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Autore: Filippo Carini
Il Tesoro di San Leo
Narrativa
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Il Tesoro di San Leo
La civetta.

Sulla montagna che sovrasta il villaggio appiccarono il fuoco. Il vento alimentò le fiamme che si alzarono spaventose e ridussero molti ettari di bosco in carbone.
I conigli selvatici finirono arrostiti, e con loro altri animali colti di sorpresa non sfuggirono al rogo.
Ma la civetta resistette con caparbietà e non abbandonò il nido che da anni condivideva con la propria prole. Rimase nell'anfratto di quel vecchio rudere che ospitava i pastori quando scampavano all'improvviso temporale.
Il sottobosco appariva ormai nero come la lava spenta dell'Etna. Gli alberi, i pochi che si salvarono, apparvero asciutti dall'arsura e contorti come le carcasse delle bestie che si incontrano abbandonate sotto l'insostenibile sole del deserto. I rami, protesi verso il cielo, mostravano poche foglioline come se chiedessero protezione al Signore, perché non li abbandonasse al loro triste destino. Sembrava proprio che lo implorassero affinché li lasciasse sopravvivere e non servissero solo da comodo appoggio ai corvi, che vi sostavano scrutando il suolo alla ricerca affannosa di carogne disseminate lungo il disastro operato dal fuoco.
La devastazione che aveva scacciato il verde, i vividi colori delle rose selvatiche e le ginestre, aveva ferito l'orgoglio dei villeggianti che ne avevano tratto vantaggio dal pregio di quel sottobosco, dal quale avevano ricavato sostentamento. Ora si domandavano se avessero raccolto ancora l'origano dal profumo intenso, essenziale nel condimento dell'insalata, e se il tartufo nero avesse più attecchito all'ombra della macchia mediterranea.
Per questo, maledicevano chi aveva appiccato il fuoco, consapevoli che prima che rinascesse l'erba, bisognava attendere la fine dell'estate e le piogge d'autunno, ma non avrebbero rivista la splendida macchia mediterranea dai colori cangianti se non fra decine d'anni.
La civetta non si fece intimorire da tutti quei problemi, ma fu costretta a modificare le sue abitudini, volgendo l'interesse al villaggio sottostante, attirata dal buon odore frammisto al fumo che si levava dai camini delle case. Si spinse volteggiando sui tetti e scoprì che quella gente buttava, nei contenitori della spazzatura, tante cose buone. Giudicò opportuno approfittarne e si attardò a spolpare un osso d'agnello che trovò gustoso.
- Che bella soddisfazione - Avrà pensato - Trovo tranquillamente il pasto senza il rischio che comporta la caccia!
Però, tanto per non tradire le proprie origini, emise un lugubre lamento che fece accapponare la pelle a tanta gente.
Da quel momento, iniziarono i problemi sia per la civetta sia per gli abitanti del villaggio. Il verso stridulo della civetta era l'ultima cosa al mondo che desiderassero sentire, perché simboleggiava un chiaro segno del destino e temevano che portasse male a qualcuno di loro. Ogni mattina, le donne s'incontravano alla fontana dove attingevano l'acqua con le brocche di creta, e, non disdegnando i pettegolezzi, in breve si confidavano gli immancabili tradimenti di alcune coppie irrequiete e di chi, la notte, avesse patito il dolore matruni. Così definivano il mal di pancia provocato da un sostanzioso pasto a base di peperoni e melanzane fritte. Se fosse rimasto tutto come prima sarebbe stato sufficiente bollire due foglie d'alloro e qualche buccia di limone per alleviare il dolore. Ma ora s'era messa di mezzo la civetta e da quando aveva iniziato con i suoi strilli ad emettere le terrificanti sentenze, non si sentirono più tranquilli, perché dietro il matruni si poteva nascondere qualche insidia più grave. Tuttavia, continuarono a chiedere aiuto ad Antonina che da parte sua si rese disponibile e, affabile com'era, mise a disposizione il suo sapere. Furono giorni duri anche per lei, perché fu talmente impegnata a recitare l'orazione del mal di pancia tanto che la brocca piena d'acqua non bastò più a dissetarla, e la lingua s'ingrossò per l'arsura tanto da impedirle di pronunciare chiaro le parole.
L'orazione era sempre la stessa e Antonina la recitava con enfasi.
- Fatti ‘u signu di la cruci! - diceva.
Poi attaccava con la filastrocca: “ ‘u Signuri vinìa da Francia cu' ‘na spada e cu' ‘na lancia. ‘N casa ‘i mal'omu circò ‘i ripusari, ma d'omu tintu non l'intinniu ospitari: a manciari ci detti reschi ‘i pisci, ‘stu duluri mi ci sparisci! A biviri ci detti acqua rasa, ‘stu duluri mi ci scasa! Pi' dormiri ci jttoi pagghia spasa, ‘u duluri fora ‘i ‘sta casa! ‘N nomi di lu Patri, di lu Figghiu e di la Santissima Trinità, ‘stu duluri mi si ‘ni và!”
