Anilda
Ibrahimi è nata a Valona nel 1972. Ha studiato letteratura
a Tirana. Nel 1994 ha lasciato l'Albania, trasferendosi prima in Svizzera
e poi, dal 1997, in Italia. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa
è uscito presso Einaudi nel 2008 e ha vinto vari premi. Per Einaudi
ha pubblicato anche il suo secondo romanzo L'amore e gli stracci del
tempo, di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici. I suoi
romanzi sono tradotti in sei Paesi. Nel 2012 ha pubblicato, sempre per
Einaudi, Non c'è dolcezza e, nel 2017, Il tuo nome è
una promessa. Quattro romanzi che raccontano principalmente la vita
in Albania, con annesse le vicissitudini del Kosovo. Il suo ultimo romanzo
è "Volevo essere Madame Bovary".
Rosso
come una sposa: In questo libro c'è l'allegria della vita che
corre. Ci sono quattro generazioni che si passano il testimone a modo
loro. Ci sono le storie di quattro donne, e quelle di tanti altri, intrecciate
sul filo di una memoria commossa, epica in modo naturale. E dietro a tutto
c'è l'Albania che cambia, dagli anni di re Zog alla fine del comunismo:
la guerra e il sangue, gli amori e i tradimenti, i sogni e le delusioni
di un Paese chiuso come un negozio a ferragosto.
L'amore
e gli stracci del tempo: Un uomo e una donna divisi dalla guerra.
Lui è serbo e lei kosovara, e la guerra è proprio quella
del Kosovo, nei Balcani squarciati dai nazionalismi. Lui la cerca per
anni tra i profughi dispersi per l'Europa, perché gliel'ha promesso.
Lei lo aspetta, seduta in un angolo di mondo, perché aspettarlo
è l'unica cosa che sa fare. Ma a volte la sorte trasforma le persone
in «lettere mandate al momento sbagliato».
Non
c'è dolcezza: Eleni e Lila sono amiche da sempre, innamorate
dello stesso uomo. Ma la nascita di Arlind spezza il loro legame come
il canto degli tzigani spezza il silenzio dellalba. Si può
rinunciare a un figlio per tenere fede a una promessa? Dopo Rosso come
una sposa, torna a raccontarci una storia di emozioni incandescenti, in
cui il riso e il pianto sinseguono, regalandoci la poesia di un
piccolo mondo quasi miracoloso.
Il
tuo nome è una promessa: Una foto con due bambine dalle lunghe
trecce, dietro il mare. È quello che resta a Abigail della sua
famiglia. La Storia lha divisa da sua sorella Esther, e lAlbania
che lha accolta generosamente quandera in fuga dalla Germania
nazista è diventata poi la sua prigione. Mezzo secolo dopo, a Tirana
arriva Rebecca. Fugge da un matrimonio in crisi, ma forse vuole ricomporre
il suo album di famiglia ricostruendo la storia che sua madre Esther non
le ha mai davvero raccontato.
Volevo
essere Madame Bovary. Hera torna a casa dopo tanti anni, per una fuga
d'amore. Chissà cosa direbbero le sue antenate, ora che anche lei
ha fatto una brutta fine come Emma Bovary: l'uomo con cui viaggia parla
la sua stessa lingua ma non è suo marito. Skerd le fa sentire di
nuovo che la bellezza è un rischio, il desiderio una provocazione,
le donne seducenti come lei una minaccia. Certo, appartenere a qualcuno
può sembrare rassicurante, ma presto si mostra per ciò che
è davvero: una gabbia. E da quella gabbia, anche se dentro non
si sta poi così male, Hera dovrà fuggire ancora una volta,
come tanto tempo prima. Un'educazione sentimentale ironica e intelligente,
capace di rovesciare molti stereotipi su ciò che crediamo di sapere
delle donne. Hera è nata in un Paese del socialismo reale dove
la donna lavora almeno quanto l'uomo e la bellezza è una colpa,
soprattutto per una ragazza ambiziosa come lei. Da piccola divorava i
romanzi di Tolstoj e Balzac, in cui le eroine sono tutte fedifraghe e
di solito fanno una brutta fine, ma anche tanti libri di propaganda secondo
cui l'ideale femminile è sposarsi e lavorare in campagna. Hera
è cresciuta così, in bilico tra il desiderio di diventare
qualcuno e la consapevolezza di dover rigare dritto, tra la voglia di
vestirsi alla moda sfidando le censure del regime e i rimproveri di nonna
Asmà. Poi, un giorno, è partita per Roma. In Italia all'inizio
ha sofferto, si è sentita smarrita. Insieme a Stefano però
ha trovato il suo centro: è diventata un'artista, ha dei figli
che ama, non ha più avuto paura di sembrare troppo. E allora cosa
ci fa a Tirana con Skerd, uno con cui non ha nulla da condividere se non
il corpo? E perché insieme a lui sente pulsare così forte
l'eco della lingua madre? Hera non è più quella ragazzina
che cercava il grande amore nel dramma e negli uomini autoritari, ma ogni
cosa intorno a lei sembra volerla ricacciare di nuovo nel passato da cui
è fuggita. Con la sua voce essenziale e un umorismo più
tagliente che mai, Anilda Ibrahimi ha scritto un romanzo sulle insidie
dell'appartenenza e della memoria, sui modelli femminili da incarnare
e ribaltare, sull'importanza di rimanere fedeli a ciò che siamo
diventati quando il tempo insiste per riportarci
Abel Wakaam: Ciao Anilda, nei tuoi libri racconti le storie
della tua terra natale con una visione profonda e allo stesso tempo distaccata.
