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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Sabrina Volpe
Titolo: La mia tana
Genere Romanzo
Lettori 3730 51 69
La mia tana
Sono grata al dolore e alle amarezze.

Alla solitudine e ai silenzi,
alle assenze e alle delusioni,
al vuoto interiore e alle restrizioni;
all'odio e all'indifferenza,
all'oppressione e allo smarrimento.
Solo così, ho saputo apprezzare
la vera essenza della mia vita.

Ho creduto nei sogni.

Mi sono cullata tra i ricordi.
Ho vissuto per i sentimenti.
Ho scritto per non morire mai.
Sabrina Volpe

Era in pericolo: ogni centimetro del suo corpo vibrava, come il vento tra gli alberi in una notte tormentosa. Lo sgomento scuoteva il suo cuore, un brivido sottile e sinistro si appropriava della sua pelle mentre i loro respiri si facevano strada raggelando il sangue nelle sue vene. Inghiottita da un angolo buio, in un lembo di asfalto consumato e sopraffatta da losche figure, sentiva l'oppressione di quelle parole strozzate in un sussurro roco e cantilenante mentre un alito di vento caldo lasciava il segno sul suo corpo inesperto e scevro di bramosia.
I fantasmi di quel passato funesto si rincorrevano piroettando come in un balletto di cui lei non era più la semplice spettatrice, perché stava diventando schiava di quella danza. Gli incubi affollavano la sua mente e rapivano i suoi sogni, obbligandola a rivivere all'infinito quell'attimo intriso di orrore; sperava che l'innocenza del mattino lenisse un po' quelle ferite che le laceravano l'anima, ma il tormento del ricordo le impediva di dimenticare. Sfoderò la sua audacia e indossò la sua pazienza, ma un silenzio tetro attecchiva nella sua anima.
Origine
Due anime, due cuori, due corpi e una straordinaria consapevolezza. L'intento di realizzare lo stesso progetto e la capacità di accoglierlo come un dono si unirono per generare quel miracolo che si chiama vita; una congiunzione di forze indotte a coesistere da un fattore predominante: l'amore. In una tiepida mattina di fine aprile, quando la leggerezza permeava l'aria e la natura si ridestava dalla desolazione dell'inverno, quell'atto d'amore si concretizzò. La sua culla era una stretta striscia di terra che cingeva il mare, ricoperta da pinete, boschi folti e sentieri tortuosi.
Questa accogliente insenatura si celava dal rigore dell'inverno e rinasceva dal letargo, ai primi tepori, desiderosa di essere esplorata da occhi sconosciuti e indiscreti mentre il mare e la collina si univano in un soffocante abbraccio. Ogni anno a Spotorno l'inverno, dispettoso e indeciso, ritardava la sua trionfale entrata; i ritmi rallentavano e una calma dissoluta animava le menti impotenti e rassegnate di certi incontrastabili, epici sognatori.
Il vento sfiorava veloce la terra e si insinuava sibilando tra le fessure, spirava in un lamento stridulo che danzava ad alta quota e avvolgeva tutto in una carezza refrigerante. Nelle notti calde, invece, lampi di delirio scuotevano dal torpore gli animi assopiti riportandoli a vecchie sofferenze mai placate mentre il risveglio, colmo di propositi e promesse, ridestava il cuore e le sue speranze. La punta del campanile sovrastava i tetti rossicci sparsi in un disordine composto. Le case, l'una a ridosso dell'altra, si confidavano tra loro come vecchie amiche, attraverso muri che avevano sentito e sopportato intere vite.
Case, finestre, volti e pensieri, immensi e piccoli come luce e buio, come i tasselli di un universo distante e forse inaccessibile. Il cielo raccoglieva le storie, la terra le sosteneva. Cornici muschiate, floride e fluenti, si ripetevano ritmicamente delimitando il paese a settentrione e si inchinavano, a sud, dinanzi al mare.
Nelle profondità di quel mare, intrappolato negli abissi, un mondo sommerso e sconfinato racchiudeva un regno segreto che presto sarebbe riemerso, con tutto il fascino e il mistero di una fiaba.
