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Autore: Micaela Caputo
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Racconti
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Era notte fonda e grossi e soffici fiocchi di neve scendevano dal cielo, volteggiando e ammantando ogni cosa con il loro candore. Un'anziana signora si aggirava tra le vie deserte di Domodossola, una piccola cittadina del nord Italia, lasciando piccole impronte dietro di sé.
Era diretta all'ospedale, l'ultima tappa prima di portare a termine la sua missione.
Quando varcò la soglia del reparto di pediatria, le infermiere di turno le sorrisero bonariamente come ogni anno e la lasciaro-no entrare, nonostante la tarda ora.
- Ce n'è uno solo - le disse una di loro, indicando una porta in fondo al corridoio.
Meglio così, pensò la donna.
Si sistemò il foulard che le copriva il capo, spazzando via la neve, poi raggiunse la stanza 103 ed entrò silenziosamente.
All'interno l'ambiente era buio, ma lei non faticò a distinguere un letto che pareva troppo grande per il piccolo corpicino che ci dormiva sopra, al centro della camera. Si avvicinò piano al bam-bino immerso nel sonno e lo osservò. Notò con dolore che era totalmente calvo e spaventosamente magro e una flebo era col-legata al suo esile braccino destro. Poteva avere al massimo cin-que anni e la donna capì che quel bambino stava combattendo una battaglia troppo crudele per la sua giovane età.
- Grazie per essere venuta - bisbigliò ad un tratto una voce femminile di fianco a lei.
L'anziana signora si voltò lentamente e scorse una sagoma indistinta, seduta su una poltrona affianco al letto.
- Sono Emma, piacere. E lui è Davide. -
La sconosciuta si alzò, premette un interruttore e, subito do-po, una flebile luce verdognola illuminò in parte la stanza. Si avvicinò all'anziana e le porse la mano.
- È quasi un anno ormai che Davide resiste alla malattia. È un bambino forte e ha voglia di vivere. Le sono grata per donargli qualcosa in cui credere ancora, prima che tutto questo lo faccia crescere più rapidamente del previsto, negandogli le gioie dell'infanzia. -
Gli occhi lucidi di Emma brillavano nella debole luce e una lacrima le rigò una guancia. La donna si avvicinò a lei e le posò una mano su un braccio, notando quanto fosse pallido il suo volto. Quelle guerre non si limitavano mai a consumare solo un piccolo innocente, ma intere famiglie.
- Ancora un po' di pazienza, e tuo figlio tornerà più forte e vivace che mai - bisbigliò, ben consapevole di quanto potessero sembrare inutili le sue parole.
Era sempre straziante venire a contatto diretto con situazioni del genere, ma molto tempo addietro si era ripromessa che, fino a quando avesse avuto fiato in corpo, quella sarebbe stata la sua missione, ogni anno: donare un po' di gioia a piccole vite piega-te da sofferenze ingiuste e immeritate.
La donna posò a terra l'ingombrante sacco scuro che aveva sorretto fino a quel momento sulla schiena e si mise a rovistare al suo interno, alla ricerca di ciò di cui aveva bisogno.
Quando si rialzò, si accorse che Davide nel frattempo si era svegliato e la stava fissando con dei bellissimi occhioni azzurri.
- Chi sei? - le chiese flebilmente il bambino, con la voce im-pastata dal sonno.
La donna posò nuovamente a terra il suo sacco.
- Piccolo mio - rispose, avvicinando una sedia al letto, - non sono in molti a conoscere la mia storia, ma tu meriti di essere uno di quei pochi. -
La donna lanciò uno sguardo ad Emma e, quando lei annuì dando il proprio consenso, si sedette e iniziò a raccontare.

