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Autore: Francesca Pompili
Solo il tempo di un racconto
Romanzo
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Solo il tempo di un racconto
Un raggio di sole colpiva il mobile alto, laccato di bianco.
Cercava di metterlo a fuoco, ma la luce era insopportabile.
Chiuse per un attimo gli occhi.
Si sentiva confusa.
C'era un odore pungente nella stanza, e quello strano dolore al petto, profondissimo, come se avesse dentro un fuoco che non voleva saperne di spegnersi, che lei cercava di tenere a bada stando sdraiata immobile.
Provò a prendere piccole boccate d'aria, ma anche quelle entravano bollenti e non davano sollievo.
Spostò lo sguardo a fissare il soffitto, bianco.
E finalmente tornò alla realtà e alla sua grande, accogliente, bianchissima casa.
Forse sono caduta giocando, pensò.
Sì, doveva essere andata proprio così.
Tentava di respirare, mentre sentiva rumori lontani di mani indaffarate, di corse, di voci concitate: ogni cosa giungeva alle sue orecchie in modo ovattato.
“Mamma... papà... Mariuccia...” chiamò con un filo di voce.
Era certa che sarebbero arrivati presto, prestissimo, e mamma le avrebbe portato una tazza di latte caldo, papà le avrebbe tenuto la mano e le avrebbe raccontato una storia per distrarla, mentre la medicavano.
E Mariuccia ... beh, Mariuccia si sarebbe preoccupata troppo, come al solito e, seduta accanto al suo letto, non si sarebbe più mossa di lì finché lei non fosse tornata a giocare.
Doveva solo pazientare un pochino, poi sarebbero venuti a prenderla.
Si trattava solo di aspettare, e lei sapeva aspettare.
Era sempre stata una brava bambina.
Finalmente sentì una voce insistente: “Rosa! Dove sei? Rosa! Rosa!”


“Rosa! Rosa!”
Rosa era in ginocchio sulla vecchia sedia di legno di mamma Lorenza, con i piedini, coperti dalle scarpe bianche e dalle calzine con il risvolto di pizzo, lasciati a penzoloni.
Il sole di maggio era già alto in cielo e presto il caldo sarebbe stato soffocante. Ma a quell'ora del mattino, la stagione regalava ancora una leggera brezza che le accarezzava i morbidi boccoli e il grembiule immacolato.
Il terrazzo era il tetto di una casa bianca come la neve, la più alta di tutta la borgata e stare lassù era come dominare il mondo intero.
Una buona parte della sua vita trascorreva lì a contatto con il cielo: aiutava la mamma a stendere i panni, giocava con le sue sorelle, aspettava di vedere gli amici arrivare dai viali, osservava il paesaggio e fantasticava.
Il viso esposto al calore delicato, con la pelle chiarissima e quasi trasparente, le manine una poggiata sul davanzale e l'altra a proteggere gli occhi dalla scia dorata del riverbero del sole, Rosa guardava il mare, quel pezzo di mare che conosceva come conosceva le sue tasche.
Il golfo ampio, aperto, permetteva allo sguardo di spaziare tra i mille colori di quel tratto di costa.
C'era il giallo delle sterpaglie bruciate dal sole che si alternava all'argento delle chiome degli ulivi, con i loro tronchi stanchi e ritorti e i piedi piantati in zolle di scura terra che a quell'ora pareva già assetata.
I vialetti si snodavano bianchissimi, costeggiati da muretti a secco di vecchie pietre grigie ed irregolari, da cui spuntavano ciuffetti d'erba e persino fiori di un viola intenso o margherite piccole e profumatissime.
E l'orizzonte, con il blu del mare che si tuffava nel celeste del cielo, ma che nelle giornate di tempesta perdeva i contorni per diventare oscuro presagio.
Nemmeno una nuvola si vedeva in quell'immenso.