Ritorno al passato
Il vento soffiava e piegava con forza i fragili arbusti ingialliti che tintinnavano ritmicamente attraverso il vetro, come un ritornello, invitandola a lasciare il suo caldo nido. Aprì gli occhi, ma il buio l'avvolse, come un'immensa coperta, nel silenzio di quella grande stanza. Rivolse lo sguardo verso la finestra, ma nulla sembrava presagire l'arrivo di quel grande giorno.
Si alzò dal letto ancora insonnolita e stanca – a causa dell'eccitazione non aveva riposato bene –, poi spiaccicò il naso contro il vetro freddo cercando, con gli occhi semichiusi, il cielo. Nel cielo scuro, un pallido spicchio di luna e qualche stella facevano ancora capolino. La sveglia era puntata alle sette: mancavano una manciata di minuti, quindi prese gli abiti dall'armadio, si sistemò sul letto e cominciò a vestirsi; poco dopo il trillo la fece trasalire. Seguirono anche due tocchi sul muro adiacente: la mamma si assicurava che si fosse svegliata.
Un attimo dopo era in piedi, vestita, e reclamava la colazione davanti alla porta della sua camera. Il grembiule nero, sopra la sedia, profumava di buono, sapeva di pulito; la mamma lo aveva stirato la sera prima. Giovanna, avvolta nella sua morbida vestaglia rosa, la aiutò a infilarlo. Lo abbottonarono insieme, poi un fiocco blu unì due lembi di un colletto bianco e si chiuse intorno al suo collo. Nel grande specchio di casa, ritrovò l'immagine sorridente del suo viso tondo e della sua pelle bianchissima, mentre fuori cominciava ad albeggiare.
Un edificio color cemento, maestoso come una caserma, appariva dinanzi ai suoi occhi, mentre un grande cancello grigio si spalancava per accogliere la folla di scolari; una lunga recinzione conteneva un ampio cortile in terra battuta e alcune cornici verdi ospitavano grandi alberi. Le mamme stringevano a sé i loro piccoli, rassicurandoli; salutò la sua con un bacio, poi si unì al mucchio ed entrò. Alcuni rimasero avvinghiati alla figura sicura del proprio genitore, poi le maestre vennero loro incontro e anche gli ultimi, arresi e rassegnati, dopo pianti e capricci entrarono e si presentarono gli uni agli altri.

Da quel primo giorno di scuola trascorsero veloci le settimane, poi i mesi, infine gli anni volarono senza lasciare segni vistosi nella sua vita. Cresceva, affezionandosi ai suoi compagni e condividendo gioie, speranze e piccole delusioni; fatti di scarsa rilevanza. Quando ripensava a quei momenti, una nebbia sommergeva i suoi ricordi, ma di tanto in tanto, insistendo un po', affioravano in superficie sprazzi vaghi e offuscati di memoria.
La lunga infanzia aveva preservato la sua anima dall'odio e dal dolore, ma quel mondo intatto e puro era solo un riflesso del suo essere interiore. Un pensiero, però, si insinuò con prepotenza nella sua mente e condizionò le sue giornate per alcuni anni. I genitori, che non avevano alcun desiderio di ampliare la famiglia, non avevano preso sul serio quella sua richiesta e alle domande sempre più pressanti e inopportune avevano cominciato a raccontarle piccole e innocenti bugie.
In un primo momento se ne addossò tutta la colpa, poi cominciò a comportarsi in maniera irreprensibile: avrebbe affrontato qualunque privazione, pur di veder esaudito quel desiderio. Ignara del suo destino e relegata nel suo cupo isolamento, cominciò a spargere ovunque pensieri scritti, sfoghi e preghiere a quel Dio così sordo al suo dolore. Fu rassicurata solo quando, tra lacrime copiose e incessanti, ipotizzò la propria colpevolezza; non si rassegnò mai alla rinuncia. Detestava quella solitudine che imprigionava il suo cuore tra fredde mura.
Fragilità
Il mercato rigurgitava fiotti di persone in un crescente e incessante andirivieni. Un frenetico schiamazzare raccoglieva nuovi curiosi e creava confusione; se avesse avuto un paio d'ali, si sarebbe librata in volo a osservare quel formicolare informe e se fosse stata una pittrice, invece, avrebbe fissato sulla tela bianca macchie di colore in continuo movimento. In quell'assolata mattina di metà giugno, passeggiava incuriosita tra i numerosi banchi in compagnia della nonna Sandra; le lezioni scolastiche erano terminate e le agognate vacanze prendevano finalmente il sopravvento nella sua quotidianità.
