Romana Petri

Romana Petri vive tra Roma e Lisbona. Editrice, traduttrice e critica letteraria, collabora con «ttl La Stampa», il «Venerdì di Repubblica», «Corriere della Sera» e «Il Messaggero». Considerata dalla critica come una delle migliori autrici italiane contemporanee, ha scritto tra romanzi e raccolte di racconti ben 23 libri. Ha ottenuto prestigiosi premi e riconoscimenti, tra i quali il Premio Mondello, il Rapallo-Carige e il Grinzane Cavour. È stata inoltre finalista due volte al Premio Strega. Tra le sue opere ricordiamo Alle Case Venie (Marsilio, 1997), I padri degli altri (Marsilio, 1999), La donna delle Azzore (Piemme, 2001), Dagoberto Babilonio, un destino (Mondadori, 2002), Esecuzioni (Fazi, 2005), Ovunque io sia (Cavallo di ferro, 2008), Ti spiego (Cavallo di ferro 2010), Tutta la vita (Longanesi 2011), Figli dello stesso padre (Longanesi 2013), Le serenate del Ciclone (Neri Pozza 2015, vincitore del premio Super Mondello 2016 e del Mondello Giovani), Il mio cane del Klondike (Neri Pozza 2017), Pranzi di famiglia (Neri Pozza 2019) e Figlio del lupo (Mondadori, 2020), vincitore del Premio Comisso. Le sue opere sono tradotte in Spagna, Olanda, Germania, Stati-Uniti, Inghilterra, Francia, Serbia e Portogallo.

Il suo ultimo romanzo è "La Rappresentazione", edito da Mondadori.

Figlio del lupo. Avere una madre come Flora Wellman, stare accanto a una donna che parlava di spiritismo ed era attaccata alla terra, deve pur aver contato qualcosa per diventare "il migliore". Per diventare Jack London. Romana Petri ha raccolto una delle sfide più fascinose che una scrittrice poteva intravvedere: quella di raccontare la furia di vivere di un uomo che ha fatto il pugile, il cacciatore di foche, l'agente di assicurazioni, il cercatore d'oro, che ha amato l'ombra azzurra delle foreste e la smagliante solarità dei mari, che ha guardato, ceruleo d'occhi e di pensieri, l'anima dei popoli in lotta e il cuore delle donne. E qui le donne sono il vero motore del racconto: la fragranza piccolo-borghese di Mabel, la concretezza di Bessie, il fascino intellettuale di Anna Strunsky, la determinazione di Charmian ("essere molte donne in una"), l'insostituibilità della sorella Eliza. Eppure Romana Petri non ha scritto una biografia: "Figlio del lupo" è un romanzo che srotola il filo di una storia vera, così come è vera la storia dei personaggi che abbiamo amato. E allora ecco sciorinate le vicende di un uomo sospeso fra il rovello ispirato del grande narratore e la voce dispiegata del socialista che vuol parlare, da rivoluzionario, a sette milioni di lavoratori ma non rinuncia a farsi allacciare le scarpe perché non ha tempo da perdere, sospeso fra il gioco dell'amore promesso, vissuto, tradito sempre ad alte temperature e il tormento di un fallimento incombente, malgrado il clangore del mondo e il fuoco alto della fama.

La Rappresentazione. Dopo la mostra in cui la pittrice Albertini ha ritratto l'intera famiglia del marito, la coppia è costretta a trasferirsi a Roma. Gli "sgorbi" hanno divertito solo Rita (la figlia nata deforme e che la madre Maria do Ceu ha fatto rattoppare chirurgicamente più volte). La Albertini d'altro canto se ne frega: detestava i silenziosi pranzi di famiglia della domenica. Quando entra in gioco un abile gallerista di Milano è il successo, soprattutto a partire da una serie di quadri su santa Teresa d'Avila. Non solo: i critici notano che - basta guardarli con attenzione - quei quadri prendono vita. Pittrice ormai ricca e famosa, la Albertini potrebbe finalmente vivere una bella vita con il marito Vasco, abituato, a differenza di lei, ad avere un patrimonio alle spalle. E tuttavia il rapporto coniugale si complica, innescando una sorta di conflitto che è al contempo torbida sfida e luminoso riscatto. E forse l'amore solo una "rappresentazione"? In un continuo, drammatico andare e venire tra Roma e Lisbona, la Albertini si prepara a combattere, a crescere, a guardare al di là dello specchio in cui ha rischiato di vedersi prigioniera: lo specchio dei glaciali, interminabili e quasi invincibili silenzi. Romana Petri si muove fra l'ottusità dei rituali famigliari, il teatro morbido e morboso della bellezza di Lisbona e il gesto rivelatore e magico dell'arte. Passione, scandaglio di anime, saga famigliare, "La rappresentazione" è un romanzo che esplora i suoi confini, e li supera.

Abel Wakaam: Ciao Romana. Editrice, traduttrice e critica letteraria, ma soprattutto autrice, con quale metro critichi te stessa?