Rosa puntava lo sguardo lontano e strizzava gli occhi per riuscire a vedere, ma non c'era nulla. Solo la distesa blu e qualche peschereccio con un andamento lento e sonnacchioso, come di chi era a bordo ed aveva passato la notte al largo sperando di riempire le reti.
Ogni tanto la mente si perdeva, immaginando quello che c'era oltre il mare, sulla Penisola.
E il cuore prendeva a batterle forte.
Immaginava città immense, donne con vestiti e cappelli, negozi pieni di oggetti colorati e cibi strani da assaggiare. E chissà, magari anche i draghi, che aveva visto in qualche illustrazione nell'abbecedario.
E poi la nebbia. Non poteva che pensare alla nebbia con orrore: ne aveva sentite di storie spaventose, nei suoi sette anni, ma niente paragonabile a quella.
Pietro, commerciante di tessuti, una mattina di due mesi addietro, sul finire dell'Inverno, era arrivato, puntualissimo, per mostrare a mamma pizzi e nastri, così che lei potesse far preparare il guardaroba estivo delle figlie.
Era entrato elegante, con il fazzoletto bianco al taschino del doppiopetto grigio, con quel suo passo leggero ma rapidissimo, di chi è abituato a dover percorrere molta strada.
Piegato sulla sua valigia di pelle marrone, i baffetti arricciati alla moda, il naso con una curva accentuatissima, le mani quasi femminee e l'anello d'oro al mignolo, dove l'unghia era lunga e stretta, si fermò e sgranando gli occhi guardò Lorenza:
“...e questi!” aveva detto, fermandosi poi per una delle sue studiate pause ad effetto: “Queste sono una ra-ri-tà” e tirò fuori dalla valigia degli splendidi merletti beige. “Vengono da Milano, Signora Lorenza, Mi – la- no!”
Lorenza, imperturbabile, sorrideva.
“Eeeh, Donna Lorenza, non la prenda a giuoco! Una città da perderci la testa. E poi... la nebbia... vedesse lei... che roba... un muro! Dappertutto! Un muro bianchissimo! Non si vede niente!”
Rosa era in un angolo a cucire ed era rimasta a bocca aperta.
Muri altissimi che si perdevano fino al cielo. Invalicabili. Mostruosi.
‘Ma come fanno i bambini a giocare a Mi-la-no con tutti quei muri? Ma come è possibile andare da un posto all'altro? Ma che? La testa sbattono? Ma come fanno?'
Il solo pensiero le metteva i brividi. Meno male che lei non sapeva nuotare e non correva il rischio di arrivare sulla terraferma.
“Rosa! Rosa! Rosa, che fai? Ancora lì sei? Rosa!”
Rosa si girò, gli occhi azzurri piccoli e sorridenti.
“Mariuccia, che c'è?”
“Rosa, ma come che c'è? Babbo aspetta! Il mercato!”
“Uh, Santa Rosalia!” urlò mettendo la manina davanti alla bocca.
Come aveva potuto scordarsi?
Era il grande giorno del giro al mercato con papà! Rosa ridendo corse dalla sorella, la prese per mano e si misero a scendere velocemente gli scaloni di pietra della loro grande casa.
Arrivate all'ultima rampa rallentarono di botto. Diedero un'aggiustatina agli abitini e al grande fiocco bianco che portavano tra i capelli e poi proseguirono piano piano.
“Brave le mie donnine!”
Mamma Lorenza era in cucina “Grazia figlie mie. Grazia. Questa ci rende vere signore. L'eleganza e la grazia devono accompagnare i vostri gesti.”
Le sorelline si guardarono con un sorriso complice.
“Sì mamma!” dissero in coro.
Le diedero un bacio per ciascuna guancia, poi presero il fazzoletto e come ogni mattina fecero per uscire guardando oltre le spalle senza darlo a vedere e rallentando il passo.
Carolina, che era nella cesta della biancheria a giocherellare con vecchi stracci, lanciò un urletto per richiamare la loro attenzione.
