Khaled
Khalifa è un romanziere, sceneggiatore
e poeta siriano, nato nel 1964 ad Aleppo.
Ha frequentato l'Università di Aleppo, dove
ha conseguito una laurea in giurisprudenza.
Nel suo romanzo "Morire è un mestiere
difficile", racconta come le vite di una
famiglia sono influenzate dalla battaglia tra il governo
siriano e i Fratelli Musulmani.
Più volte ha dovuto sottostare alla censura,
ma Khaled Khalifa afferma che questo tipo
di censure provengono da una burocrazia che non rappresenta
i livelli più alti di governo. Lui stesso favorisce
i negoziati tra artisti e autorità siriane
per facilitare la libertà di parola. Nel suo
lavoro non intende sostenere alcuna ideologia politica.
Elogio dell'odio - Bompiani
Non
ci sono coltelli nelle cucine di questa città
- Bompiani
Morire
è un mestiere difficile - Bompiani
Per incontrare Khaled non bisogna
cercarlo in un lussuoso ufficio di un palazzo di Damasco.
È più facile incontrarlo frequentando
i cafè della città vecchia. Lui scrive
su un tavolino in disparte, perché nel suo
mondo sono gli occhi a dettare le parole. Racconta
la vita che scorre davanti a lui e così nascono
i personaggi di cui cambia soltanto i nomi e lascia
intatte le emozioni più crude e le sofferenze.
I protagonisti dei suoi libri sono anime che non hanno
pace. E in questi vicoli vive anche Bulbu, ha appena
perso il padre che giace esanime nel letto di un ospedale
di Damasco. Lultima promessa che gli ha fatto
è stata di seppellirlo accanto alla sorella
nel suo paese natale, vicino ad Aleppo. Solo quattrocento
chilometri, ma a separare le due città cè
un solco ben più profondo. Damasco infatti
è sotto il controllo del regime di Assad, mentre
Aleppo è nelle mani dei ribelli. Viaggiare
dalluna allaltra città con una
salma si rivela un compito arduo, che Bulbul condivide
con il fratello Huseyn e la sorella Fatima. Tra controlli,
sbarramenti e minacce, i tre ricostruiscono insieme
il ricordo del padre e rinforzano il loro legame.
Con questa odissea dolorosa e surreale, Khaled
Khalifa racconta di nuovo il presente siriano
e ci mostra senza sconti la quotidianità di
chi vive tra le macerie. Tutto questo accade nel suo
ultimo libro che infatti si intitola "Morire
è un mestiere difficile".
Abel Wakaam: Ciao Khaled,
io credo che esista una forma di destino che fa nascere
gli uomini di scrittura nei luoghi in cui il dolore
ricopre la vita degli altri con un velo scuro. Tu
sei felice di essere un figlio di questa Terra?
Khaled Khalifa: Non ho mai preso in considerazione
il pensiero di essere felice o infelice, perché
non ho scelto io la mia esistenza. Quando sono cresciuto,
ho compreso di essere semplicemente una presenza transitoria
in questa vita. Quindi ho pensato alla necessità
di aiutare a liberare le persone e il mio popolo,
così da preservare ognuno di loro da un dolore
collettivo, cioè, rendere ognuno più
libero e credente, in simbiosi con la propria cultura.
Ciò a cui penso di più è la sfortuna
di chi non si sente in sintonia con se stesso e non
è d'accordo con la sua appartenenza. Ciò
evidenzia che in molti hanno grandi difficoltà
a cambiare questa affiliazione, perché estraniarsi
dal passato e dalla vita non è sempre così
facile. Pertanto, non penso a quanto sono felice perchè,
come tutti gli esseri umani nella mia vita, alterno
felicità e infelicità, ma cerco sempre
di essere una presenza costante nella felicità
collettiva.
Abel Wakaam: Nei tuoi libri racconti
l'agonia di un popolo che è sfinito della guerra
ma, in tutta questa sofferenza, non c'è posto
anche per la speranza e, perché no, per una
storia d'amore?
Khaled Khalifa: Penso che anche in guerra
ci sia sempre la speranza, ma risulta troncata, incompleta,
e nel nostro caso in quanto Siriani, è incerta.
