Anno 2020 quasi al termine. A parte il rischio di buscar un malanno amavo camminare sotto la pioggia, quell'anno l'autunno inoltrato era piuttosto mite a novembre, bagnarmi un po' non mi preoccupava. Trascinai il portaspesa per pochi metri prima che il mio braccio iniziasse a provare dolore. Mi fermai premendo il bottone sul carrello, le rotelle si ritirarono e il propulsore lo fece fluttuare rendendolo leggero. Continuai a camminare riflettendo sulla mia vita. La pioggia lavava i marciapiedi ma l'angoscia era resistente alle intemperie. Intrappolata in una relazione che giorno dopo giorno soffocava le mie speranze dopo aver schiacciato i miei sogni, in balia di un narcisista egocentrico per il quale rappresentavo solo un giocattolo con la funzione di riempire i suoi vuoti da bambino frustrato. Ne ero consapevole ormai da tanto, ma non ero più capace di distinguere la linea troppo sottile tra l'amore e la mia di frustrazione di non esser divenuta l'oggetto della sua benevolenza. Da dentro il negozio il fruttivendolo mi salutò con un cenno senza interrompere il filo dei miei pensieri. Proseguii fingendo di non averlo visto, chiedendomi cosa vi fosse di sbagliato di me. Un clacson si distinse nel frastuono del traffico, una frenata fischiò sull'asfalto, la mia mente era lontana da quella strada, persa dietro un passato di sconfitte e soprattutto di sogni che mai avevano visto la luce, lì chiusi in un cassetto che mai più avrei aperto. Avevo scelto un lavoro noioso per rimanere vicino a quell'uomo per cui illudermi di un futuro insieme, accantonando il gran desiderio sin da bambina di diventare giornalista e viaggiare per il mondo. L'acqua sotto i miei stivali suonò come il rumore di un miraggio liquefatto sotto le martellate della dura realtà. Nascosi le lacrime con la pioggia. Ripresi contatto con la realtà quanto bastasse per accorgermi che un individuo sull'altro lato del marciapiede si sbracciava per attirare la mia attenzione. Cercai di ricordare chi fosse, ero solita fare pessime figure non essendo fisionomista, il suo volto non mi rievocò nulla. Riuscii a intravedere appena i capelli di un castano molto chiaro spuntare dal cappello dell'impermeabile. Mi sorrise, non ebbi alcuna reazione. Attraversò guardando entrambi i lati della strada e correndomi incontro. Curiosità e timore mi percorsero il cuore, il suo entusiasmo mi diede subito la sensazione che mi conoscesse da lunga data. - Solaria. Che bello vederti. – Mi abbracciò, il suo dopobarba profumava di pino selvatico, rimasi rigida e silenziosa. – Non ti ricordi di me, vero? – Mi chiese lasciandomi andare. Scossi la testa. La pioggia smise di cadere, una bimbetta saltò in una pozzanghera formatasi nel cratere del marciapiede. L'acqua schizzò sul soprabito nocciola di una signora che espresse le sue rimostranze ad alta voce. L'uomo di fronte a me scavò nello zaino che aveva con sé e tirò fuori una fotografia che ritraeva me da piccola, potevo avere quattro o cinque anni, insieme a un fanciullino esilissimo, con un paio di occhiali dalla montatura nera che sembravano enormi sul suo viso. I capelli erano chiari e la sua espressione triste. Io avevo la chioma già lunga, nera e liscia come in quel momento; il pantalone era strappato e la maglia stropicciata ma esibivo trionfante un trenino in legno colorato. Sullo sfondo un bimbo cicciottello strizzato in una tutina rossa ci guardava minaccioso mentre una donna adulta ripresa solo in parte lo teneva per mano. Dolci ricordi ritornarono in mente in pochi istanti. Eravamo cresciuti insieme, inseparabili eppur così differenti. Luca era molto timido, preferiva passare le giornate sui libri piuttosto che in cortile a giocare con gli altri ragazzini che lo umiliavano, motivo che spingeva me a picchiarli. Quando i nostri genitori organizzavano cene insieme trascorrevamo la serata a leggere storie fantastiche, entrambi ci appassionavamo a racconti su mondi paralleli e viaggi nel futuro. Io ero una bambina molto vivace, mentre Luca era un genietto che faceva a mente conti matematici impossibili anche per gli adulti. I suoi non compresero le doti del figlio fino in fondo. Frequentammo insieme le scuole fino alle medie poi prendemmo strade diverse. Io scelsi il liceo classico essendo portata alle materie letterarie, lui lo scientifico. Spesso mi aiutava a far i compiti e io lo difendevo all'occorrenza dai bulletti. Costruiva meccanismi complicati con la stessa facilità con cui io inventavo storie che un giorno avrei pubblicato. Il più delle volte finivano nella spazzatura, i suoi genitori pensavano fossero uno spreco e avevano deciso che avrebbe studiato Economia all'università per poi entrare in