“Lina bella! Ti abbiamo fatto lo scherzo!” e tornarono indietro a strusciare i nasi sul viso della sorella fino a farla ridacchiare di gusto.
Sorridendo felici uscirono dalla casa, mentre i gridolini di gioia di Carolina risuonavano fino all'uscio.
Babbo Francesco le attendeva fumando una sigaretta e guardando il cielo, pensieroso, con il cappello in mano.
Basso di statura, con i capelli pettinati di lato, due baffetti sottili impomatati e gli occhi celesti dal taglio allungato e leggermente all'ingiù, uguali a quelli di Rosa.
Nemmeno il torrido avvio d'estate poteva impedirgli di vestirsi in modo impeccabile. La camicia bianca con il colletto inamidato, la catenella dell'orologio che usciva dalla tasca del panciotto, il fazzoletto ricamato con le sue iniziali nel taschino.
Scarpe scure, lucidissime.
“Buongiorno signorine Fontana” disse sorridendo, mentre spegneva la sigaretta sotto al tacco della scarpa.
Le due bimbe fecero un piccolo inchino. E lui si sciolse come neve al sole.
“Cuori miei!” e se le strinse al petto.
“Presto, presto, ora andiamo che devo tornare al lavoro e mamma aspetta la spesa!”
Le prese per mano pieno di orgoglio e si incamminò verso la carrozza.
Con le manine infilate nelle mani grandi e calde del loro papà, Maria e Rosalia si sentivano padrone del mondo.
Se avesse potuto, Rosa non avrebbe sciolto quella stretta per nessuno motivo al mondo.
Si avviarono con piccoli passetti svelti: papà doveva tornare presto in bottega e al forno, perché il pane era già sfornato e a quell'ora c'era il pienone, tra mafalde calde e brioche col tuppo. I garzoni erano bravi, ma, come ripeteva sempre Lorenza, meglio ci fosse anche lui, perché la gente fa presto ad approfittarsi dei giovani e far sparire merce e guadagni.
E poi bisognava affrettarsi, perché Palermo a quell'ora era già sveglia, vivace e colorata e gli affari si fanno la mattina presto.
Dalle bancarelle del mercato vociavano i venditori di canditi, di frutta secca, di spezie.
I bambini correvano dietro a palloni di stracci e cerchi, pochissimi con la preoccupazione della scuola, e molti con le tasche piene di biglie da giocarsi all'ultimo sangue alle bische.
“Buongiorno don Francesco, buongiorno signorine.”
“Buongiorno Peppe, buongiorno donna Lina” risposero loro.
“Bambine, diciamo buongiorno a frate Ferdinando!”
“Buongiorno frate Ferdinando”
“Buongiorno care, buongiorno” e via così, per tutto il percorso.
Rosa sorrideva con garbo a tutti, Maria il più delle volte faceva finta di non sentire.
Ogni tanto qualcuno si avvicinava a parlare a voce bassa bassa col babbo. Le bambine non capivano cosa si dicessero.
Poi Francesco sospirava e diceva: “Va bene, va bene. Anche per questa volta a credito. Ma settimana prossima mi dovete pagare!”
“E che no? Ma certamente, certamente. Mio marito ritorna, sapete? E pagheremo. Baciamo le mani Fontana.”
“Non serve, non serve...”
E il babbo proseguiva, per un attimo incupito. Rosa lo osservava e gli stringeva la mano un po' più forte.
Le donne alle bancarelle, chi con bimbi al collo e chi appesantita dagli anni, con le sporte al braccio e il portamonete in bella vista in mano e a volte sventolato in aria, trattavano il prezzo urlando più dei mercanti. Era uno spettacolo di smorfie, gesti, parole gridate e finte rinunce, finchè l'accordo veniva trovato.
Le bambine, abituate alla quiete della loro borgata, erano un po' frastornate.
