Marionette.
“Questo mio amore, inutile come un ombrello in una splendida giornata di sole, lo porto con me ovunque vada. Mi ripara dagli sguardi della gente che non ti ha mai conosciuta, dalle parole senza significato che ascolto ogni giorno, dalle vane illusioni che mi assalgono ogni volta che vedo una donna che ti somiglia e, mentre il ricordo di te passa attraverso gli occhi e m'intasa l'anima, la vita brucia ad ogni passo e mi consuma, mi stravolge l'umore, mi devasta la coscienza e si prende gioco della mia mente. Ora che non ci sei più, il mio viso allo specchio riflette l'immagine di un uomo fallito, che aveva la felicità a portata di mano e non se ne è reso conto. Tu mi hai donato la tua vita e la tua morte, e io non so cosa farne di questo tesoro, non riesco a sentire nient'altro che il vuoto della tua assenza. Vivo in una specie di terra di confine tra la rassegnazione e il desiderio di vendetta, sopraffatto continuamente dalla mia stessa indecisione, refrattario ad ogni minimo accenno di emozione, succube di un rimorso atroce al quale non riuscirò mai a sottrarmi. Ti ho lasciata andare da sola senza avere il coraggio di seguirti, ho assistito inerme al tuo addio, ho pianto come un moccioso, ho bestemmiato e urlato al cielo la mia disperazione ma sono sopravvissuto e questo non me lo perdonerò mai. Lurido amante senza onore! Non è la morte ad averci separati, non è la malattia, non è la volontà di Dio e nemmeno il destino avverso: sono io la causa di tutto! Io dannato! Se quella mattina nella Cattedrale di San Gregorio mi fossi lasciato convincere a sposarti, forse a quest'ora saresti ancora qui, accanto a me. Avremmo avuto dei figli, una casa tutta nostra, un futuro da condividere e invece mi ritrovo a scrivere queste parole che tu non leggerai mai e che saranno il mio tormento estenuante, da adesso fino alla fine dei miei giorni.” Distesa sul letto, Marlene rileggeva in continuazione il foglio spiegazzato che Jack le aveva consegnato e che, quasi certamente, Kaspar aveva strappato in tutta fretta da quel quaderno ingiallito su cui annotava i pensieri e i ricordi della sua storia d'amore con Olga. In quelle parole cercava disperatamente un segno, un indizio, una minima traccia che potesse, in qualche modo, aiutarla a trovare quello che stava cercando. Allo stesso tempo, però, era affascinata dal profondo significato e da quello struggente romanticismo che ne impregnava ogni singola sillaba: lo stretto legame tra l'amore e la morte, quel connubio affascinante che l'aveva stregata sin dai tempi del liceo. Rifletteva sulla sua condizione e paragonava il suo sentimento nei confronti di Giugiù a quello che trapelava da quel testo. Sarebbe mai stata in grado di provare tanta passione nei confronti di un essere umano? Non seppe darsi una risposta ma, al contrario, le sue considerazioni la posero di fronte ad un'ulteriore domanda, se possibile ancor più complessa della precedente: il bambino che stava per nascere era davvero frutto dell'amore come diceva Marta o le sue erano solo parole pretestuose? Erano tanti i particolari di quella storia che non quadravano. Tra questi, il più inquietante riguardava l'uomo che aveva prelevato Kaspar dal suo appartamento, il messaggio che aveva lasciato per lei e quel dettaglio relativo alla sua voce metallica. Che la clonazione umana da parte de “la cuspide” fosse molto più avanzata di quanto le era stato detto? La sensazione di essersi infilata in un tunnel senza uscita cresceva minuto dopo minuto mentre quelle trecentotrentatre parole scritte da Kaspar, come uno stillicidio, scavavano un solco sempre più profondo nella sua mente. Andò avanti così per quasi un'ora, distesa sul letto a leggere quel foglio, cercando collegamenti e associazioni di idee tra intere frasi e singole parole, fino a quando si rese conto che la catena e la concitazione degli eventi l'avevano sfiancata a tal punto da farle perdere lucidità e obiettività. Fece una doccia, indossò la tuta, uscì dalla sua camera e raggiunse il bar dell'albergo, un piccolo ambiente separato dalla hall per mezzo di una porta di vetro, a quell'ora completamente deserto. Al suo interno, oltre ad una giovane barista, c'erano due tavolini e un divanetto, un bancone lungo all'incirca un paio di metri, due sgabelli di metallo