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Autore: Fulvio Fronzoni
Il candore della luna
Narrativa
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Il candore della luna
Mi sveglio in preda al terrore, senza respiro e afflitto dal dolore. Un male atroce mi squarcia il petto e mi toglie la voce. Perso nel buio più nero, sono preso da un tetro pensiero: sta per spezzarsi il filo che mi lega alla vita.
Avverto stringente il bisogno d'aiuto e seppure io non credo, prego la grazia di Maria, supplico il Figlio e imploro l'Eterno.
Nel cupo silenzio del luogo e dell'ora, le mie preghiere sono voce greve e sonora.
Provo un tenue sollievo e mi lascio scivolare dal letto, avanzo a tentoni nella stanza, ma il dolore m'affligge, mi rode e mi strazia. Ogni passo è un'enorme sofferenza e impiego un tempo infinito per raggiungere la porta, dietro cui s'apre un lungo corridoio.
Ora, in questo camminamento, entro una fuga di porte tutte uguali, la luce accende una speranza. Odo suoni confusi, ovattati, lontani mille miglia, quando sento mancarmi le forze. M'adagio per terra sostenendomi alla maniglia d'una porta che s'apre.
Mi ritrovo sdraiato sul pavimento, accanto a un tavolo coperto da un telo. Dalla finestra penetra un tenue chiarore. La polvere copre ogni cosa, satura la mente e l'inquietudine torna a molestarmi, quando una puntura simile a quella d'un insetto senza ali che si nutre solo di sangue umano, mi trasporta nel Paese delle storie perdute, un luogo in cui si prova un meraviglioso senso di calma, rilassatezza, soddisfazione e distacco.
M'alzo, sorreggendomi allo schienale della sedia addossata alla scrivania su cui sono appoggiati un giornale, un biglietto ferroviario e una fotografia. Il giornale è una copia di Lotta Continua del luglio 1970 e ha alcune righe sottolineate in matita:
“C'è stato un lungo periodo in cui con questi ragionamenti criminali i padroni sono riusciti a dividerci e a disperdere la nostra forza. Noi e i proletari che sono venuti prima di noi, abbiamo lottato portando sulle spalle il peso dell'ingiustizia schifosa di questa società.”
L'inchiostro del biglietto è scolorito, ma la stazione e la data sono leggibili: Palermo 22 luglio 1970. La fotografia ritrae una ragazza e un ragazzo abbracciati e sorridenti davanti a un palco musicale. Sul retro ci sono scritti due nomi e una data: Jicky e Michelle, 27 agosto 1970.
Ripongo gli oggetti e provo ad aprire la finestra, ma è bloccata. Mi dirigo verso una porta e passando sollevo un telo che copre un jukebox Wurlitzer, s'alza un'asfissiante nuvola di polvere che m'entra negli occhi, nel naso e m'impasta la bocca. Tento di scostarmi, ma urto qualcosa e nella penombra, tra il pulviscolo che satura l'aria, scorgo la sagoma d'un uomo che mi spaventa. Mi volto di scatto e quando riconosco un manichino vestito con indumenti del settecento ricco di pizzi, dorature e ricami, respiro. È coperto da un manto di polvere e somiglia allo spettro d'un nobiluomo consumato dall'attesa. La sua fisionomia mi è familiare. Avverto la sensazione di conoscerlo e posso percepire il pensiero che, con voce calda e armoniosa mi penetra, mi scrolla e m'accarezza: “L'imperativo dello scrittore, intento a dar vita a un nuovo racconto, è continuare a nutrire nostalgia per le intuizioni che vengono dalla leggerezza del ricordo e da ciò che ha già scritto, patrimonio dell'inventario creativo, riserva preziosa per quando la fantasia avrà cessato di parlare. Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé, come nelle pagine d'un libro in cui si racconta di un profumo e di un Re.”
Accanto al manichino, appoggiata al muro, c'è una lapide di pietra su cui è inciso un insolito epitaffio:

NUL NE DIRA SUR MA TOMBE † 1844
SOFIA REVENISE
QUE TU FUS A PLAINDRE

Sotto, in caratteri più piccoli è riportato:

— PRIEZ DIEU POUR ELLE —

Sul pavimento ci sono sparse le pagine di un libro, ne raccolgo una sotto l'occhio vitreo d'un gufo impagliato.
Osservo la porta e penso a una ragione per aprirla. Sento volitivo il bisogno di mettere ordine nella mia mente e tirare fuori qualcosa dal vuoto che la riempie. M'accorgo di non avere ricordi. Mi domando se li ho cancellati per sfuggire a qualcosa che mi faceva soffrire o invece si sono allontanati solo un poco e presto torneranno, magari sono già qui, dietro questa porta che m'aspettano brulicanti. La speranza vince la paura, prendo un profondo respiro e abbasso la maniglia, spalanco la porta e m'irrigidisco.
M'appare una piccola e sudicia stanza con i muri dipinti di bianco, c'è anche un'altra porta e una finestra con le tapparelle alzate, ma la fitta nebbia impedisce di vedere cosa ci sia all'esterno. Una fioca luce evidenzia lo squallore della stanza dall'arredo in pratica inesistente. Sopra un tavolino traballante c'è una pila di testi sacri: la Bibbia, il Vangelo, le Lettere di San Paolo. Un altro libro è stato lasciato aperto sul bracciolo d'una poltrona impolverata con la fodera strappata, ha l'imbottitura che esce da ogni parte. La pulisco e mi siedo.
Fuori la nebbia s'è ingoiata la vita, all'interno della stanza la polvere ha coperto ogni cosa.
Osservo il foglio che ho raccolto, è la prima pagina d'un racconto: “La vacanza più bella”. 
Primo racconto
LA VACANZA PIÙ BELLA

