Toni Capuozzo

Toni Capuozzo nasce il 7 dicembre del 1948 a Palmanova, in Friuli Venezia Giulia, da madre triestina e padre napoletano. Dopo aver vissuto a Cervignano del Friuli, frequenta il liceo "Paolo Diacono" di Cividale, dove consegue il diploma di maturità classica. Si iscrive all'Università di Trento, dove si laurea in Sociologia.
Successivamente si avvicina alla televisione con la trasmissione di Giovanni Minoli "Mixer", dove si occupa di mafia, per poi diventare inviato del programma "L'istruttoria", condotto da Giuliano Ferrara.
Ben presto comincia a lavorare come inviato per i telegiornali del Gruppo Mediaset, e diventa un esperto di conflitti internazionali, occupandosi delle guerre in ex Jugoslavia, in Somalia, in Medio Oriente e in Afghanistan. Nel 1996 pubblica per Feltrinelli il libro "Il Giorno dopo la guerra". Nel 1999 conquista il "Premio Saint Vincent" grazie a un servizio dedicato al dramma delle foibe, mentre per i reportage da Belgrado ottiene il "Premio speciale Ilaria Alpi"; l'anno successivo si vede assegnare il "Premio Nazionale Esercito" e il "Premio Flaiano". A partire dal 2001 diviene curatore e conduttore di "Terra!", programma di approfondimento settimanale del "Tg5", telegiornale del quale è anche vicedirettore. Nel 2011 mette in scena con Vanni De Lucia "Pateme tene cient'anni". quell'anno si vede assegnare anche il "Premio Ischia inviato speciale", il "Premio Nassiriya Montesilvano" e il "Premio Giorgio Lago". L'anno successivo, il giornalista riceve il "Premio Madesimo" e il "Premio Renzo Foa" a Bettona, in provincia di Perugia, e pubblica per Mondadori "Le guerre spiegate ai ragazzi". Nel 2013 lascia la vicedirezione del "Tg5", mentre "Terra!" trasloca su Rete4, con la responsabilità editoriale di Videonews. Da freelance, Toni Capuozzo continua a collaborare con Mediaset. Per "Tgcom24" e cura una rubrica intitolata "Mezzi Toni".

I suoi ultimi libri sono Piccole Patrie e Lettere da un Paese chiuso.

"Le piccole patrie sono molte, in una vita girovaga. Sono un giornalista per caso, e mi ha sorpreso trovare tra le carte che stavo rovistando per mettere assieme questo libro un biglietto di mio padre. Accompagnava il dono di una stilografica Pelikan e conteneva un augurio: "Al futuro giornalista, il papà, con tanti affettuosi auguri, offre il ferro del mestiere". La mia risposta, con una grafia e una firma ancora infantile (Tonino) era vaga: "Con tante grazie al mio adorato papà inizio a usare il dono con la speranza che mi porti fortuna". Era il regalo per il mio quattordicesimo compleanno, nel 1962... Avrei impiegato molti anni - e molti lavori - per accorgermi che il giornalismo poteva pagare le due mie passioni: viaggiare e scrivere. Un battesimo del fuoco - alla lettera, perché era il tempo della fallita insurrezione sandinista in Nicaragua - mi ha segnato per sempre. E ovunque andassi, dal quotidiano dei miei esordi Lotta Continua a Panorama Mese, da Epoca ai telegiornali Mediaset, sono stato un reporter di guerra, anche se non ho mai amato la definizione, perché mi sembra iettatoria e povera, insieme. In "Piccole Patrie" ho raccontato tutto quello che mi ha incuriosito: viaggi e persone, guerre e catastrofi naturali, piccole storie e cronache nere, amori e avventure... Sono friulano e mi sono sentito a casa in tante parti del mondo, da Roma a Sarajevo, dall'America Latina al Golfo: piccole patrie."

"In un'Italia chiusa, ferita, impaurita... nelle lunghe settimane della quarantena da coronavirus, Toni Capuozzo scrive appunti, idee, pensieri, ricordi che presto diventano vere e proprie lettere. Nasce così, giorno dopo giorno, un insolito "diario di bordo" fatto di pagine sulla cronaca, sulla politica, sull'isolamento forzato, su uomini e donne alle prese con la vita e con la morte... ma è una stesura di getto e così, nelle lettere, Capuozzo torna anche sulla sua vita, in un lungo viaggio tra il presente e il passato. La sua capacità di osservazione e la sua sensibilità restituiscono un'istantanea dell'Italia alle prese con il coronavirus tanto originale quanto autentica e profonda. Una narrazione malinconica e divertente al tempo stesso, dolce e amara, giovane e antica. Le Lettere da un Paese chiuso sono, innanzitutto, il racconto di un'umanità di cui facciamo tutti parte, in cui ognuno di noi si ritrova, carattere dopo carattere, ritratto dopo ritratto. Edizione arricchita da illustrazioni e da contenuti multimediali fruibili attraverso QR Code: con smartphone o tablet, il diario diventa audiolibro e le pagine sono lette da Toni Capuozzo con la sua inconfondibile voce."

