Prima di andare e altri racconti
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Il racconto di un ombrello.
Ehilà! Dove stai andando con passo così svelto? Attento, potresti farti male attraversando la strada. Questo è un quartiere pieno di auto, che sfrecciano senza sosta prestando poca attenzione ai pedoni come te. Ah, un tempo questo posto era una specie di oasi felice, fuori del caos del centro città. Bei palazzotti, di tre o quattro piani al massimo, con un po' di giardino intorno. Quanto basta per qualche albero a fare ombra, nei mesi più caldi, ai gatti sempre in cerca di qualcosa da mangiare. Strade pulite, marciapiedi ampi, una scuola elementare in fondo al viale principale, dalla quale proveniva a mezzogiorno in punto il suono squillante della campanella. È qui che sono nato, nel negozio della signora Pina, proprio davanti alla villa comunale, dal lato che oggi ospita il nuovo centro commerciale. Ci avevano messo molta cura nel cucirmi. Spicchi di stoffa impermeabile di vari colori erano stati cuciti insieme fino a formare un grande cerchio dai contorni smussati. Al centro era stato inserito il manico, che poteva bloccarsi a due diverse lunghezze. Scatto meccanico per l'apertura e, nella parte più alta dello spicchio rosso, il logo a forma di quadrifoglio. "Che bell'ombrello!" - disse la Signora Pina quando il fornitore mi tirò fuori dalla sua vecchia valigia degli articoli da proporre. Mi notò subito, nonostante accanto a me ci fosse una bella sciarpa di lana con frange lunghe e morbide e due piccole borse da trucchi e profumi, ricamate a mano. Fragranti di piacevoli odori, per via dei campioncini di colonia e di dopobarba che per giorni erano stati i loro compagni preferiti nei viaggi di rappresentanza. La signora Pina mi prese e mi rigirò fra le mani, da donna che non disdegnavano il lavoro pesante quand'era necessario, e mi guardò con attenzione. Disse che le rifiniture erano di pregio, che avrei potuto essere suggerito come un utile regalo di compleanno. Vendendomi avrebbe guadagnato una bella sommetta, considerato che l'intelaiatura era robusta e il manico era di lucida radica. Quindi finii nella vetrina, e ne fui felice davvero. Da quella posizione potevo vedere il palazzo di fronte e la strada principale lungo la quale, superati i giardini, si arrivava fino alla scuola. Ogni mattina, quando la Signora Pina sollevava la saracinesca del negozio, ero svegliato dai raggi del sole. Sentivo il profumo del caffè che proveniva dal bar poco distante, e udivo le voci dei genitori che accompagnavano i loro piccoli all'ingresso della scuola. Dopo le nove iniziava la parte più tranquilla della giornata. Vi era poco movimento per strada e nel negozio. Solo le telefonate della signora Pina a sua figlia mi tenevano un po' di compagnia. Leila viveva in Svizzera, da quando il suo giovane marito aveva trovato lavoro in una piccola ditta di ricambi d'auto, alle porte di Berna. Tornava a casa per brevi vacanze, a ogni Natale e Ferragosto, ma raccontava puntualmente della sua vita alla madre chiamandola tre o quattro volte la settimana. Diceva di come si fosse sistemata bene nella sua nuova casa, che lei e suo marito stavano pensando di avere un figlio, oppure parlava della sua nuova vicina, anche lei italiana di un paese della Romagna, o del vestito che aveva comprato per andare a teatro a vedere uno spettacolo di prosa che stava riscuotendo molto successo in tutta la città. La signora Pina ascoltava, per lo più in silenzio, annuendo di tanto in tanto con un filo di voce per dare alla figlia la certezza che stesse ascoltando ogni sua parola. Avrebbe voluto dirle che, da quando era partita, suo padre, il signor Carlo, si era intristito parecchio e che preferiva passare le serate davanti alla tivvù con le sue inseparabili sigarette, invece di fare una passeggiata sul lungofiume, alla luce dei vecchi lampioni che tanto ricordavano la sua giovinezza. Avrebbe voluto dirle che gli affari non andavano più bene come una volta, che la gente del quartiere stava cambiando e preferiva i centri commerciali ai negozietti di provincia e che, si diceva, prima o poi ne avrebbero costruito uno anche lì. E poi avrebbe voluto confessarle che il tempo, passando inesorabile, le aveva regalato un mal di schiena insistente, soprattutto di sera quando era stanca per un'intera giornata passata dietro il bancone a sorridere forzatamente a tutti i clienti, e che i suoi occhi facevano fatica a leggere le lettere più piccole di un articolo di giornale, e così necessitavano di un paio di occhiali dalle