggio altrove appena ne avesse avuto il tempo. In cinque minuti arrivò a destinazione.
Sant'Olav
“Eccoti, finalmente!” Quel tono bastava da solo a indisporla, come se non lo fosse già. Stig non le diede neppure il tempo di replicare; con un balzo, saltò nell' auto che attendeva fuori e lei lo seguì, muta. Fu costretta a trattenersi per tutto il tragitto a causa della presenza del poliziotto alla guida e si chiuse in un cupo silenzio immusonito. Dal canto suo, Stig non le rivolse la parola e Mina lo odiò in silenzio. Grazie alla moderata estensione della città e all'orario molto mattutino, il viaggio fu breve e senza intoppi. L'auto percorse velocemente Akersgata, una via diritta e lunga, fiancheggiata per lo più da edifici governativi, a quell'ora semi deserta. Senza usare la sirena, in breve raggiunsero la cattedrale cattolica dedicata a Sant'Olav, il re vichingo che, conosciuto il cristianesimo durante un'invasione in Inghilterra, lo portò in Norvegia nell'anno mille, imponendolo con la forza ai pagani. La cattedrale in stile neogotico, situata nella zona nord della città, sorgeva su un terrapieno, in posizione dominante. Era imponente nella sua semplicità: muri di mattoni rossi, campanile alto e slanciato, grande scalinata. Quando ne era stata completata la costruzione, a metà ottocento, la zona era aperta campagna, ma ora si trovava in pieno centro. Mina ricordò di esserci stata in visita culturale con la scuola, tanti anni prima. L'insegnante aveva declamato a lungo; si era soffermata sull'architettura e aveva raccontato aneddoti vari, compresa la storia delle reliquie di Sant'Olav, esibite in un'urna all'interno della cattedrale. Nozioni ascoltate distrattamente e dimenticate in fretta. Il guaio era venuto dopo, quando l'insegnante aveva chiesto una relazione scritta di quella visita e Mina si era portata a casa un pessimo voto. Negli anni seguenti le era capitato spesso di passare da quelle parti; avendo trascorso gran parte della sua vita a Oslo, nulla le era nuovo in quella città. Ora lo scenario era diverso dal solito: era ancora buio e le macchine della polizia con i lampeggianti accesi che riverberavano sulla neve formavano una specie di corona bluastra e surreale lungo la parte anteriore dell'edificio. I nastri di plastica delimitavano la zona da non oltrepassare. Pochi curiosi erano fermi a guardare al di là della recinzione, controllati da alcuni agenti. Stig balzò fuori dalla macchina insieme con Mina; esibirono il tesserino per entrare nella zona vietata e salirono alla svelta i numerosi gradini. Sulla pavimentazione del sagrato sporgeva una massa biancastra che aveva l'aspetto di un corpo umano. La neve era stata loro nemica, ricoprendo tutto col suo lenzuolo bianco. Si avvicinarono. Dal poco che si vedeva, il cadavere appariva di sesso maschile. Le guance incavate, la magrezza spettrale e la pelle rinsecchita davano l'impressione di un uomo morto di stenti. Portava al collo una strana collana: una cordicella che tratteneva a guisa di ciondolo un sacchettino di plastica, di cui la neve non lasciava distinguere il contenuto. “Non toccarlo” intimò Stig a Mina. “Credi che sia nata ieri?” Sibilò tra i denti. Sono anni che faccio la poliziotta e mi parla come se fossi un'idiota! Il commissario, munito di guanti di lattice, scostò un velo di neve dal viso cereo dai lineamenti aguzzi, messi in risalto dalla retrazione della pelle e dall'assenza di tessuto adiposo. Già, voleva toccarlo solo lui! Allora, perché mi chiama? Devo fare il valletto che gli regge lo strascico? Borioso e detestabile! Con occhi astiosi seguì i suoi movimenti: Stig ripulì il sacchetto dalla neve e lo sollevò dal petto del cadavere. Mina si voltò bruscamente dall'altra parte e premette una mano sulla bocca, che si riempì di succo acido. Per fortuna non ho fatto colazione, pensò, spaventata dal pensiero di quello che sarebbe successo a stomaco pieno. Ripulì il palmo con un fazzoletto che nascose in tasca e si sforzò di assumere un'aria indifferente. Non era dignitoso per un agente di polizia vomitare davanti a tutti, anche se accadeva non di rado, di fronte a certi scenari. Il guaio era che questa volta c'erano degli spettatori al di fuori del corpo di polizia; stava dando spettacolo. Confidò nel buio, che la luce dei lampioni non spezzava del tutto. Stig, imperturbabile, contemplò l'occhio umano chiuso nel sacchetto trasparente e solo allora Mina si rese conto che c'era qualcosa di mostruoso in quel viso spettrale che la neve aveva riempito e in parte camuffato: un'orbita vuota.
Marialuisa Moro
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