Abel Wakaam: Ciao Toni, per stilare tutto ciò che di buono hai fatto nella vita, bisognerebbe scrivere un romanzo. Ed è proprio ciò che hai saputo realizzare con innata maestria perchè, nel leggere i tuoi libri, si ha la sensazione di essere trasportati nell'esplorazione del mondo, raccontato attraverso gli occhi di uno dei pochi giornalisti davvero indipendenti di questo Paese. A volte è bastata la tua espressione preoccupata a farci partecipi del dramma della guerra, in altre invece lo abbiamo compreso dal tono delle tue parole. Oggi, dopo tanto girovagare per innumerevoli Piccole Patrie, di chi ti senti veramente figlio?

Toni Capuozzo: Io sento di avere molte patrie, e persino la mia anagrafe è complicata, perché mia madre veniva da una famiglia austro-greca, mio padre era napoletano e io sono cresciuto in Friuli. Ma se posso dirmi genericamente italiano, per madre lingua e cultura, mi sono sentito cittadino di molti altri posti, e specie quelli in sofferenza. Penso al centroamerica degli anni ’80, a al Medio Oriente, o ai Balcani. In alcune città, Sarajevo o Gerusalemme, mi sento davvero come se tornassi a casa. Alla fine credo che il problema dell’identità sia un grosso problema nel mondo globalizzato, ma dobbiamo essere consapevoli che non si deve guardare solo al proprio passato per capire chi siamo, ma anche decidere quello che vogliamo essere: l’identità è, anche, una scelta.

Abel Wakaam: Una delle tue frasi che mi hanno più colpito è: "Internet è uno strumento essenziale perché scavalca il professionismo dell’informazione, e ogni cittadino può essere editore di se stesso. Ma anche la rete, e a maggior ragione quando è coperta da anonimato, può essere come la parete di un gabinetto pubblico, su cui chiunque può scrivere insulti, sconcezze e falsità." Siamo davveri sicuri che, seppur in qualche occasione, un certo professionismo dell'informazione non attinga a quelle stesse pareti? La mancanza di una censura preventiva non è allo stesso tempo una forma di censura, perchè riesce a nascondere la verità in un groviglio di menzogne?

Toni Capuozzo: Io non credo che il giornalismo “professionale” sia una forma alta di giornalismo, e il giornalismo dei cittadini, o il giornalismo fai da te sia invece una forma bassa, dilettantesca e persino pericolosa. Anzi credo che la rete abbia rotto monopoli e aristocrazie, e sia stata una ventata di aria fresca. Ma è inevitabile che riproduca i difetti e i pregi del giornalismo professionale: le bugie ben incartate dell’informazione ufficiale sono diventate fake news, il racconto di chi è testimone diretto dei fatti ha sostituito il racconto dell’inviato. E però io resto all’antica, un po’ diffidente di qualcosa che resta solo virtuale e impalpabile. Bisogna, alla fine che qualcuno, per passione o per professione, vada a vedere le cose da vicino, in un mondo in cui tutti sono incollati agli schermi.

Abel Wakaam: Hai scritto: "Non auspico grandi rivoluzioni. Mi accontento che si metta qualche cerotto ai mali del mondo, sarebbe già abbastanza". Credi davvero che qualche gesto effimero non debba essere etichettato come un modo per salvare noi stessi, invece di venire incontro ai bisogni dell'umanità? Certo, da qualche parte si deve pur partire, ma troppe volte chi tende la mano lo fa esclusivamente per atteggiarsi a salvatore del pianeta.

Toni Capuozzo: Un gesto effimero, un cerotto sui mali del mondo? A me sembra proprio il contrario: ogni rivoluzione, e specie quelle che ho avuto modo di vedere da vicino ha finito per tradire i sogni iniziali, si è rivelata magari duratura come regime, ma effimera come promessa. E dunque diffido dei grandi proclami, e mi accontento di piccole, incisive riforme, di gesti concreti, di cambiamenti reali. Se poi per “cerotto” uno intende un obolo, o una penosa carità, allora è vero che può essere, a volte, un atteggiarsi a salvatore del mondo, o un detergersi la coscienza. Insomma sono per chi cambia ora, possibilmente senza violenza, e non per chi promette un futuro mondo diverso attraverso proclami smisurati. Non dubito della buona fede, c’è gente che è pronta a morire, oltre che a far morire e a uccidere, per questo. I fondamentalisti islamici, per esempio. Ma il paradiso in terra che promettono è un inferno. E il paradiso che verrà dopo è questione di fede e riguarda ciascuno di noi singolarmente, non i cambiamenti sociali.