Una profonda amicizia legava Giacomo e Giorgio, compagni di banco al Liceo Scientifico di Firenze, diversi nel carattere, ma con la stessa visione delle cose, del mondo e della vita.
Per molti mesi, i due amici non avevano fatto altro che pensare alla loro incredibile vacanza, premio per la promozione in quinta liceo.
Gli itinerari con l'autostop cambiano con estrema facilità e con essi i programmi, pertanto, il loro unico proposito era quello di raggiungere l'isola di Wight, per assistere al più importante festival musicale di tutti i tempi. Durante il viaggio, si sarebbero fermati alcuni giorni a Parigi e a Londra, ma tutto il resto era lasciato al caso.
Partirono da Firenze il 20 luglio e percorsero più di trecento chilometri arrivando a Genova che era notte. Sistemarono i sacchi a pelo in un prato ben curato non lontano dal casello autostradale e con l'afrore dell'erba e il sapore di libertà, s'addormentarono.
Alle prime luci del giorno, furono svegliati dalle urla sguaiate d'un guardiano infuriato. Confusi, insonnoliti e spaventati fecero spuntare il viso fuori dal sacco, si guardarono intorno e all'istante capirono d'essere in un campo da golf, ci misero un attimo a vestirsi, raccogliere le loro cose e scappare lungo la strada che costeggiava il green.
Quando furono abbastanza distanti si fermarono. Giorgio si girò e con tutto il fiato che aveva lanciò un grido: — Accidenti a i'becco di topà. — La voce giunse al guardiano che li rincorse dando in escandescenze.
Corsero fino a un bivio, si fermarono e dubbioso Giorgio domandò: — Da che parte andiamo? A destra o a sinistra? —
Decise Giacomo: — A destra verso il casello dell'autostrada. Parigi, il Sessantotto e la rivoluzione dei fiori ci stanno aspettando! —
Alle cinque del pomeriggio, attraversarono la frontiera francese su una Citroën Dyane d'un ragazzo diretto a Lione.

Ripongo il foglio sul tavolino e fisso il libro aperto sul bracciolo, ne sono attratto, anche se non comprendo la ragione. Prende forma l'idea che leggerlo possa aiutarmi a capire chi sono e cosa mi sta succedendo. Ho la sensazione che sia stato scritto da un misterioso autore che vuole parlarmi. Continuo ad osservarlo e penso che non debba essere un caso se è l'unico libro aperto, ma quando leggo il titolo “Il candore della Luna” sono preso dallo sconforto.
Galileo Galilei è stato il primo a scrutare il cielo con il telescopio e le scoperte riportate nei suoi trattati hanno ridisegnato il concetto d'universo. Le sue tesi hanno costituito il manifesto per rivendicare l'indipendenza della ricerca da ogni tipo di condizionamento, soprattutto religioso. In alcune sue lettere, lo scienziato sosteneva che i testi sacri non erano stati scritti per spiegare il modo con cui l'universo fu creato e le leggi in base alle quali esso funzionava, scoprirlo era compito di fisici e astronomi. Una chiara rivendicazione d'autonomia della scienza dalla fede, che però minava i dogmi su cui erano poste le fondamenta della religione.
Un dubbio blocca il mio ragionamento, non ricordo chi sono e come mai sono in questo posto e tuttavia sono capace di un'analisi complessa fondata su nozioni che riaffiorano alla mente per una rievocazione inconscia. Sembra che la mia memoria agisca in un modo differente a seconda del materiale che ho immagazzinato.
I testi sacri potrebbero essere serviti per un mio confronto sulle tesi dello scienziato. Il candore della Luna raccoglie alcune lettere scritte dello studioso al principe Leopoldo di Toscana, in cui l'uomo di scienza espone le sue idee sulla luce della Luna: “...mosso dal natural desiderio di spiegare le cause del suo splendido candore...”
Tuttavia, quando leggo il nome dell'autore resto sconcertato: non è Galileo Galilei. L'osservo e percepisco un suono familiare, il nome mi danza attorno come fosse un fantasma che mi rimprovera per la negligenza cui deve porre rimedio.
Non ricordo nulla del mio passato, potrei anche essere stato io ad analizzare i testi religiosi, ma poi considero che è impossibile: c'era troppa polvere sulla poltrona.
Inoltre, non comprendo la ragione per cui mi sarei dovuto impegnare in una ricerca tanto lontana dalle mie convinzioni. Non ho mai avuto simpatia per le teorie religiose e sono contro ogni forma d'ortodossia. Per natura, ho avversione nei confronti di chiunque voglia imporre le proprie idee, soprattutto quando non sono suffragate da prove di ciò che sostiene. Resto immobile a fissare la nebbia che diventa sempre più fitta, con la testa appoggiata allo schienale osservo l'ammasso omogeneo di minutissime gocce in sospensione che tutto nascondono, ma all'improvviso accendono una luce nella mia mente. L'opera di Galileo era intitolata “Sul candore della Luna” e non “Il candore della Luna”.
Avverto un senso di sollievo e riprendo il libro. C'è un solo racconto e deluso, inizio la lettura dalla seconda pagina...

Fulvio Fronzoni

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