***

Domodossola, 1964

Era un pomeriggio buio e freddo di novembre e Luisa, un'anziana signora sulla settantina, si trovava all'interno del ci-mitero di Domodossola e sedeva tristemente sulla tomba di suo marito, senza curarsi minimamente del gelo che le si insinuava attraverso i vestiti. Il suo amato Giorgio l'aveva abbandonata tre giorni prima e da allora lei non era riuscita a staccarsi da quel luogo, eccetto che per mangiare un boccone quando il suo sto-maco non era proprio più in grado di farne a meno.
Luisa si era innamorata di quell'uomo fin dal primo istante in cui le era stato presentato dalla sua famiglia, più di cin-quant'anni prima, e lo stesso valeva per lui.
Sebbene si fosse trattato di un matrimonio combinato tra fa-miglie benestanti, entrambi sapevano che non avrebbero potuto avere fortuna più grande. Infatti, anche se i rispettivi parenti non ne erano a conoscenza, Luisa e Giorgio si amavano ancor prima che la loro unione fosse decisa dai loro genitori.
E il loro amore, anche dopo cinquant'anni, non era mai cam-biato né venuto meno.
Per questo quel giorno, sulla tomba del marito, Luisa si sen-tiva così disperata e svuotata. Era come se una parte di lei fosse morta con Giorgio. Certo, sapeva che prima o poi sarebbe dovu-to accadere ma, dentro di sé e un po' egoisticamente, aveva sempre sperato di poter essere lei la prima ad andarsene. E inve-ce era andata diversamente. I dottori le avevano spiegato che si era trattato di un infarto fulminante. Giorgio non aveva soffer-to, era morto nel sonno, ma non era più lì a condividere gli anni della vecchiaia con lei. Ora era completamente sola al mondo.
Sia lei che Giorgio erano figli unici e il destino che era stato tanto generoso per quanto riguardava il loro matrimonio, non lo era stato altrettanto nel renderli genitori. Per quanto ci avessero provato, non erano mai riusciti ad avere figli. Così, a set-tant'anni, Luisa si ritrovava un vuoto immenso sia dentro che intorno a lei, e questo la spaventava immensamente.
Cosa avrebbe fatto adesso? Come avrebbe impiegato le sue giornate, senza il suo Giorgio, il suo ottimismo e il suo affetto?
Una cosa la sai fare davvero bene, Luisa.
La donna quasi cadde dalla tomba di marmo per lo spavento. Suo marito le stava seduto di fronte e le aveva parlato, sorri-dendole. Le si riempirono gli occhi di lacrime per la gioia, ma subito se li strofinò con vigore, percependo di avere un'allucinazione. Quando li riaprì, però, Giorgio era ancora lì accanto a lei.
- Com'è possibile che tu sia qui, mio caro? - sussurrò Luisa, senza più riuscire a trattenere le lacrime.
Io sarò sempre con te, amore mio. Non devi avere paura. An-che se non potrai più vedermi né toccarmi, io ti starò sempre vi-cino.
- Io non sono nulla senza di te. -
Il suono della risata profonda e sincera del marito la com-mosse.
Sai benissimo che questo non è vero. Sei una donna incante-vole, anche senza di me. Sei intelligente, buona ed altruista. E, inoltre, anche un'ottima pasticcera. Ricordi i cioccolatini di ogni variante immaginabile che mi preparavi ogni giorno? Erano magnifici, i più buoni che io abbia mai assaggiato. Potresti im-piegare il tuo tempo facendoli per qualcun altro, ora. Potresti aprire un negozio di dolci. Scommetto che conquisteresti tutta la città in pochissimi giorni.
- Ne sarei capace, secondo te? -
Assolutamente sì. Vai, adesso. Io non mi perderò nemmeno un secondo dei tuoi progressi.
Luisa si alzò, continuando a piangere. Non voleva allontanar-si dal marito, anche se le sue parole l'avevano rassicurata un po'. Osservò attentamente i suoi capelli ormai argentati e il suo volto segnato dalle rughe. Ognuna di esse rappresentava il ricordo di un'esperienza della loro vita passata insieme, che lei avrebbe cu-stodito per sempre nel suo cuore.
- Grazie, mio caro. Ma io non voglio lasciarti. -
Ti starò sempre accanto, te lo prometto.
Luisa guardò dinanzi a sé, cercando di scacciare le lacrime che minacciavano di sgorgare nuovamente dai suoi occhi.
- Ti amerò per sempre, Giorgio. -
Ma quando si voltò, di suo marito non c'era più traccia.
Con un nodo alla gola, si diresse verso l'uscita del cimitero e, dopo tre giorni di assenza, fece finalmente ritorno a casa, un'ampia villa con parco, poco lontano dal centro della città.
Per quanto cercasse di farsi forza, ogni cosa intorno a lei le rammentava l'assenza del marito. Dalla poltrona sulla quale Giorgio era solito leggere il giornale ogni mattina, alla sua im-mensa libreria in salotto, le sue penne, i suoi indumenti, tutto.
Mentre si aggirava fra le stanze cercando di ignorare i ricordi che lottavano violentemente per riaffiorarle alla mente, Luisa continuava a pensare all'idea di cui le aveva parlato poco prima il marito.
Doveva ammetterlo, era davvero brava con il cioccolato e quella era una delle cose che aveva sempre adorato fare, fin da bambina. Non le sarebbe dispiaciuto aprire una piccola bottega di dolci. Non lo avrebbe fatto per ricavarci dei profitti, di quelli ne aveva già abbastanza.
Sia lei che Giorgio derivavano da famiglie benestanti. Suo suocero aveva ereditato da giovane numerose cave di granito e marmo appartenute al padre e, prima ancora, al bisnonno e al tri-snonno, le quali erano state poi tramandate a Giorgio in seguito alla sua morte.
La famiglia di Luisa, invece, possedeva da diverse genera-zioni svariati terreni che venivano affittati ai contadini per la coltivazione della seta e del lino.
Alcuni anni dopo il loro matrimonio, a distanza di pochi me-si, sia Giorgio che Luisa avevano ereditato l'intero patrimonio delle rispettive famiglie. Dopo averci pensato attentamente, la donna aveva deciso di vendere le proprie proprietà ad alcuni ricchi uomini d'affari della città, ricavando degli ottimi profitti. Suo marito, invece, aveva mantenuto le cave e si era occupato di esse fino a dieci anni prima, poi, troppo stanco per continuare e non avendo eredi, le aveva vendute tutte, eccetto una, ad un'affermata società.
La cava restante aveva deciso di donarla a Luigi, un giova-notto molto sveglio che lavorava per lui da diversi anni. Luigi era orfano e se poteva considerarsi ancora vivo doveva solo rin-graziare Giorgio che, una mattina, l'aveva trovato in un fosso a poca distanza da una sua cava, denutrito e in punto di morte, ad appena due anni. L'uomo lo aveva sfamato e vestito, poi l'aveva affidato ad un istituto, nella speranza che i suoi genitori potes-sero farsi vivi, gli aveva pagato le migliori scuole e, raggiunta la maggiore età, l'aveva preso con sé a lavorare. Era solito ripetere che quel ragazzo gli ricordava se stesso da giovane. Ambizioso e capace, era giusto che avesse una possibilità di affermarsi e ave-re una vita dignitosa.

Micaela Caputo

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