Romana Petri: Non pubblico mai un libro appena scritto. Quando finisco un romanzo lo rileggo velocemente e poi lo abbandono per minimo un anno. Ma spesso anche per molto più tempo. Quando ci rimetto le mani devo proprio averlo dimenticato. Quasi non ricordare nemmeno perfettamente la trama. E lì comincia un lavoro che mi piace molto meno di quello creativo, perché richiede una concentrazione mirata a cogliere il difetto. Sto lì che limo, tolgo, aggiungo, cambio. Mi metto a fare questo lavoro come se il romanzo non fosse più il mio. Mi è servito molto aver avuto una casa editrice e aver fatto l’editing a tantissimi libri. Io credo che prima di mandare in circolazione qualcosa, si debba lavorarci con un grande distacco critico. Insomma, deve diventare un lavoro, quindi una cosa anche un po’ noiosa. Ma per me è il solo modo di procedere. Perché non si può fingere che un lavoro non sia tuo. Devi proprio farcelo diventare, e per questo ci vuole tempo.

Abel Wakaam: Sei laureata in francese, ma fortemente attratta dalla letteratura portoghese. Nel 1990, durante un viaggio in Portogallo e alle Azzorre hai fatto scalo a Lisbona e ti sei follemente innamorata di questa città, al punto di decidere di viverci. Questa scelta ha in qualche modo cambiato, oltre al tuo modo di vivere, anche quello di scrivere?

Romana Petri: Ho letto tantissima letteratura straniera. Anche quella italiana, certo, ma è da quella straniera che ho imparato di più, e non da una in particolare come quella portoghese. Ho imparato da tutte perché ognuna parla del suo mondo. Si entra e si esce in e da luoghi e culture diversissimi. Io ho una grande capacità di immedesimazione, divento quello che leggo, e divenendo cambio. Sono in continua trasformazione. Anche vivere in un altro Paese aiuta molto. Per me la letteratura è vivere sulla sponda di un fiume, ma spesso farsi una bella nuotata, arrivare nell’altra parte e lì mettersi seduti per guardare la sponda nella quale si vive e dire: Ma guarda come può essere diversa la prospettiva vista da qui! Ecco, mi piace vedere le cose da molte prospettive, leggere e scrivere da prospettive diverse. Secondo me arricchisce la lingua ripulendola. Sembra un ossimoro ma non lo è. Ho sempre amato il meticciato.

Abel Wakaam: Nei tuoi testi emerge la quotidianità dei luoghi in cui scrivi. È così diverso affacciarsi sul Tevere oppure specchiarsi nelle acque placide del Tago?

Romana Petri: Diciamo che pur amando Roma sopra ogni cosa, perché ovunque posso andare ma tornare a Roma per me è sempre una grande emozione, il Tevere non può proprio essere paragonato al Tago. Il Tevere è un fiume, il Tago (a Lisbona) è già un corposo assaggio di Atlantico. È un fiume azzurro, enorme, algido e voluttuoso insieme. Fino a qualche anno fa lo risalivano i delfini. Di notte si vedono le luci dell’altra sponda e si ha l’impressione di vivere davanti al proprio riflesso. Il Tago è un doppio, un fiume sospeso, una evanescenza. È rilucente, scintillante, e poi tenebroso, nebbioso. Spesso, a novembre, nella nebbia scompare insieme al ponte 25 di Aprile. È un fiume misterioso, con tante anime. Qui si aspetta sempre Dom Sebastiano. Credo che tutti i portoghesi ne attendano il ritorno dalle nebbie.

Abel Wakaam: Nel 2012 sei stata tra le dodici finaliste del Premio Strega. Questa partecipazione ti ha in qualche modo fatta sentire parte delle scrittrici che contano?

Romana Petri: Le scrittrici, purtroppo, non contano mai molto. Il numero delle volte che hanno vinto il Premio Strega è davvero un numero minimo. È difficile anche stabilire cos’è uno scrittore/ una scrittrice che conta. Bisognerebbe capire cosa vuol dire contare. Contare per gli editori? Per i critici? Per il pubblico? Per esempio, pensare di lasciare un segno è una follia di onnipotenza. Allo stesso tempo, però, non sono d’accordo con l’idea che solo il tempo darà il giusto verdetto. Magari chi oggi è ritenuto importante, domani sarà ingiustamente dimenticato. E chi in vita non ha contato nulla potrebbe essere ingiustamente rivalutato. Non sempre ai posteri l’ardua sentenza. Ma nemmeno ai contemporanei. Forse a nessuno. È probabile la letteratura sia destinata a essere ogni volta scelta da qualcuno, perché ognuno ha la sua. Io posso dire di lavorare tanto. Faccio una vita molto isolata. Sto per la maggior parte del tempo a casa dove scrivo, leggo e prendo appunti. Faccio molto sport per sciacquare la testa. Non sono mai stata brava nelle pubbliche relazioni. Però, continuo a credere che pensare di “contare” sia un po’ spaventoso.

Abel Wakaam: Hai affermato che: "Scrivere vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e scrivendo se ne libera". Ma scrivere non è anche una forma di onnipotenza, in cui si può ingannare il fato e stravolgere in ogni istante il peggiore dei mali?

