Sulla riva sinistra del Tevere
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Dal racconto "La peste".
Le palafitte, non sono realmente quel che se ne potrebbe dedurre dal nome. Parliamo di un agglomerato di case, per lo più abusive, nell'estrema periferia ad ovest della città, a poche centinaia di metri dalla riva sinistra del fiume, proprio laddove Il corso dell'acqua si fa più impervio tanto da interromperne la navigabilità, ma continuando a scorrere, nonostante tutto, alimentato, forse, più dalle lacrime delle donne, a suo tempo, massacrate e abbandonate sul versante opposto, che dai numerosi affluenti presenti, fino a poco prima del suo ingresso in città. E c'è chi racconta che almeno un paio di volte, nell'anno appena terminato, il suo accesso al lago sotto valle, sia stato caratterizzato da lunghe striature rosse a marcarne la corrente. Una leggenda contemporanea, che nasconde una amara verità che tutti conoscono, ma di cui nessuno vuole parlare. Eppure, io, quelle grida, le ho sentite. Su quella riva maledetta, dove una volta si articolava la movida del vecchio quartiere, dove oggi ci si deve divincolare tra i canneti e una macchia che ha veramente poco di bucolico, al tramonto comincia l'inferno. Le urla si intrecciano su più tonalità a volumi diversi, con picchi che sembrano avvisare di essere in procinto di prendere una coltellata alle spalle. E più ci si gira intorno, più i suoni si confondono in un vortice di frequenze. E quando arriva il buio, torna il silenzio. Ma in questo caso, il silenzio non riesce ad essere sinonimo di pace, rimane attesa, tensione, sconcerto. E la mattina si cerca di non pensare, tutto sembra essere normale, persino la scuola o quel che ne rimane. La maestra attende fuori dal cancello la sua classe, i quattro bambini rimasti ancora a presidiare la categoria. Non lo hanno certo scelto loro, sono quattro condannati. E uno di loro è proprio Giuseppe, col pallone in mano, pronto a correre freneticamente, a lottare per il sorpasso, a dominare quel confine che delimita le palafitte. Un giorno andrà via anche lui, ma cosa sarà ancora costretto a vedere, dopo quella maledetta sera in cui la sua attesa si trasformò in pianto? Era uscito da scuola alle 16,00, col suo pallone sempre tra i piedi e lo zaino a bilanciare la testa protesa a guardare un metro e mezzo avanti a lui, quel paio di passi che servivano a calciare sempre oltre, fino a raggiungere casa. D'altronde era l'unico maschietto e, per quanto spesso lui cedesse a fare “giochi da femmina” pur di stare in compagnia, nessuna delle sue amichette lo ripagava condividendo la sua passione per il gioco del calcio. Proseguiva concentrato lungo il vialetto, quando la sua attenzione venne distolta da grida lancinanti che sembravano provenire proprio da casa sua. Iniziò a calciare forte la palla e a correre, Quattro calci ben assestati e si trovò di fronte al portoncino semi aperto. Non fu certo quello a preoccuparlo, dato che la porta di casa era spesso spalancata, ma per il semplice fatto che l'umidità del luogo aveva deformato la cornice che la sorreggeva. Fece entrare il suo Pallone e di seguito, prima che potesse rimbalzare sul muro antistante, lo stoppò bloccandosi di fronte alla cucina. Rimase immobile, pietrificato. Sul pavimento c'era sua madre in una pozza di sangue, con i vestiti strappati. Si voltò solamente quando percepì che dietro di lui c'era qualcuno, ma non fece in tempo a vederlo. La sagoma si dileguò in pochi istanti, lasciandolo lì, in piedi, col pallone tra la suola e il pavimento, in totale stato di shock. Nei giorni successivi, un andirivieni di assistenti sociali, spesso accompagnati dalle forze dell'ordine, cercava di farsi largo nella vita, segnata indelebilmente, del povero Giuseppe. Dovevano portarlo via da lì, probabilmente, assegnandolo ad una famiglia o ad una delle tante associazioni che gestivano delle case di accoglienza per piccoli orfani. Lo dovevano fare prima possibile, anche perché l'assassino poteva essersi convinto di un possibile riconoscimento da parte del bambino. Il percorso per portarlo via era stato avviato e si attendeva solamente la prima disponibilità verificata. Nel frattempo