Sei tu che hai lasciato il tuo Paese oppure il contrario?
Anilda Ibrahimi: Credo che ci siamo lasciati e basta. In un rapporto
amoroso quando ci si lascia, con il passare del tempo, non ha più
importanza chi ha lasciato chi. Prima di iniziare a scrivere ho avuto
dieci anni abbondanti per metabolizzare tutto. Per avere quel distacco
necessario e capire che la perdita del territorio dove si è nati
nellera moderna è un fattore che tocca tanti, invece la perdita
della memoria tradizionale ci tocca tutti senza nessuna eccezione, non
solo i migranti, è la condizione naturale delluomo. Cosi
ho cercato di scrivere non dal punto di vista eccezionale, cioè
quello drammatico dove si racconta la storia delle minoranze che rimangono
senza territorio (e si sa che le storie delle minoranze alla base hanno
conflitti o guerre) o meglio approdano in un nuovo territorio, ma ricostruire
le piccole storie quotidiane basandomi su una memoria collettiva in un
tempo senza luogo. Nei miei romanzi vado avanti e indietro, tra passato
e futuro, creando una realtà dove alla fine non ha più importanza
né il luogo né il tempo, ma la nuova identità legata
al movimento, basata sulle memorie fratturate della mia storia, della
storia del mio popolo, di tutta la storia in generale.
Abel Wakaam: Hai più volte affermato di non essere una
voce della diaspora, perché la tua letteratura non svolge questa
funzione. Non credi che raccontare le storie di donne che vivono e sopravvivono
nel novecento albanese sia un modo per far conoscere al mondo le difficoltà
del tuo popolo in un contesto reale?
Anilda Ibrahimi: Viviamo in tempi difficili dove la dittatura
del pensiero unico cerca di impossessarsi di tutto, dove il politicamente
corretto è allordine del giorno. Certe mie affermazioni sono
frutto del desiderio di non essere incasellata, di avere la libertà
di esprimere il mio punto di vista senza militanza. Ad esempio, a me interessano
le storie delle donne che sopravvivono ad un novecento travagliato da
una prospettiva femminile, ma non femminista. Lequivoco per chi
scrive di donne è dietro langolo. Come il fatto di far conoscere
le difficoltà di un popolo in un contesto reale come dice lei,
per me è importante, ma non parto da questo. Per diventare voce
di una diaspora bisogna mettere in conto che automaticamente si diventa
portavoce di unesperienza drammatica che ha a che fare con lo sradicamento
e con la nuova identità. Le diaspore sono fragili, nel nuovo luogo
vivono il dramma di unidentità non definita, o meglio vivono
la paura della perdita dellidentità precedente, così
cercano di aggrapparsi a tutti i costi ad essa. Temi che affronto in tutti
i miei libri, ma non in veste di testimonianza, o forse si ma in un modo
diverso, accettando la nuova identità ibrida.
Abel Wakaam: Il tuo modo di scrivere è semplice, chiaro,
comprensibile a tutti. Mi ricorda il modo con cui mia nonna mi raccontava
le storie da bambino. È questa la chiave del tuo successo?
Anilda Ibrahimi: Magari è questo! Forse aveva ragione Tolstoj
quando diceva "racconta il tuo villaggio e racconterai il mondo".
Il modo che ho scelto per raccontare ha a che fare con il lato materno,
cioè la trasmissione al femminile. È una memoria che si
trasmette facilmente, passa attraverso il quotidiano, i canti, le melodie,
le ballate, il cibo. Del resto anche tu ti ricordi delle storie raccontate
dalla tua di nonna, quindi a quanto pare le memorie degli uomini sono
fatte da storie raccontate da donne.
Abel Wakaam: Prima di conoscere l'Italia, cosa pensavi del nostro
Paese? E dopo, quando l'ha conosciuto meglio, è cambiata la tua
opinione? Insomma, era esattamente come te l'aspettavi?