Romana Petri: Certo, è possibile, ma per finta. Poi si smette di scrivere e la realtà è sempre quella. Però è anche vero che qualche volta la realtà è povera, e allora la letteratura la arricchisce. Si può essere di tutto scrivendo. Soprattutto ci si immedesima molto nei personaggi, che siano presi dalla realtà o inventati. Qualche volta ho l’impressione che la vita sia una piscina con solo il bocchettone di entrata dell’acqua. E allora scrivere diventa un po’ il bocchettone di uscita. Certo, è anche una minima onnipotenza, perché scrivendo si sceglie il destino dei personaggi. Ma sarà poi vero che lo sceglie chi scrive? Non saranno i personaggi a voler essere cantanti come vogliono loro? Certe volte entro in libreria per comprare un determinato libro e ne esco con degli altri. Mi sono dimenticata di quello che volevo o i libri comprati mi hanno scelta? Mi è sempre piaciuto pensare che i personaggi siano preesistenti a noi, e che prima di essere scritti vaghino di testa in testa, per poi scegliere quella dalla quale farsi raccontare.

Abel Wakaam: Aver fatto per qualche anno pugilato ti ha insegnato a far soffrire o combattere meglio i protagonisti dei tuoi romanzi?

Romana Petri: Non saprei. Mi piace scrivere un po’ di tutto, di persone eroiche, di persone vili, di grandiosità e meschinità. Insomma, la vita nel vero e nell’immaginato. Quando si dice di voler scrivere la verità… che cosa strana. Ma chi la conosce la verità? Certe volte mi rimprovero di essere poco sfumata, non come autore, proprio come persona. E scrivere mi aiuta. Il pugilato, invece, ha aiutato soprattutto me. Mi piace quella velocità di esecuzione, quello stare sempre all’erta. Mi piacciono le schivate. Mi sembra che ci sia più gusto a schivare un cazzotto che a darne. Anche a darne, però, eh? Il pugilato, per me, appartiene alla sfera del leggendario. Per farlo davvero (non da amatoriale), per salire sul ring, ci vuole una elevata dose di follia che fa di questo sport il più amato dal cinema e dalla letteratura. Farsi dare dei cazzotti è da matti. Eppure la penso come Joyce Carol Oates che sul pugilato ha scritto forse uno dei saggi più belli. Mi sommuove quando dice di essersi alzata all’alba per assistere a importanti incontri in televisione con suo padre. L’ho fatto anche io da bambina, con il mio. Meravigliosi appuntamenti all’alba.

Abel Wakaam: Nel tuo ultimo romanzo racconti la storia di una pittrice e delle sue vicissitudini artistiche. Una delle frasi che ho sottolineato è stata: "Non c’è riconciliazione tra estranei, ma tra consanguinei sì".
La riconciliazione è davvero necessaria per essere in pace con sè stessi?

Romana Petri: In realtà la frase è un disappunto. Questo è un romanzo tutto sul ritorno in seno, ma non è visto in modo positivo, tutt’altro. Vasco si riavvicina a una famiglia terribile per bisogno, per paura, perché un padre come il suo crea terrore e dipendenza. Si riavvicina perché incapace di emanciparsi. È anche un romanzo sulla difficoltà dell’essere grati. La gratitudine è un sentimento difficile, ma qui viene vista un po’ al microscopio. Meglio essere grati a un padre che umilia o a una moglie generosa? Paradossalmente, qui sembra che la prima ipotesi sia la più semplice. Paradossale e terribile.
Personalmente credo che la riconciliazione sia da valutare solo quando realmente possibile. Quando per entrambi le parti è un trionfo. In questo romanzo invece nessuno si riconcilia, ci sono solo le convenienze, le terribili formalità che vengono sostituite agli affetti. Non sono persone, son vasi “incomunicanti”, piccole isole con il ponte levatoio quasi sempre sollevato, è una continua rappresentazione di un amore che non è mai esistito. A riconciliarsi possono sonno essere solo le persone legate da un sentimento vero. Il sangue può facilitare, ma non è determinante. La pittrice, per esempio, alla fine la riconciliante salvezza la trova solo nella sua arte. Avere una passione può riconciliare con il mondo. Una passione qualsiasi, purché lo sia autentica.

Abel Wakaam: Quale consiglio ti senti di dare a chi comincia adesso la lunga e tortuosa strada della scrittura?

Romana Petri: Difficile dire a un’altra persona quale strada seguire. Secondo me la scuola di scrittura più formativa è la lettura. Non necessariamente vorace. Una lettura meditata, chiosata, ripensata. Magari, quando si legge un grande libro, tenere a portata di mano un quaderno. Certe volte, la lettura di un grande libro (di quello che per noi è un grande libro) ci fa sentire anche autori di quelle magnifiche parole. Siamo tutti sotto un unico, grande coperchio. Certe volte basta allungare una mano, prenderne un pezzo. E se quel pezzo riusciamo a clonarlo…

Abel Wakaam

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