lenti sempre più spesse. Oh sì, avrebbe potuto, ma teneva per sé tutte le preoccupazioni, nutrendosi dell'euforia della figlia ancora alla scoperta della sua nuova realtà cittadina, molto diversa da quella natia. La signora Pina, invece, era nata e cresciuta nello stesso quartiere. Conosceva ogni angolo di strada, ogni odore proveniente dai cortili delle case lungo la strada che percorreva ogni mattina per raggiungere il piccolo negozio. Non era mai stata in una grande città. Invecchiava e non avrebbe mai conosciuto un posto diverso da quello. A mezzogiorno la strada davanti al negozio si affollava di persone frettolose che si concedevano la pausa pranzo e ne approfittavano per fare la spesa, pagare le bollette all'ufficio postale, incontrare un amico e bere insieme qualcosa, prima di rituffarsi nel lavoro, in ufficio. Qualcuno sbirciava disattento nella vetrina del negozio, senza mostrare alcun segno di interesse per la merce in esposizione, che la signora Pina aveva amorevolmente sistemato con cura. Erano pochi quelli che entravano per comperare qualcosa. La maggior parte delle volte erano piccole cose come bottoni, lampadine, taccuini e, nei mesi più caldi, ventilatori da tavolo o da borsetta. Alle quattro del pomeriggio lo scenario cambiava completamente. Allora sì che mi sentivo un attore nel ruolo principale della commedia. I bambini tornavano a casa dal tempo prolungato della scuola elementare e, curiosi, tiravano il braccio della mamma per raggiungere la vetrina e spiaccicare il naso contro il vetro, umido di condensa. Guardavano attentamente ogni oggetto e partivano con la fantasia per viaggi immaginari, quelli che solo ai bambini è dato intraprendere. Così i guanti di lana e di pelle nella vetrina li immaginavano indossati per stare al caldo, nella slitta tirata da splendidi cani Husky alla ricerca della casa di Babbo Natale. La cornice di legno colorata sarebbe stata utile per metterci le foto di tutta la famiglia, di ritorno da un lungo safari fotografico nelle terre africane. Il carillon con i cavalli di gesso bianco avrebbe potuto suonare la canzone magica del primo appuntamento col ragazzino brufoloso di cui, di lì a poco, tutti avrebbero dimenticato persino il nome. Io ero proprio al centro della vetrina in bella mostra, appoggiato a un bastone da passeggio intarsiato. Cercavo di attirare l'attenzione dei giovani passanti e delle loro famiglie mostrando la vivacità dei miei colori e la lucentezza del mio manico. Se avessi avuto una bocca avrei di sicuro sorriso, invitandoli ad entrare. Era un pomeriggio di pioggia quello in cui Annabella e la sua mamma entrarono nel negozio. La piccola aveva lo zaino sulle spalle e un giubbotto con il cappuccio che le incorniciava il viso. Avevano fatto una corsa dal cancello della scuola ai giardini per cercare di bagnarsi il meno possibile. I goccioloni, nascosti dietro le grandi nuvole biancastre per qualche ora, avevano deciso di scendere a terra proprio al suono della campanella, cogliendo tutti di sorpresa. Ma ad Annabella la pioggia non dispiaceva. Portava profumi diversi dal solito, che riempivano le strade della città, e le narici. Comunque la sua casa si trovava dall'altro lato dei giardini, a circa dieci minuti di cammino, ed era impensabile di andarci a piedi senza ripararsi. La mamma chiese di vedere un ombrello. Aveva bisogno di un modello piuttosto grande, che potesse accoglierle entrambe e tenerle all'asciutto per un po'. Immaginatevi la gioia della signora Pina nel prendermi dalla vetrina, annoverando le qualità del tessuto, delle rifiniture e del manico. Non ci volle molto per convincere la mamma di Annabella ad acquistarmi, anche perché il bisogno di vendere aveva spinto la signora Pina ad abbassare il prezzo di molti degli oggetti in vetrina, anche il mio. Così uscii da quel negozio che era stata la mia prima casa, pronto a vivere la mia nuova vita insieme ad Annabella. Mi trovarono un posticino all'ingresso del loro appartamento, in una specie di spogliatoio insieme a cappelli, cappotti, sciarpe, pantofole, che aspettavano pazienti il rientro serale dei loro padroni. Non era male anche perché, da quel luogo, era possibile ascoltare tutte le conversazioni al telefono, che era poco distante, tra la porta del soggiorno e quella dell'ingresso. Erano molto diverse dalle confidenze che si scambiavano la signora Pina e sua figlia Leila, ma altrettanto interessanti. Il papà di Annabella lavorava sulle navi da crociera e stava lontano da casa per lunghi periodi di tempo. Chiamava spesso e raccontava dei porti in