Anilda Ibrahimi: Partiamo dal presupposto che personalmente non
mi aspetto mai niente da nessun luogo. Il tempo di les illusions
perdues, non è mai esistito per me, non mi sono mai vista
come una sorta di Lucien Chardon, la giovane donna provinciale dellest
alla ricerca del futuro e della gloria. Avevo una sorta di fame culturale,
se la vogliamo chiamare così, una fame di mordere la bellezza,
di viaggiare e toccare da vicino luoghi che nella mia formazione culturale
durante ladolescenza avevano avuto un ruolo. Se dovessi dare una
risposta più ampia, e lasciare da parte la mia esperienza individuale
e parlare di quella collettiva, penso che nessun albanese abbia trovato
in Italia il sogno americano, quello scaturito dalle immagini delle TV
e dove erano tributari di una realtà mai esistita in Italia. Hanno
cercato di arrivare al grande sogno americano passando per lutopia
capitalistica italiana.
La mia opinione è cambiata solo in una cosa, e riguarda le donne.
Sono uscita dal mio paese molto giovane, ho passato tutta ladolescenza
in una dittatura dove la donna doveva essere uguale alluomo, non
solo come forza della rivoluzione ma anche fisicamente. Non ho avuto modelli
femminili se non quello dei romanzi dellottocento, dove le donne
erano perlomeno Karenina, Bovary o Nora. Quello delle nonne che accettavano
con stoicismo il destino scritto dal patriarcato prima della loro nascita
e la donna, altro non era che un uomo in tuta da lavoro con piccone e
fucile in mano. Arrivai in Italia, orfana di modelli, orfana di educazione
sentimentale, diventai madre di tre figli senza sapere prima quale tipo
di donna fossi e quella che avrei voluto essere. Ho capito che a loro
volta, qui le donne erano più orfane di me, rimaste figlie eterne
dopo un femminismo che aveva risolto tanto, ma non il passaggio da figlia
a madre (e non mi riferisco al parto fisico, ma al fatto di rimanere per
sempre figlie) bambine eterne che rivendicavano il passato e il presente
nel modo più sbagliato. Cioè, tutto ridotto nella ripresa
del potere in una sorta di militanza e guerra dove la distruzione del
maschio è allordine del giorno e dove non cè
spazio per una coesistenza tra donne e uomini... e nemmeno per la solidarietà
femminile.
Abel Wakaam: Nel romanzo "Rosso come una sposa"
hai scritto: Chissà dove sparisce l'amore materno quando abbandona
il cuore delle donne, forse nei vicoli segreti del sangue guastato o nel
silenzio del fiume riarso. Hai avuto un'infanzia felice?
Anilda Ibrahimi: Ho avuto una bella infanzia, non so se ero felice
o meno, non mi piacciono gli aggettivi qualificativi. Se dovessi paragonarla
con quella dei miei figli, la mia per lo meno era più movimentata,
cera spazio per i sogni.
Abel Wakaam: La frase che più mi ha colpito in "L'amore
e gli stracci del tempo" è questa: La sorte può
essere crudele, trasforma le persone in lettere mandate al momento sbagliato:
a chi in ritardo, a chi in anticipo. La tua lettera è arrivata
al momento giusto?
Anilda Ibrahimi: Il tempismo non è stato il leitmotiv della
mia vita, diciamo che ho avuto la mia dose di lettere arrivate nel momento
sbagliato, quasi sempre in ritardo. Ma di buono, in dote dalle mie ave,
ho avuto almeno questo: il fatalismo.
Abel Wakaam: Dalle tue risposte si evince una posizione netta
che mette la donna sempre in primo piano. Scrivi storie di donne per insegnare
agli uomini l'importanza del vostro ruolo nella vita di ogni giorno?
Anilda Ibrahimi: Metto la donna in primo piano perché non
sarei capace di scrivere su temi maschili, quindi scrivo di ciò
che conosco meglio. Detto ciò trovo un po maschilista la
definizione scrittura femminile e non scrivo mai da donna
per le donne. Condivido il pensiero di Margaret Atwood quando dice: non
credo nel punto di vista maschile più di quanto creda nel punto
di vista femminile, diciamo che la buona scrittura di qualunque genere
è sorprendente, intricata, dura, sinuosa. Alla fine è
quello che cerco di fare mentre scrivo, oltre che credere nelle storie
che racconto.
Abel Wakaam: Che consigli daresti a chi si avvicina adesso all'arte
della scrittura, e la vive con la speranza di riuscire davvero e farsi
notare nel mondo dell'Editoria che conta?
Anilda Ibrahimi: Più che nell'Editoria che conta, credo
negli editori che pubblicano dei bei libri, quelli che rimangono. Ai giovani
consiglierei di leggere, non si diventa scrittori senza essere prima lettori.
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