Racconti davanti al camino
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Lo specchio d'acqua
Esistono luoghi, nascosti nelle più sperdute e inesplorate regioni del mondo, che rispecchiano la nostra anima. L'incauto viaggiatore o l'ardito esploratore che le scoprono ne entrano, in qualche modo, in possesso, stabilendo una sorta di simbiosi. Come di fronte a uno specchio deformante, i loro gesti sono amplificati e riflessi nelle fronde dei più teneri virgulti o nelle prime increspature della sorgente di un torrente. È come se avessero una responsabilità nei confronti di questo luogo: le loro più profonde pulsioni, se negative, possono distruggere questi santuari, rendendo sterile il paesaggio tutt'intorno, e distruggendo le forme naturali che vi hanno messo radici sin dalla nascita del primo uomo. C'era un'epoca di gloria, precedente alle storie raccontate nei Sacri Libri, in cui esseri non umani seppur terrestri vivevano in armonia e si scambiavano baci e promesse sotto cieli di altre stelle, dove vita e morte si fondevano in un unico concetto: rinascita. Un luogo simile, era situato al termine di un impervio sentiero ai piedi dell'Altomonte, presso Vidalba. Per raggiungerlo bisognava curvare dal Fiumenero dove la strada per Barra deviava sulla sinistra e mostrava, agli occhi di chi si avventurasse in quei luoghi maledetti,un piccolo ponte con una chiesetta. In lontananza, campi arati i cui spettri popolavano la regione fino alle pendici dell'Altomonte e su di essi arbusti scheletrici e pini secolari combattevano da tempi immemorabili una lunga e strana battaglia per il possesso dei terreni più fertili. I pini avevano vinto in altezza, ma i primi metri dal livello del suolo roccioso appartenevano ai cespugli che, se da un lato erano sparuti e scarni, dall'altro si estendevano per molti metri e si ramificavano in migliaia di rami spinosi, occludendo il passaggio verso il cuore del bosco. Il ponticello che tagliava il corso dell'affluente dell'impetuoso e corrotto Fiumenero, era di solido cemento con una ferrea anima che lo sosteneva e gli permetteva di scontrarsi con la furia del fiume. La chiesetta sul ponte aveva qualcosa di magico secondo i residenti anche se era di struttura semplice come chi l'aveva costruita. Le leggende sostenevano che qualche miscredente una volta avesse dato un calcio ai muri esterni e il piede fosse marcito staccandosi dalla gamba. Parallelamente al corso dell'affuente, si apriva il sentiero del bosco: poco più di un varco aperto tra punte affilate di cespugli sanguinari e scheletrici.
L'incauto e malvagio esploratore che scoprì quel luogo magico, era un mio conoscente e concittadino:Attilio Allieri. Era da sempre stato un borseggiatore dilettante e un topo d'appartamento professionista, che rubava più per necessità di riempire d'adrenalina la sua vuota vita che per bisogno effettivo; ma, nonostante questo, lo avevo ospitato in casa mia, al primo piano, e lui ripagava la cortesia di essere ospitato evitando di derubarmi. Non eravamo proprio amici, se devo essere sincero, eravamo piuttosto due conoscenti che stipulano un contratto verbale per convenienza reciproca. Tuttavia, spesso la comunione di situazioni genera affinità e capitava che ci trovassimo a parlare di fronte a un fuoco caldo, con un bicchiere in mano. Fu così che mi disse un giorno di come trovò il sentiero nascosto. Non so dire se fosse ubriaco allora, ma quello che successe dopo pare dare attendibilità alla storia. Aveva appena rubato in una casa nei pressi di quel luogo, ma quand'era sul punto di andarsene, il padrone era rientrato. Lui era riuscito a scappare all'inseguimento seguito alla scoperta del furto, gettandosi tra i rovi. Ne aveva ricavato molti graffi, ma aveva trovato un sentiero nascosto. Mosso dalla sua naturale curiosità, si era inerpicato fino alla fine del percorso giungendo in un luogo che, a parer suo, non si trovava più sulla Terra. Era, semplicemente, uno spiazzo d'erba verde rada insieme a della terra marrone particolarmente fertile. Sulla sinistra c'era la fonte di una piccola sorgiva, pulita e limpida, in una vasca di pietra costruita con sassi squadrati che conteneva un piccolo specchio d'acqua che non sembrava naturale. Oltre lo specchio si notavano i sassi del fondale, senza la presenza d'alghe o di altre forme di vita. Tutto lo spiazzo era delimitato da alberi che si tenevano a rispettosa distanza dall'acqua, come servitori impauriti. Poco lontano, in cima al monte, si estendeva il ghiacciaio che riforniva di acqua la fonte, e brillava di un luccichio accecante ogni volta che le lastre di ghiaccio venivano colpite dai raggi di Padre Sole. In mezzo allo spiazzo si ergeva solitario un albero di mele, rigoglioso e dal fogliame rosso opaco, che di solito non è tipico delle piante dei meli. Tuttavia Attilio mi assicurò che i frutti che pendevano dai rami erano indubbiamente mele. Non ne assaggiò nessuna, per via dello strano colore del fogliame, ma si abbeverò direttamente dalla sorgente, immergendo tutta la testa nello specchio d'acqua. Una strana pesantezza lo colse allora, e lui si addormentò sotto l'albero dalle foglie sanguigne. I suoi vestiti stracciati si muovevano al vento mentre il cielo sopra di lui si riempiva di nubi che minacciavano pioggia. Il tempo passava e strani sogni si succedeva-no nei recessi più intimi del suo cervello, dove il presente e il futuro si mischiano e influenzano, inconsciamente, le decisioni. Quando le prime gocce di pioggia lo sorpresero, lui si svegliò e scappò a valle, moralmente e fisicamente distrutto dal viaggio in quel luogo e dai sogni che lì aveva trovato. Affermò che aveva sognato la sua morte, fin nel più intimo dettaglio, che sarebbe giunta di lì a poco, avendo come la percezione di non poter far nulla per evitarla. Il mio consiglio, dato da uomo poco incline a credere a chi spesso si abbandona ai piaceri dell'alcol (come era solito fare lui) fu quello di godersi gli ultimi giorni che gli restavano da vivere, se proprio la sua dipartita fosse stata inevitabile. Naturalmente io non credevo affatto che sarebbe spirato nel giro di giorni. Continuai quindi a vivere la mia vita, badando solo distrattamente all'ospite di casa mia. Attilio tornò ancora in quel luogo sperduto e la seconda volta, dopo aver bevuto, sognò ancora la sua morte. Non riusciva a vedere chi lo uccidesse né in che modo, scorgeva solo una donna vestita a lutto che piangeva su una tomba coperta di neve, su cui non si riusciva a leggere il nome del defunto. Il ragazzo era tuttavia certo che, sotto i sei piedi di terra, si trovasse il suo corpo freddo e privo dell'anima.
Silvia e Giordano
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