cui sbarcava, di gente e usanze diverse, dei regali che qua e là comprava per la sua famiglia. Le notizie erano tante e fintanto cha parlavano nessuno aveva tempo per la nostalgia. Però era dopo le telefonate che la mamma si sedeva al divano, con lo sguardo perso nel vuoto. Qualche volta una lacrima le rigava il viso. Forse aveva immaginato una vita coniugale più semplice, più intima e spensierata, ma il lavoro di suo marito le permetteva comunque di mandare Annabella a lezione di pianoforte, di frequentare una palestra, e a lei di recarsi dall'estetista ogni dieci giorni. Quante volte si era chiesta se queste comodità erano davvero più importanti di una passeggiata con suo marito, mano nella mano, come quando erano compagni di università e così tanto innamorati, all'inizio della loro storia. A volte a telefonare era la nonna della piccola che, rimasta vedova, aveva deciso di lasciare la città e si era trasferita in una villetta sulla costa. Aveva scoperto le gioie del vivere a contatto con la natura. Nonostante la sua veneranda età usciva in barca a pescare e passava le serate sulla veranda, alla luce di una lanterna, con una coperta sulle gambe. Spesso si addormentava lì seduta e si risvegliava all'alba, alla vista di un mare ancora immobile e silenzioso. Chiamava per avere notizie di Annabella e dei suoi progressi scolastici. Voleva sentire la sua voce e le prometteva puntualmente di venire in città al suo primo concerto. Ero diventato l'amico inseparabile delle giornate di pioggia e, goccia dopo goccia, avevo visto Annabella crescere e cambiare. Era diventata una bella ragazza, dai capelli corvini e gli occhi grandi. Il suo incedere elegante faceva già pensare alla donna dolce e sensibile che sarebbe stata pur nell'alternarsi, a seconda delle occasioni, di un abbigliamento da maschiaccio o da ragazza perbene. Sua madre le aveva regalato un'auto usata per andare all'Università, che si trovava dall'altra parte della città. Annabella ne aveva fatto la sua seconda casa. Ci teneva libri e CD, insieme alla tuta da ginnastica che indossava per fare jogging nel parco, a un maglione di lana per i pomeriggi troppo freddi, a qualche fermaglio per i capelli e, spesso, anche insieme a me. Riposavo sul sedile posteriore e qualche volta mi acquattavo sul fondo dell'auto per fare posto a un'amica. Ripenso a quei tempi con un po' di malinconia. Ero un ombrello rispettato, avevo un mio ruolo e lo svolgevo al meglio. Ho riparato Annabella in mille occasioni. Ricordo che le ho conservato asciutto l'abito nero indossato per la festa di laurea della sua migliore amica, permettendole di attraversare il viale della grande villa senza problemi. Che bella quella sera, sotto i miei spicchi colorati i suoi occhi sembravano più grandi del solito. Ero con lei anche quando Matteo le ha dato il primo bacio. Pioveva incessantemente da ore e Annabella mi ha aperto per raggiungere la sua auto, alla fine di una lezione universitaria. È stato Matteo a fermarla, tenendola per un braccio. Gli occhi negli occhi, il silenzio imbarazzante, la pioggia che scendeva senza badare a un amore sbocciava proprio in quel momento, come in un film. Ma quando tutto sembrava andare per il meglio la mia vita prese un'altra direzione, inaspettata. Matteo aveva iniziato a frequentare la casa di Annabella e aveva conosciuto anche sua nonna. Il papà aveva ottenuto di lavorare per la stessa Compagnia navale, ma a terra per alcuni periodi dell'anno, così da poter godere di una maggiore intimità con sua moglie. Era marzo, e Annabella era uscita a fare compere nel nuovo centro commerciale, costruito proprio accanto ai giardini comunali. Aveva smesso di piovere, ma il cielo non prometteva nulla di buono. In lontananza si udivano ancora i tuoni e grossi nuvoloni grigi non mostravano la minima intenzione di allontanarsi e lasciare posto al sereno. Perciò Annabella aveva deciso di portarmi con sé, per precauzione. Mi aveva riposto con cura nel portaombrelli di una profumeria per poter curiosare più liberamente tra gli scaffali delle offerte, quando Matteo arrivò alle sua spalle facendole una sorpresa. Si buttarono le braccia al collo vicendevolmente e Annabella, avendo occhi solo per lui, lasciò il negozio dimenticandosi di me. Ci sono momenti in cui poter parlare cambierebbe il corso delle cose. Ma noi ombrelli non possiamo e così, all'ora di chiusura, rimasi solo in quella specie di grande vaso mentre tutte le luci intorno a me si spegnevano, l'una dopo l'altra.
Giulia Calfapietro
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