Abel Wakaam: Hai sempre rifiutato l’etichetta di corrispondente dì guerra, ma non posso fare a meno di ricordare l'espressione dei tuoi occhi stanchi nelle dirette dai campi di battaglia, dove la guerra prendeva forma, suoni e colori molto diversi da quelli che per anni ci ha propinato la cinematrografia di settore. Tu riuscivi a renderla reale, senza inutili sillogismi, senza spettacolizzare il dolore o la paura. Hai affermato che questa definizione di "inviato di guerra" comunica un’idea retorica del mestiere, tra il Rambo e il testimone sacrificale, ma che l'accetti solo per i colleghi che non ci sono più. Hai mai pensato che avresti potuto essere tra questi e, allo stesso modo, meriti il medesimo riconoscimento?

Toni Capuozzo: Ho avuto spesso paura, sì. Ma poi immagini sempre che non tocchi a te, che il destino vuole che te la caverai, che la fortuna e l’esperienza sono dalla tua parte. In realtà ho avuto più paura del dolore che della morte, e più dei sequestri che della morte. Ma ho sempre cercato di non essere un professionista della guerra, uno che senza guerre sarebbe stato disoccupato, e che aveva bisogno della prepotenza dei conflitti per raccontare. Ogni volta che sentivo di essere sovrastato dall’esperienza di una guerra ho cercato di dedicarmi a storie altre, nella provincia italiana o altrove, per non dimenticare la normalità. Non vedo come un riconoscimento la definizione di “inviato di guerra”, credo sia difficile trovare una mia fotografia con elmetto e giubbotto antiproiettile, se dovevo fare un live televisivo li toglievo. Mi basta essere un cronista.

Abel Wakaam: Oggi, il lavoro dello scrittore è spesso basato su contesti immaginari, su trame costruite per affabulare il lettore seguendo schemi di narrativa precostituiti. E al contrario, la grande massa dei lettori non sembra accorgersi di chi, come te, ha stampato nella retina brandelli di storia vissuti in prima persona. Lo so, è molto meglio avere un pubblico razionale, pronto ad apprendere invece che scorrere le pagine di un libro senza approfondire il senso delle parole. Non ti fa rabbia questa apatia intellettiva, che è pronta a seguire il flusso della pubblicità venduta come progresso e non si sforza di apprendere la dinamica dei fatti che hanno cambiato quest'epoca?

Toni Capuozzo: Io non mi definisco “scrittore”, forse perché ho troppo in stima la scrittura o perché sono un accanito lettore. Ho scritto libri che hanno a che vedere con la mia esperienza, e assomigliano a reportages lunghi, lavori giornalistici. Ma so per esperienza da lettore che a volte la letteratura è in grado di spiegare meglio del giornalismo un conflitto, una rivoluzione, una controrivoluzione. Di recente ho letto “Tempi duri” di Vargas Llosa che racconta meglio di tante ricostruzioni storiche il colpo di stato che abbattè il governo eletto di Jacobo Arbenz in Guatemala nel 1954. Quanto al pubblico, oggi è condizionato da una cattiva formazione scolastica, da una cattiva televisione, da una scadente cultura pop. La sfida è quella di fare informazione seria senza essere noiosi, e senza essere didascalici o predicatori.

Abel Wakaam: Ti immagino mentre scrivi una moltitudine di lettere da questo Paese chiuso, scardinando le retoriche di un'umanità di cui tutti facciamo parte. È questo che ci riserva il futuro? Una strana forma di prigione mentale che ci induce a infilare i nostri pensieri dentro una bottiglia, nella speranza che qualcuno possa leggerli, pur senza avere la certezza che possieda la capacità di interpretarli? Ma soprattutto, tu che hai visto davvero il colore della morte, puoi regalarci uno spiraglio di felicità e speranza, la stessa a cui hai assistito alla fine di ogni guerra, quando uomini e donne si sono trovati in piazza per abbracciarsi?

Toni Capuozzo: Speranza è una parola grossa, ma sappiamo che la vita va avanti, e quello che dobbiamo coltivare è la curiosità di vedere come andrà a finire e un po’ di illusione di poter condizionare il futuro, migliorare il mondo. Certe volte penso ad amici che non ci sono più, e penso alle cose inimmaginabili che si sono persi, belle o brutte: il muro di Berlino, l’11 settembre, la Cina capitalista, il Covid: l’unica certezza, a meno di catastrofi ambientali definitive, è che la vita va avanti. E, certo, per noi vecchi è inevitabile aver nostalgia di un mondo che è stato, e che ci sembra migliore. Ma la ricerca scientifica ha fatto grandi passi, alcune malattie sono state debellate, paesi che soffrivano il sottosviluppo sono oggi economie emergenti, al bipolarismo delle due superpotenze si è sostituito un multipolarismo disordinato. Non è un mondo perfetto, e nuove ingiustizie si sono affacciate, ma io non credo alla perfezione. Quando vedo un processo e una condanna per crimini di guerra mi pare di poter dire che alla fine una giustizia arriva, e poi mi chiedo: ma non è la guerra stessa un crimine in sé? Possiamo sognare un mondo senza guerre, sognare non costa niente, ma intanto dobbiamo sentirci sollevati che almeno i crimini peggiori vengano puniti...

Abel Wakaam

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