Sandra si occupava di lei solo quando era strettamente necessario perché, durante la pausa scolastica, sua nipote veniva affidata a un campo estivo: ma il corso non sarebbe cominciato prima di qualche giorno. Sandra era una donna molto pratica; chiusa nella sua risolutezza e indifferente agli affetti più cari; non sembrava capace di esternare amore, non mostrava empatia nelle sue rare manifestazioni di coinvolgimento e il suo rigore eccessivo, nel tempo, le aveva reso impossibile lo sviluppo di qualunque tipo di sentimento. Probabilmente, non aveva mai sperimentato affezione in tutta la sua vita.

Nonna e nipote perlustrarono tutto il mercato, che si estendeva su una vasta porzione di lungomare, e si soffermarono a fare acquisti. Il banco della frutta e della verdura era invitante e deliziava i passanti con le primizie di stagione, i profumi veleggiavano nell'aria mescolandosi alla spuma salina del mare che il vento trasportava con sé. Il bancone delle stoffe, invece, esponeva rasi lucidi, organze, pizzi e scampoli di seta: una brava sartina ne avrebbe confezionato un guardaroba invidiabile. In poco tempo furono sommerse da borse e pacchetti e decisero, quindi, di incamminarsi verso casa.
Pensando di abbreviare il percorso, la nonna le propose di attraversare la strada senza servirsi del sottopassaggio. Titubante e confusa, la bambina manifestò il suo disappunto e le sue perplessità – la mamma a quel riguardo si era sempre raccomandata –, ma venne tempestivamente rassicurata. Un insieme di persone provenienti dal mercato si unì a loro e si prepararono tutti a raggiungere la sponda opposta.
Una parte del gruppo si distaccò mentre alcune auto sopraggiungevano a forte velocità e non sembravano intenzionate a rallentare, forse per l'assenza di segnaletica pedonale o forse per semplice menefreghismo. Attraversarono tutti; poi, esortata dalla nonna, prese coraggio anche lei e con una incerta decisione si portò sul ciglio della strada.
Volse lo sguardo a sinistra e a destra: la strada era quasi libera. Fece un passo in avanti e gettò un'altra occhiata a destra e poi a sinistra, altri tre passi e si ritrovò sulla linea di mezzeria, ma, assalita dal dubbio, si voltò ancora per controllare; la sua attenzione fu catturata dalla sagoma di un tir che proveniva da sinistra: era distante, ma il panico si appropriò del suo corpo quando si accorse che, da destra, una piccola utilitaria avanzava noncurante verso di lei.
Fece un balzo in avanti, ma questo non bastò a evitare lo scontro; l'urto fu violento e le fece perdere i sensi. Il giovane corpo sbalzò in aria come un oggetto inanimato, colpì il parabrezza, oltrepassò l'auto e si schiantò al suolo. Giaceva immobile sul caldo asfalto granelloso e intanto la folla, spaventata e incuriosita, si stringeva attorno a lei.
I primi soccorsi furono rapidi: le prestarono tutte le attenzioni del caso e tentarono la rianimazione; riaprì debolmente gli occhi, ma alla vista di tutta quella gente intorno si spaventò e riperse i sensi. Si risvegliò sulla lettiga di un'autoambulanza, frastornata dal suono della sirena che strillava nelle sue orecchie; sollevò faticosamente il capo e indirizzò uno sguardo allarmato e indagatore alla sua gamba destra. Un macigno invisibile comprimeva le sue articolazioni, i muscoli e i tendini. Un bozzo violaceo era l'unica traccia visibile di una collisione; nonostante i suoi pochi anni non si fece cogliere dallo spavento, vide accanto a sé la nonna e le domandò cosa fosse accaduto. Quella percezione straziante accertava il suo coinvolgimento in un incidente.
Ricoverata in ospedale, il medico le praticò una terapia contro eventuali traumi cerebrali e furono anche eseguiti gli opportuni accertamenti radiologici. Riportò la frattura di tibia e perone destro e un trauma cranico, senza gravi conseguenze, dovuto a una lieve contusione. Una lesione ossea al ginocchio destro, invece, compromise, per diverso tempo, la funzionalità della gamba. Dopo i controlli di circostanza, le ingessarono tutta la gamba fino all'inguine e fu dimessa, ma per un paio di mesi fu costretta a letto.