la maestra Anna, si era offerta di tenerlo con lei e di occuparsi delle pur minime esigenze. Ma Giuseppe e il suo pallone, nascondevano un segreto, grazie al quale lui non sarebbe mai andato via. La coordinatrice del servizio sociale avvisò Anna che, martedì ci sarebbe un primo incontro con una famiglia ritenuta idonea all'affido. La maestra lo comunicò immediatamente a Giuseppe, che rimase impassibile, anche di fronte a imbarazzanti tranquillizzazioni sull'esito di questo iter. Il bambino non si scomponeva mai per nulla, ma la sua non era accondiscendenza, lui pensava e organizzava i suoi gesti futuri. Chiese, con un'educazione d'altri tempi, se gli fosse concesso di uscire per andare a giocare e, a seguito di un cenno di assenso, uscì di casa e prese uno dei vialetti che portavano a riva. Era sabato e la mattina dopo, tra gli arbusti, già dalle prime ore dell'alba si sentiva un frastuono, dovuto ad un gruppo di persone in preda al panico. Erano pescatori, gente che conosceva il fiume e aveva individuato in quella porzione, un punto “buono”. Ma quella mattina non riuscirono neanche a montare i mulinelli sulle canne, perché si trovarono di fronte ad uno spettacolo raccapricciante. Con i piedi riversi in acqua e il resto del corpo incastrato tra una roccia e un arbusto, giaceva il cadavere di un uomo, irriconoscibile, perché martoriato, probabilmente, da qualche animale. All'arrivo della Polizia Scientifica, vennero allontanati tutti i curiosi e delimitato lo spazio. A capo della squadra c'era il Commissario Alfonsi. Laureato in Chimica e, successivamente, in Giurisprudenza, poteva essere considerato il fiore all'occhiello del Ministero. Ci mise meno di dieci minuti a capire che le ferite trovate sul corpo erano appartenenti alla famiglia dei roditori e risultavano esse stesse, con certezza, letali. Un branco di topi quindi, ma come è possibile che un uomo possa essere aggredito da un branco di topi? Oltretutto, quella zona risultava totalmente priva della presenza di roditori, si qualsiasi specie, nonostante il fiume. L'allarme rimbalzò immediatamente ai piani alti e l'indiscrezione su quanto riscontrato, venne diffusa alle agenzie di stampa, che nel giro di qualche minuto, la fecero uscire sul web. Erano tutti terrorizzati. Il bar, al bivio, era diventato una sorta di quartier generale per giornalisti e curiosi tik toker, in cerca del video dell'anno. Tutti scendevano a riva, tranne Giuseppe e, prima di lui, il suo pallone, che, con un calcio mirabolante di collo pieno, era già arrivato a metà strada, sulla salita che portava alla scuola. I giorni successivi, portano una folla quasi ingestibile da quelle parti, ma dei topi, neanche l'ombra. La Guardia Zoofila Centrale, ne aveva rilevato la presenza solo ed esclusivamente sul luogo del delitto. Tutta la zona poteva definirsi derattizzata. Ma chi era il malcapitato che aveva subito quell'atroce trattamento? L'identificazione attraverso gli schedari digitali della questura, portò alla conferma di quanto riscontrato dal documento di identità ritrovato nel portafogli dell'uomo. Si trattava di tal Antonio Giannelli, un noto pregiudicato, già condannato per diversi reati e sottoposto ad ordine restrittivo per gravi violenze domestiche nei confronti della signora Marta Cupini e del figlio Giuseppe. La città era in lockdown totale, i droni sfrecciavano per le strade del centro storico e i corrieri, arruolati per la distribuzione dei viveri, erano stremati e trovavano refrigerio nella sosta al bar del bivio, unica zona di tutta la città, considerata totalmente derattizzata, nonostante quell'episodio di circa un mese fa. Nel frattempo, Giuseppe era stato affidato alla maestra Anna, dato che non correva più alcun pericolo. Eppure, su quella riva, dal calar del solere al sorgere del buio, io, quelle grida stridule, le ho continuate a sentire e ho visto quel bambino che calciava il suo pallone fin dove le piante si perdono nell'acqua e l'ho sentito parlare e dire grazie al suo piccolo e fedele esercito di amici che, sul far della notte, rientrava alla base, dall'altra parte del fiume, nuotando fiero.
Fabio Giardinetti
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