banca. L'argomento suscitava liti continue in casa, Luca ne soffriva molto. Dopo il diploma decise che non avrebbe accettato il destino per lui deciso dalla famiglia, ritirò dei soldi da un conto corrente che gli avevano aperto alla nascita e preparò lo zaino. Mi disse di essere stato ammesso alla migliore università di Tokyo, lo abbracciai l'ultima volta all'aeroporto, non seppi più nulla di lui. - Luca. – Esclamai – Sono... oh mamma... ventisei anni che non ci vediamo. Dopo la partenza per l'università non mi hai fatto avere più notizie. Notai come fosse cambiato, il ragazzino riservato e impacciato aveva lasciato il posto a un adulto sicuro di sé, ma nei suoi occhi era rimasta la stessa dolcezza del mio amico d'infanzia. Aveva messo su qualche chilo, ma l'altezza slanciata e la disinvoltura di movimenti lo facevano sembrare ben piazzato come un atleta. Spiccava uno sbarazzino ciuffo biondiccio sui capelli color mogano. L'essere entrambi over40enni si ritrovò concentrato davanti allo specchio trasparente dei nostri sguardi increduli ma solidali. - Già, qui è così che andata – Avvertii in lui una grande tristezza. - Cosa vuol dire - qui - ? – Gli domandai perplessa. - Ho bisogno di parlarti. – Mi disse afferrandomi per un braccio – Se non è lontano potremmo andare da te. - Veramente io... - Esitai vergognandomi di ciò che stavo per dirgli. - Qual è il problema, non ti fidi più di me? – Insinuò tra il perplesso e il divertito. - Vedi, io... io ho un ragazzo e non credo che avrebbe piacere di sapermi sola con un altro maschio. Seguirono attimi di silenzio sconcertante a questa mia affermazione. Non credevo io stessa a ciò che avevo appena detto, abbassai lo sguardo per non incrociare il suo. - Stai scherzando, vero? Non gli risposi. Fissai il marciapiede come se fosse l'unico espediente per evitare quella conversazione scomoda. - Proprio tu permetti a un'altra persona di dirti cosa fare? – Proseguì incredulo – Quella che sin da bambina era soprannominata la - pestabulli - ? - Quella era un'altra me. – Ribattei – E non credo fosse un vanto che facessi a botte. - Ma nemmeno farti mettere i piedi in testa da un maschio da monta dovrebbe renderti fiera di te stessa. – Puntualizzò. Lessi sul suo volto delusione e mi ferì. - C'è un posto dove possiamo parlare con calma? – Propose con aria misteriosa. - La sala da tè nella via dedicata a Junichiro Tanizaki – Fu il primo luogo che mi venne in mente. Il Giappone era ormai il più potente Paese a livello mondiale, in barba alle sue piccole dimensioni simili a quelle dell'Italia aveva detronizzato l'onnipresenza degli Stati Uniti d'America. Nonostante i tragicomici tentativi di reimporre la millantata superiorità economica e politica, gli yankees non erano riusciti a stare al passo con il Sol Levante. Contrariamente alle scelte politiche statunitensi che incitavano alla corsa al petrolio, il regno della dea Amaterasu aveva introdotto nuove energie pulite da sfruttare facendo sorgere in pochi anni zone verdi in tutti i grandi centri urbani. Presto anche la corruzione aveva trovato campo difficile, in quanto lo stoico sistema educativo e lavorativo nipponico era stato assurto a modello principale per la sua quasi perfezione, benché nella culla della civiltà mediterranea si tendesse ancora a essere un po' elastici con gli orari rispetto al resto del mondo. Entrammo nella sala da tè Takenoko, una ragazza in kimono fece un profondo inchino e invitò ad accomodarci - Sarebbe così gentile da procurare un asciugamano alla mia amica? - Certamente signore. - Arigatou gozaimasu. – Il suo accento era perfetto. Ci sedemmo intorno a un tavolino basso, su dei cuscini il cui ricamo a mano rappresentava la florescenza del sakura. Pur non essendo molto elegante incrociai le gambe e cercai di distenderle sotto il tavolo, tenerle piegate sotto il corpo era stancante. La cameriera arrivò con un piccolo asciugamano e me lo porse inchinandosi. Notai i capelli neri perfettamente legati e tenuti da un bastoncino decorato. Sul lato un pettinino anch'esso disegnato a tema floreale donava un peculiare tocco d'eleganza. Entrambi erano intonati alla veste bianca con fiorellini rosa, stretta da una fascia altrettanto in tinta. Sin da giovanissima la cultura giapponese m'aveva affascinata, non avrei mai creduto di poterne godere senza dover prendere un aereo. La ringraziai e ordinammo i dolci Mochi e il Sencha, la tipologia più comune di tè che aveva soppiantato persino le più celebri marche britanniche. Nell'aria si diffuse la melodia d'una compilation di Naomi Tamura, cantante pop che fece furore a cavallo tra i due millenni.
Maria Patavia
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