La maledizione della storia si sta vendicando di noi
per tutta la nostra esistenza e quindi ci comportiamo
come in "Morire è un mestiere difficile",
dove Bulbul nasconde la speranza di amare per
timore di rivelarlo agli altri, probabilmente perché
non ne conosce la forma. In altri romanzi, come "Non
ci sono coltelli nelle cucine di questa città",
molti dei personaggi hanno vissuto momenti e storie
d'amore soprannaturali, ma dolorose. Il grande amore
è comunque portatore di dolore nel suo destino,
e purtroppo la vita e l'amore rifuggono il loro rapporto
in tutto il mondo. Ci siamo avvicinati a questo paradosso.
Abbiamo paura di tutto, soprattutto dell'amore.
Abel Wakaam: Alcuni giorni or sono, quando
è sparito il tuo account di Facebook, mi sono
preoccupato per te. È difficile essere uno
scrittore in Siria? Puoi muoverti senza restrizioni?
Khaled Khalifa: Sì, posso muovermi
senza paura, ma qui nessuno è veramente al
sicuro. Quando viaggiamo, dobbiamo informare i nostri
amici delle nostre passeggiate, con l'ora e il giorno
della nostra partenza e dell'arrivo. Da anni vorrei
sparire per settimane, ma non posso farlo. Con Facebook
ho la tradizione di chiudere la pagina ogni tanto
per prendermi una pausa dalla dipendenza dei Social
Media.
Abel Wakaam: Nel libro "L'elogio dell'odio",
hai scritto che "La vita dona sempre un'occasione
meravigliosa per prenderti gioco dei tuoi nemici,
se ce l'hai fatta ad uscire vivo dalle loro mani".
A te è rimasta una mano buona per cogliere
questa occasione?
Khaled Khalifa: Penso che dopo l'ultima guerra
molte cose siano cambiate, ma questa regola d'oro
è ancora valida. Guardo cosa scrivono i miei
amici, residenti fuori dal paese con le loro famiglie,
li vedo deridere i loro aguzzini e il regime con tutti
i suoi simboli, e li insultano con parole volgari.
È un modo di esprimersi in cui c'è più
vendetta che la ricerca di giustizia, ma è
la nostra situazione poiché i Siriani negli
ultimi anni ci hanno fatto pensare che Dio non ci
interrogherà quando lo raggiungeremo. Devono
rendersi conto che colui che ha vissuto tutte queste
sofferenze terrene, merita di riposare nella sua vita
ultraterrena.
Abel Wakaam: In una tua lettera, tradotta
in tutte le lingue del mondo, hai scritto: "So
che la scrittura è impotente e nuda di fronte
al frastuono dei cannoni, dei carri armati e dei missili
che bombardano città e civili inermi, ma non
sopporto che anche il vostro silenzio sia complice
dello sterminio del mio popolo". Credi davvero
che le parole scritte possano risvegliare le coscienze
dei potenti, oppure il tuo era soltanto un gesto disperato?
Khaled Khalifa: In quei momenti ero molto
arrabbiato e mi sentivo impotente perché non
potevo fare altro, tranne scrivere, ben sapendo che
la scrittura non può risolvere i problemi del
momento, ma confidavo nella mia convinzione del ruolo
e nel potere della scrittura a lungo termine. Sto
ancora cercando un modo per curare le ferite di un
bambino bloccato sotto i bombardamenti, che continuano
ancora sulle regioni della Siria, ma di certo non
parteciperò alla festa dell'ipocrisia che glorifica
la scrittura. Soprattutto in tali circostanze.
Abel Wakaam: Sempre in un tuo romanzo hai
scritto: "Lunica verità che avevo
sempre difeso, lodio, andò in frantumi,
costringendomi a tornare alla domanda delle domande.
Qual era il vero rapporto tra il sentimento di appartenenza
a qualcosa, allorganizzazione, ad esempio, o
alla mia famiglia e il mio essere? Io ero una creatura
corporea che nuotava in un vuoto gelatinoso: la mia
vita era stata un insieme di cose prese in prestito
da altri". Davvero l'odio può diventare
una lama affilata, su cui non si può scegliere
la parte in cui stare?
Khaled Khalifa: Sì, l'odio può
essere il codice velenoso che distrugge la nostra
speranza, ma quando ho scritto "Elogio dell'odio",
ho pensato per la prima volta alla necessità
di rivelare la forza dell'odio, oltre che esprimere
amore, per auspicare una sorta di guarigione. Sentivo
che quel desiderio non mi era permesso, come se fosse
una regola d'oro. L'odio non può essere barattato
con l'amore, ma resta soltanto un concetto di futuro
più grande di un sinonimo di linguaggio.
Abel Wakaam
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