Furono mesi molto difficili, costretta a casa mentre i suoi compagni si crogiolavano spensierati sotto il sole e godevano del tempo libero in spazi aperti. La riabilitazione fu lunga e impegnativa, ma lavorò con perseveranza: avrebbe raggiunto il suo scopo e sarebbe ritornata a sorreggersi sulle sue gracili gambe.
La mamma lasciò il suo lavoro part-time stagionale e si prese cura di lei a tempo pieno. Ogni mattina la accompagnava in spiaggia e la faceva passeggiare a piedi nudi sulla battigia. La bambina camminava sul piccolo promontorio di sassi irregolari che il movimento ritmico delle onde e delle maree creava e mutava continuamente; era una ginnastica molto dolorosa a causa delle sue articolazioni atrofizzate. La mamma le stava accanto e la spronava a lottare quando perdeva fiducia in se stessa e nelle proprie capacità, quando i miglioramenti tardavano a realizzarsi o, peggio ancora, non c'erano affatto.
Riversava sulla mamma incertezze e angosce perché sapeva risolvere e comprendere i suoi dubbi e le sue paure. Era la luce nei suoi momenti cupi e il faro nei suoi percorsi incerti. Era devozione ed emozione, la trasparenza e l'intuizione, l'attenzione e la certezza, il giudizio e la risposta. Giovanna era una donna apparentemente forte e determinata, parlava con convinzione e fermezza senza tuttavia nascondere le proprie fragilità; si prodigava al sacrificio per proteggere e difendere la sua famiglia. Il suo amore infinito e il suo istinto protettivo andavano ben oltre la ragione, perché un resistente cordone ombelicale la univa ancora saldamente alla figlia.

Dopo lunghe ed estenuanti sedute di fisioterapia, la bambina ripristinò completamente le sue funzioni motorie. Frequentò anche un corso di nuoto per potenziare la muscolatura delle gambe, ma in quella grande piscina rimaneva intrappolata nella stessa sensazione di instabilità e smarrimento già conosciuta nelle profondità delle sue solitudini, e non si sentì mai a suo agio.
Tentò di dominare l'ansia e placare la paura servendosi della tavoletta: era una soluzione che la rassicurava; la teneva a galla e distante da quel vuoto che sembrava risucchiarla appena provava a liberarsene, ma tutti gli sforzi non la aiutarono a fare progressi. Dopo mille indugi, manifestò apertamente la volontà di abbandonare quell'appuntamento che la costringeva a dubitare del suo coraggio e limitava il suo continuo bisogno di migliorare. Chiese di poter frequentare il corso di danza classica: sapeva che la richiesta era onerosa, ma i genitori compresero ben presto il suo possibile talento ed esaudirono quella supplica.
In quella stanza di grandi specchi volteggiava leggera come una farfalla; lo sguardo era assorto, il volto appena inclinato seguiva un punto fisso e distante mentre il corpo si sollevava e seguiva la musica in perfetto accordo e armonia. Si protendeva verso l'alto, le dita tracciavano semicerchi invisibili, il busto inarcato disegnava una linea sinuosa e i piedi sfioravano appena il pavimento in parquet; la sua figura, esile e delicata, si addiceva a quella disciplina.
Frequentava le lezioni da poco più di due mesi quando il catechismo per la preparazione alla Comunione cominciò. In quegli anni, i valori ecclesiastici erano molto marcati nelle coscienze della comunità e rasentavano spesso un insano moralismo; disobbedire alle sacre leggi del cristianesimo significava sottovalutare e ignorare l'importanza della parola del suo esponente. Costretta ad abbandonare le lezioni di danza, che si svolgevano negli stessi giorni e nelle stesse fasce orarie, prese la Santa Comunione e mandò in frantumi tutti i suoi progetti, mentre un piccolo squarcio si aprì nel suo giovane cuore.
L'anno seguente si avverò il suo sogno tanto atteso e sotterrò, per sempre, quella passione in fondo al cuore, perché non avrebbe mai voluto realizzarla a discapito della nuova vita in arrivo.
