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Autore: Manuela Caracciolo
Tutto ciò che il paradiso permette
Narrativa
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Tutto ciò che il paradiso permette
La minuscola cellula veleggiava ormai da alcuni giorni dentro il suo organismo. Era più piccola di un granello di sabbia ma si presentava già come qualcosa di complesso, costituito da un involucro esterno e da una parte centrale, un cuore pulsante e velenoso. Fluttuava tra i corposi globuli bianchi con circospezione, li osservava minacciosa ma senza dare troppo nell'occhio. Si era intrufolata in quell'organismo giovane da qualche settimana e velatamente aveva cominciato a sferrare i primi tipici attacchi, creando piccoli malesseri generali all'ospite. Non era cosa facile, il corpo invaso era forte anche se riconosceva piccoli segnali di vita sregolata, abuso di alcol e qualche sostanza e soprattutto parecchio stress che aveva contribuito a rendere più deboli gli anticorpi che da pochissimo stavano cominciando a reagire.
Non era stato difficile avere l'accesso e trovare quel rifugio, i rapporti numerosi con altri organismi e lo scambio di liquidi l'avevano condotta lì senza troppa resistenza di contraccettivi che l'avrebbero uccisa o rispedita indietro. Non sapeva quanto ci sarebbe voluto prima di riuscire a diminuire il numero di quegli obesi linfociti, ma non mancava molto, lo capiva dalla fibrillazione degli anticorpi, che avevano già fiutato la sua insidiosa presenza. La loro reazione non avrebbe tardato a manifestarsi. Ipotizzò di trovarsi nel periodo di gestazione dell'infezione, durante il quale il test risultava ancora negativo.
L'ignaro individuo poteva inconsapevolmente infettare altre persone. Comunque, tanto valeva attendere.
Comunque, tanto valeva attendere, ormai il Prologo 10 suo compito era chiaro: doveva attaccare e distrugge i linfociti T helper, per annientare la loro carica immunitaria attaccandosi alla proteina CD4, presente sulla loro superficie, trovare un punto di ancoraggio, penetrarli e riprodursi a più non posso. Quella sarebbe stata la fase davvero divertente, avrebbe dato origine alla sua squadra agguerrita sempre più numerosa. Aveva già cominciato a sopprimerne qualcuna, che come lei si avventurava nelle azzurre vene periferiche, isolata. La cellula aveva teso l'agguato e come un killer non aveva lasciato il tempo all'avversario di realizzare che il suo annullamento era vicino. Ottimo allenamento. Ora doveva solo ingannare quel tempo ed esercitarsi in attesa di creare i propri rinforzi. Che stupidi, gli umani. Ormai la conoscenza di cellule pericolose come lei era radicata e sicuramente già esisteva qualcosa per poter limitare i danni dell'invasione, se non annullarla completamente, ma loro ignari continuavano a seppellire gli amici tremando di paura davanti a ciò che l'analisi di una goccia del loro sangue avrebbe comportato.
E la prevenzione? Se ne parlava tanto ma pareva che a nessuno interessasse smettere di scambiarsi fluidi e siringhe, anzi, più si parlava del rischio più si sfidava la sorte. Affari loro, finché continuavano a piangere le vittime della loro paura e superficialità, per l'esercito ci sarebbe stato tanto da conquistare. Già così la notizia si era diffusa ovunque, erano diventate famose e si parlava di loro sui giornali, in tv. Una ascesa al successo insomma.
Fluttuò lungo le arterie, sfiorando le enormi masse lisce dei polmoni che si contraevano ed espandevano come mantici, gustò per un attimo quella sensazione di potenza, prima di prepararsi alla presa del potere.
Dublino era immersa nel silenzio, i pub e i locali avevano abbassato le serrande, vista l'ora tarda. Per strada non transitava anima viva, se non la misteriosa presenza di un alito di vento tra le fronde dei platani. L'eco di passi veloci e leggeri riecheggiava sinistramente in O'Connell Street. Un'ombra proiettata in avanti procedeva in fretta dove prima rimbombavano voci sguaiate e lamenti di ubriachi, traboccanti di birra e falsa allegria.
La sagoma sul marciapiede si modellava sotto la luce dei lampioni, continuando ad avanzare e a mutare, fino a quando non giunse davanti al sontuoso ingresso dello Shelbourne Hotel, addobbato come una vetrina natalizia. L'ombra tremò per un attimo nel suo sostare, e si definì nello spicchio di luce violenta del portone spalancato. Era sottile, quasi impalpabile.
Sul marciapiede di fronte era parcheggiata una lunga limousine corvina. Nell'abitacolo, un grosso autista nero leggeva senza interesse la pagina sportiva del giornale. La figura riprese il suo cammino anche quando un tintinnio metallico spezzò il silenzio notturno. L'uomo seduto in macchina alzò lo sguardo e notò un barlume sul nero dell'asfalto. Lentamente aprì la portiera ed esaminò l'oggetto a terra: era un mazzo di chiavi, tenute insieme da un anello metallico e un pupazzetto di stoffa rosa.