e un frigo per i gelati. Dopo aver ordinato il solito gin tonic, Marlene si accorse che, quasi nascosto in un angolo, c'era un pianoforte verticale; così, dopo aver chiesto il permesso per suonare qualcosa, si sedette e improvvisò uno swing. Era molto brava e, nonostante non avesse molte occasioni per suonare, se la cavava ancora alla grande. Intanto Giulia, che dalla camera di fronte a quella di Marlene aveva seguito tutte le sue mosse, aveva raggiunto la hall dell'albergo prima di lei e da lì aveva osservato tutto. Quando vide la ragazza sedersi al piano, pensò che fosse quello il momento giusto per entrare nel bar e mettere in atto i suggerimenti che le aveva dato Lorenzi. E così fece, ordinò una Coca Cola e si sedette al bancone. Quando Marlene ebbe terminato il brano, applaudì quel tanto che bastò per attirare la sua attenzione. Poi, prese il bicchiere in mano e le si avvicinò. - È davvero brava! - le disse, mentre continuava ad avanzare. Solo quando Marlene si voltò per osservarla, continuò il suo discorso. - Mi perdoni la sfacciataggine ma vorrei chiederle una grossa cortesia. - Marlene annuì con un cenno del capo. - Mia madre suonava il piano ed era brava quasi quanto lei. Ha provato in tutti i modi a trasmettermi questa passione ma io non ne ho mai voluto sapere. Oggi fa esattamente un anno che è venuta a mancare. Sono lontana da casa per lavoro e non ho potuto nemmeno portare un fiore sulla sua tomba. - le disse in tono sommesso. Poi fece una breve pausa. - Conosce “My Funny Valentine” di Rodgers e Hart? - riprese. - Vorrebbe suonarla per me? Era la sua canzone preferita. - Marlene sorrise. - È fortunata - rispose e le voltò le spalle per iniziare a suonare. Le sue dita sfiorarono i tasti con la stessa leggerezza di un battito d'ali di farfalla e le note di quella struggente canzone risuonarono nell'aria viziata del piccolo locale trasformandolo, per qualche attimo, in un angolo di paradiso. Giulia, dal canto suo, ascoltò a bocca aperta tutta l'esibizione, come in preda ad un incantesimo, incapace di muoversi. Cinque minuti di pura magia, durante i quali l'emozione e il sogno si sostituirono alla realtà. Anche la barista, dietro al bancone, smise di sistemare i bicchieri e ascoltò immobile quella meraviglia. Alla fine, applaudirono entrambe con entusiasmo e Marlene, come una consumata artista, si alzò in piedi e accennò un inchino di ringraziamento. Poi riprese in mano il suo gin tonic e si allontanò dal pianoforte per raggiungere il bancone del bar dove Giulia, qualche istante dopo, le si avvicinò. - Grazie! Grazie dal profondo del mio cuore - disse, con la voce rotta dall'emozione. Marlene le sorrise senza dire nulla e sedette sullo sgabello. - Mi permetta di offrirle qualcosa da bere. Mi chiamo Giulia, Giulia Norge - e le tese la mano. Marlene la fissò negli occhi e attese qualche secondo prima di stringerla. Poi si decise a farlo. - Piacere, Marlene - rispose - e dammi del tu, che ad occhio e croce siamo quasi coetanee. - Giulia prese posto sullo lo sgabello accanto al suo. Aveva fatto in tempo a metter su un po' di mascara, quel tanto che bastava a far risaltare gli occhi azzurri, sicuramente il particolare più attraente del suo, per il resto, normalissimo viso. I capelli biondissimi, lunghi fin sulle spalle, tradivano le sue origini nordiche, così come la carnagione chiara e le efelidi tra il naso e le guance. Aveva cercato invano nel suo borsone qualche indumento che potesse farla apparire sexy e attraente ma non era proprio il tipo di donna che faceva leva sull'aspetto esteriore per attirare l'attenzione. Così aveva optato, alla fine, per una camicetta rossa e un maglioncino a bottoni nero, un jeans attillato e scarpe con il tacco alto. L'unico vezzo che si era concessa era la camicetta sbottonata fino a lasciare intravedere il reggiseno di pizzo nero. - Sei una musicista? - riprese, dopo essersi seduta. - Non direi - rispose Marlene. - Comunque, sei bravissima. È stato emozionante. Per un attimo ho chiuso gli occhi e mi è sembrato che mia madre fosse accanto a me - disse, quasi con soggezione. Marlene la osservò a lungo mentre lo sguardo della ragazza puntava verso il basso. Le ispirava tenerezza, cosa abbastanza inusuale.
Gaetano Barone
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