Gli uomini, la sera sedevano sul sedile nell'attesa dell'ora di cena, mentre l'ombra della montagna avvolgeva la vallata in un gradevole abbraccio rendendo piacevole la conversazione. Si lamentavano per lo scarso raccolto di quell'anno e addossavano la colpa agli americani. Sostenevano che le diavolerie lanciate nello spazio allo scopo di scoprire altri pianeti e sperimentare nuovi prodotti, senz'ombra di dubbio, avrebbero compromesso gli equilibri che la natura aveva sapientemente costruito nei millenni. Esprimevano il loro pessimismo per la nuova generazione e giudicavano esigue le speranze di salvezza. Chi avesse avuto la fortuna di sopravvivere, avrebbe trascorso parte della propria esistenza dal medico o, ancor peggio, in ospedale, nell'attesa degli organi compatibili, come si trattasse di pezzi di ricambio per auto acquistati dallo sfascia carrozze! Alla fine, il discorso cadeva immancabilmente sulla civetta che da un po' di notti imperversava in paese.
- A poco a poco moriremo tutti! - sentenziò mastro Tano.
Prontamente giunsero i dovuti scongiuri. Don Ciccio, al quale, a causa di un male, il chirurgo gli aveva asportato i testicoli, non sapendo cosa toccare, palpò l'ernia di mastro Mariano l'ovaio. Gli altri se n'accorsero e si generò una fragorosa risata.
Finiamola! - urlò zio Vanni - La faccenda è veramente seria e voi la prendete a gioco?
Ad un tratto le loro facce si scurirono e, a testa bassa, come se si fossero vergognati per l'accaduto, annuirono riconoscendo la gravità del momento, e per un po' stettero in silenzio riflettendo su come risolvere il loro grave problema.
L'argomento era tanto delicato, ma proprio per questo non c'era da perdere tempo e dovevano affrontarlo con decisione.
Dobbiamo studiare come eliminare quella brutta bestiaccia! - disse mastro Cosimo.
Ben detto! - Convennero gli altri.
Furono tutti d'accordo, ma non sapevano cosa fare. Alla fine concordarono che non vi fosse scelta migliore oltre a quella violenta: colpire per non soccombere! Già avevano avuto le prime avvisaglie della pericolosità di quel lugubre avvertimento e non potevano vivere con l'ansia che li attanagliava.
A causa dell'inquietudine, tanta gente si affollava all'ambulatorio del dottor Ebano, - lo chiamavano così perché era piccolo di statura e per la strana somiglianza con l'omino stampato sulla scatola di un lucido da scarpe -. E il dottor Ebano, non sapendo che fare, prescriveva lassativi, purghe e le gocce per l'insonnia. Terapia salutare d'assoluta tranquillità che però il dottore, giudiziosamente, in certi casi sostituiva con blande tisane di foglie d'alloro, da somministrare anche tre volte il giorno, con la matematica certezza che lo stomaco dei pazienti, completamente svuotato da ogni impurità, sarebbe stato pronto ad affrontare l'urto con quanto di più pesante avrebbe ricevuto. Il dottor Ebano si fregiava esporre nello studio l'attestato di laurea con quel bel voto conseguito: centodieci e lode, ma nonostante il suo impegno per la medicina, non disdegnava, a volte, di curare i pazienti a base d'erbe medicinali. Contro il mal di testa, al posto dell'aspirina, prescriveva caffè caldo amaro con l'aggiunta d'una strizzatina di succo di limone. L'intruglio non aveva un buon sapore e provocava un certo disgusto, tanto da far dimenticare il mal di testa.
Se non passa, - diceva scherzando - andate da Antonina a farvi cogliere il malocchio, altrimenti, per ultima analisi, non vi rimane che l'ospedale!
Ma la gente ci andava lo stesso dall'Antonina anche senza la velenosa insinuazione del dottore, e si sottoponeva volentieri a quelle cure ataviche che altri avevano positivamente sperimentato ancor prima che prendesse piede la scienza medica.
Antonina! Mi fa male la testa! - dicevano.
E la donna si prodigava, recitando con la massima serietà le orazioni che aveva appreso dalla vecchia madre.
Fatti ‘u segnu di la cruci! - diceva.
“In nomi di lu Patri, di lu figghiu e di lu Spiritu Santu. Amen!”
Poi proseguiva:
“Ci passu, ci passai da la funtana, su' li me vini ci vosi biviri. Pigghiu tri fogghi di la virdi rama, la jettu a mari e la fazzu spariri, la jettu ‘n tra li prufunni di lu mari e cu' lu duluri ‘i testa avi a ‘nfunnari! In nomi di lu Patri, di lu figghiu e di la Santissima Trinità, stu duluri mi si ‘ni va'!”
I pazienti, come per incanto, dopo la funzione acquistavano il sorriso e ringraziavano la donna per la generosa opera, perché Antonina si sentiva gratificata dall'affetto della gente e non accettava denaro. Sosteneva che per lei quella fosse una missione alla quale si sottoponeva per volere divino.
Ormai, stressati dall'indesiderato messaggio che tutte le notti la civetta trasmetteva, sia le invocazioni d'Antonina sia la terapia del dottor Ebano avevano perduto l'efficacia di un tempo. Alcuni ricorsero alle cure ospedaliere, perché, al timore che la civetta strillasse per loro, s'erano accentuati i battiti cardiaci, tanto da far temere ad un danno irreversibile. Altri pensarono di risolvere la faccenda tappandosi gli orecchi, per non udire il lugubre strillo, sperando così di lasciare il male fuori di casa. Ma la maggioranza continuava a preferire Antonina, credendo che per l'occasione sarebbero stati più utili gli ‘ngiarmi e le orazioni per contrastare la temuta iattura.
Gli uomini concordavano sempre più che fosse giunto il momento di eliminare l'intrusa, ma nessuno di loro manifestò la disponibilità all'azione, tranne Peppe 'u Lordu che senza indugio, si preparò a quella sfida.

Filippo Carini

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