1 Angel of Harlem. U2
Si guardò intorno e vide una persona che, alla svelta, si stava allontanando. - Ehi, tu! - Chiamò. La figura si voltò di scatto. - Hai perso queste! -
Dopo un attimo di esitazione i due si avvicinarono circospetti. Fu nel momento in cui si trovarono sotto la livida luce del lampione che l'uomo la vide: era piccola, giovane, un'adolescente o poco più. D'aspetto volutamente trasandato, come i dettami delle mode impartivano ai ragazzi giovanissimi. Capelli lunghi a nascondere il viso, lasciando visibile un paio di occhi enormi e scuri, che brillavano decisi. Labbra caramellate e appiccicose che scintillavano sotto il neon come animate da un tremolio sottile. Le pendeva dalla spalla esile una borsa da palestra e una T-shirt dei Purple River le copriva pudicamente i fianchi nei jeans scoloriti. Osservando quel dettaglio a stento l'uomo trattenne una risata. - Grazie - rispose lei con un filo di voce.
- Che cosa ci fa una ragazzina in giro a quest'ora? - Lei non rispose, si limitò ad abbassare lo sguardo.
- Dove abiti? - la incalzò.
- Sandymount Road - rispose finalmente rosicchiandosi le unghie.
- È molto lontano e gli autobus non passano più ormai. Vuoi che ti accompagni in macchina? -
- No! Ci penso da me - e con uno scatto delle dita sottili si riappropriò delle chiavi che l'uomo le tendeva, allontanandosi correndo.
L'autista non ebbe il tempo di replicare mentre lei svaniva nel buio. Esterrefatto, scosse il capo e risalì in macchina, senza pensarci troppo avviò il motore e prese la stessa direzione della ragazza. Sapeva quanto fosse difficile e pericoloso sopravvivere nella grande città. Era logico non accettare passaggi dagli sconosciuti, ma l'espressione che aveva letto nel suo sguardo gli era troppo familiare per lasciarla andare. Erano occhi che avevano perso presto il colore tenue dell'innocenza, disincantati ma indifesi, cupi come il velluto e allo stesso tempo inquieti. Non appena l'uomo svoltò l'angolo, notò un gruppetto di individui barcollanti che si spintonavano.
A pochi metri la ragazza immobile osservava la scena. Quando iniziarono a volare pugni e calci la vide indietreggiare incerta e in un momento, senza avere il tempo di ragionare, Louis fermò la macchina bruscamente, spalancò lo sportello e agguantò il suo braccio. Un secondo dopo lei sedeva sul sedile posteriore, mentre lui ingranava la marcia.
- Ma che intenzioni avevi, eh? - chiese alterato.
- Perché te ne stavi lì impalata a guardare quelli che facevano rissa? Sei matta per caso? Stai bene? -
La ragazza soffocò una risata sinistra che lo fece rabbrividire e dopo un lungo silenzio rispose con voce tagliente: - Sì, ma potevo cavarmela benissimo senza di te - .
- Se vuoi continuare da sola fa pure, io dovrei anche tornare a lavorare. -
- Che cosa ci facevi parcheggiato davanti allo Shelbourne? - cambiò discorso lei osservando il viale fuori dal finestrino.
- Prima di rispondere mi presento: Louis Johnson - rispose solennemente l'uomo chinando il capo. Lo sguardo di lei lo oltrepassò come una lama di ghiaccio.
- Non vuoi dirmi il tuo nome? Fa lo stesso. Stavo aspettando un cliente importante. -
- Chi? -
- Dimmi come ti chiami altrimenti non se ne fa niente - insistette l'autista. La presenza della ragazzina riempiva l'abitacolo. Se ne stava accucciata in un angolo del lungo sedile di pelle nera, i riflessi delle luci in processione sul vetro proiettavano sul viso spigoloso aloni alternati a luccichii sinistri. I capelli coprivano metà dei tratti asimmetrici, regalandole un'espressione sensuale e innocente al tempo stesso. Il pallore spiccava nel buio lasciando un'aura lattiginosa a ogni movimento.
- Harrie - disse in tono secco, spezzando il silenzio. - Bene. È il diminutivo di...? E per rispondere alla tua domanda: attendevo uno famoso che conosci di sicuro - sogghignò Louis.
- È disegnato proprio sulla tua maglietta. -
- Paul Hypes? Quello dei Purple River? Mi prendi in giro? -
- Se fosse una balla non avrei qui un paio di biglietti per il concerto di domani. - E così dicendo sventolò sotto il naso della ragazza due rettangoli di carta colorata.
- No, giura! Come hai fatto? - domandò lei incredula.
- Me li ha regalati il loro manager. - Vedendo la delusione tratteggiarsi sul suo volto a Louis venne un'idea. - Se mi permetti di accompagnarti a casa e di stare alla larga dalla strada stanotte posso cedertene uno ma non devi dire a nessuno dove alloggia il gruppo. - Per tutta risposta Harrie agguantò il biglietto e lo fece sparire nel borsone con un gesto rapido.
- E allora perché a me lo hai detto? - chiese. Prima che l'autista potesse rispondere aggiunse: - Ferma qui, sono arrivata - .
Spalancando la porta fece entrare la notte. - Aspetta, non mi hai detto da dove deriva il tuo nomignolo! - tentò di trattenerla Louis.
- Un'altra volta. Grazie, buonanotte! - e fu inghiottita dal buio.
Nella mente di Harrie il vortice di pensieri le aveva fatto vivere quel viaggio alla fine della notte come un'odissea irreale. Non ricordava come e quando avesse iniziato a camminare per la città. Le capitava di perdersi seguendo i piedi e l'asfalto sotto di essi, che a volte diventava un sentiero di mattoni gialli, altre una stradina di campagna, altre ancora un acciottolato sconnesso. Harrie viveva di favole, fumetti, leggende, film. Tutto era immagine e realtà nel suo mondo. Il suo pensiero fantastico la strappava dal grigio di un'esistenza travagliata, denso di solitudine e di un'adultità arrivata troppo presto, per il destino in vena di atroci scherzi. Sognare era la sua arma di difesa, il suo muro.
O semplicemente, Harrie era pazza e basta.

Manuela Caracciolo

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