Profumi, colori, rumori di voci e di tonfi, odori terribili (Rosa detestava il puzzo del merluzzo essiccato) e sceneggiate da finimondo riempivano orecchie e nasi.
Mele rubate, scaramucce tra innamorati, secchiate d'acqua che volavano fuori dalle porte aperte, notizie urlate da una finestra all'altra da donne intente a stendere i panni tra i fili appesi.
Rosa aspettava con ansia il giorno del mercato e quando, ogni tanto, papà acconsentiva a portarle con sé, Rosa non si lasciava sfuggire nulla e si godeva ogni attimo.
Maria invece si faceva coinvolgere dalla gioia di Rosa, perché fosse stato per lei, se ne sarebbe stata anche volentieri a casa a rammendare.
Le sorelline trotterellavano, pregustando il sapore delle caramelle, quando all'improvviso, dalla bottega del macellaio, iniziarono a levarsi strilli e parole così oscene, che Francesco tappò subito le orecchie alle figlie, aumentando il passo.
“Ti squarto con queste mani!”
“Farabbutto... mi volevi futtiri?!”
“Minchia levatemelo... levatemelo che l'ammazzo!”
“Noo, Giuseppe, nooo, via devi venire!”
“Ada! Donna, scostati, scostati che lo squarto, quant'è vero Iddio!”
Rosa si era divincolata dalla presa del babbo per poter ascoltare, ma come aveva sentito quelle parole, che se ci fosse stata suor Celeste sarebbe partita crocefisso in resta a scomunicare, si era rimessa la mano di papà sulle orecchie, sgranando gli occhi per il terrore e cercando di dire un po' di Padre Nostro in latino che avevano appena imparato al collegio.
Francesco aveva accelerato e si era allontanato dalla scena trascinando con sé le figlie, perché anche se sapeva che sarebbe anche quella volta finito tutto in nulla, non erano scene da ragazzine.
Così Rosa e Mariuccia finirono a bocca asciutta, senza caramelle, ma con qualche parolaccia in più da far finta di non conoscere.
Quelli del quartiere e anche i bottegai come Francesco, conoscevano molto bene e lo tenevano d'occhio, il macellaio. E non si facevano imbrogliare: sapevano che pesava la carne con la carta sotto, per guadagnare qualche lira in più al mese.
Ma ogni tanto qualche nuovo cliente arrivava e Giuseppe ci provava, a farlo fesso.
Non solo pesando la carta ma pure la mano, che si posava con indifferenza sulla bilancia.
Giuseppe col suo ciuffone castano e i suoi trent'anni di scapolo d'oro lavorava da quando di anni ne aveva quindici e si era fatto muscoloso a forza di portare quarti di bue sulle spalle. A ventidue anni era rimasto orfano, aveva preso in mano la bottega e gli affari, aveva messo la sorella a far da cassiera, perché lui sapeva sì e no contare fino a cento e da mattina a sera affettava, pestava, disossava e amoreggiava.
Le donne ci andavano volentieri per farsi lusingare, gli uomini ci andavano per ascoltare racconti di avventure superlative. E alla fine ci ritornavano. Da lui, le sue bilance starate e la sua povera sorella Ada, che stava alla cassa con lo scialletto perennemente sulle spalle, chè c'era la corrente d'aria che la faceva starnutire, lei così minuta e cagionevole, allergica a tutto quello che sulla Terra si muoveva e non.
Stava lì, Ada, buona buona, col vestito troppo largo, nero, a lutto per la morte dieci anni prima della madre, a compilare i conticini sul taccuino e a ritirare le banconote dai clienti con lo sguardo spento quasi quanto il colore dei suoi capelli crespi.
Ma quando capitava un cliente nuovo, tutto cambiava: Giuseppe faceva un colpo doppio di tosse, Ada lo capiva subito e stava sull'attenti, pronta ad intervenire, con una luce negli occhi che solo l'idea del denaro facile le sapeva accendere. Giuseppe al momento di pesare la carne, attaccava con la doviziosa descrizione del manzo che lui stesso aveva abbattuto: “Guardi... guardi dietro di lei... guardi la fotografia, guardi che corna, mi poteva infilzare da parte a parte! Con queste braccia l'ho steso! Un colpo di gomito al centro della fronte, e addio! Guardi un po'... manco Ercole nelle fatiche... guardi, guardi che bestia! Guardi le fotografie!”
Le fotografie erano prese da una rivista americana e la bestia in questione era un bufalo.
Indicava col mento alzato, chiacchierava e si appoggiava appena con la mano alla bilancia e poi declamava il peso, mentre il fesso ancora guardava la fotografia cercando di vedere il segno del colpo mortale.
Se però il cliente non ci cascava, rischiava di scapparci il morto. Come quel giorno.
Interveniva quindi Ada, con provvidenziale e scenografico svenimento, che si fingeva tisica grazie al sangue che acchiappava dal bancone e si spruzzava sul vestito durante la rissa.
Distratto dal finto soccorso, rabbonito da un bicchiere di vino e un pacchetto di macinata in omaggio, il cliente se ne andava e tutto finiva lì.
Il morto non ci scappava mai, al massimo qualche cazzotto, ma ci scappava di certo una visita del carabiniere Alfredo. Questo arrivava ed attaccava con la predica sull'onestà e sul vizio, che a voce alta risuonava forte per le strade tra teste dei passanti che annuivano e il finto pentimento di Giuseppe e di Ada, che intanto si ripuliva annoiata il vestito col viso contrito.
Alfredo se ne andava impettito, certo di aver fatto il suo dovere di pubblico ufficiale ed educatore delle masse ignoranti – aveva fatto la terza media, lui!
Ada riprendeva il suo posto e la sua aria mesta, Giuseppe usava eventuali ferite per far tenerezza alle clienti, che se lo sarebbero mangiato, lui e i suoi lividi.
Finchè il morto ci scappò davvero, circa cinque anni dopo: questione d'onore fu e non di pesi.
La mano di Giuseppe, per una volta di troppo, anziché sulla bilancia era finita in posti più morbidi e nascosti.
Un punteruolo trapassò quel cuore così ambito.
Seguirono pianto a fiumi e strepiti, tanto che gli uomini guardavano le mogli in lacrime e si chiedevano se il famoso bue delle fotografie alle volte fosse meno cornuto di loro.
Ada si guadagnò altri dieci anni di abito nero, ma questa volta se lo comprò su misura, con i soldi guadagnati dalla vendita della macelleria.
E al vestitino fece compagnia un bel baule di ciliegio, decorato, a sostituire il vecchio e logoro baule di dote lasciato dalla sua mamma.
Sottovesti nuove, cuffie e camicie da notte, lenzuola di lino e spille da balia di ogni misura andarono ad arricchire il suo bagaglio.
Il bel baule e soprattutto le monete che Ada aveva nascosto sotto le mattonelle del pavimento, cucite nelle tasche dei mutandoni e ficcate tra le lame affilate delle mannaie e degli attrezzi di Giuseppe, facevano gola a molti.
Ma il baule andò infine ad arredare la camera da letto di Alfredo, che se la prese in sposa, con la missione di farle percorrere i dritti e sicuri viali della legalità.
I capelli di Ada ripresero vita, così come il colorito.
Si ritrovò incinta in un paio di mesi e da lì mise al mondo sei bei maschietti. Si decise di chiamare il primogenito Giuseppe, ma al momento di denunciare la nascita, i due si guardarono e fecero mettere di secondo nome, che fosse ben visibile sui documenti e bene impresso nella mente del neonato, Celestino Pio, così da stroncare sul nascere qualsiasi velleità da seduttore.
Giuseppe Celestino Pio si fece poi carabiniere, ma sul Continente.
Pare avesse un bel ciuffone castano.

Francesca Pompili

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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