Transizioni
Andrea aveva guance rossastre e un nasino appena abbozzato, minuscole labbra tumide e occhietti vispi; agitava in aria piccole mani dalle lunghe dita affusolate e sgambettava animatamente. Lo osservava da dietro al vetro della nursery del reparto di ostetricia e già sentiva un sentimento nuovo espandersi dentro il cuore. In quei lunghi nove mesi aveva condiviso tutti i cambiamenti e le trasformazioni della sua mamma, a cominciare dalle nausee mattutine e le corse in bagno, dopo aver preparato la colazione; aveva assistito all'auscultazione del battito tramite il suo orecchio appoggiato su quell'enorme pancia liscia e tesa, fino ai buffi movimenti e le strane forme che quest'ultima assumeva.
Aveva anche fantasticato sul sesso del bambino, perché l'ecografia non era ancora in grado di determinarlo, ma quando quella sera sollevò la cornetta, la voce calda ed emozionata del suo papà la riportò alla realtà; così informò la nonna che purtroppo non si trattava di una sorellina e poi, esitante e perplessa, lo accolse comunque nel suo cuore e nella sua vita.
Lo stringeva contro il suo petto acerbo, con mani inesperte ma delicate, e catturava la sua attenzione con l'enfasi delle parole. Avrebbe desiderato tenerlo tutto per sé, al riparo dal mondo, ma la mamma, troppo apprensiva, la controllava a distanza accertandosi che lo maneggiasse con cura.
Fragorose risate, gorgheggi, strilli e pianti interminabili, ora, riempivano i silenzi e colmavano i vuoti delle sue lunghe giornate. Ricalcava i gesti e le movenze della figura materna, che non conosceva ancora ma sentiva innata; era una sensazione sconosciuta di dolcezza infinita, la stessa che faceva esplodere il suo cuore in un tripudio di amore e tenerezza.
Questa parentesi di serenità trascinò con sé i primi conflitti interiori e le insoddisfazioni tipiche della pubertà.
Ammaliata dalle raffigurazioni del corpo femminile che imperversavano sulla carta patinata di numerose riviste di moda e bellezza, e incuriosita dalla volubilità del suo stesso temperamento, scrutava e analizzava ogni parte del suo corpo spigoloso e ogni giorno scopriva un'imperfezione.
I suoi occhi castani non le piacevano, la bocca minuta e le labbra quasi inesistenti non erano affatto sensuali e il suo naso imperfetto sembrava tenere a distanza tutto il suo mondo. Ogni volta che abbassava lo sguardo non faceva altro che imbattersi in una distesa arida e due semini che non avevano nessuna intenzione di sbocciare. Lo specchio le rimandava, sempre, un'immagine sgradevole e difettosa.
Alternava momenti di estrema euforia a veri e propri supplizi esistenziali con spargimento incontrollato di lacrimoni; ritornava poi allo specchio e il naso rosso come un peperone non la aiutava a sentirsi meglio. Il suo umore era un'altalena in continuo movimento sopra un campo di sterpaglie. Si auspicava un avvenire fertile in cui fare germogliare i semi della sua felicità, ma l'impatto con la vita non faceva che accentuare le sue fragilità e rivelava la sua natura docile: doveva fronteggiare l'insicurezza a cui la sua quotidianità la esponeva.
La sua mente non era completamente assorta nello studio e i suoi interessi spaziavano altrove; stregata dall'impenetrabile universo maschile, sognava grandi amori. In classe, i maschi si contrapponevano alle femmine indossando miti e divise che esaltavano un egocentrico maschilismo e infierivano, scagliandosi con appellativi indicibili, contro chi si opponeva ai fugaci palpeggiamenti. Lusingate da un probabile quanto improponibile interessamento, ma ignare di essere poi catalogate con termini dispregiativi, alcune acconsentivano solo per un disperato bisogno di mettersi in mostra.
Frequentava alcune compagne di scuola che, pur non mostrandosi altezzose, superficiali o intolleranti, erano in discordanza con il suo temperamento pacato.
In un caldo pomeriggio di giugno, passeggiavano per le vie del paese immerse nelle comuni fantasticherie, quando furono pedinate da alcuni ragazzi, poco più grandi, che esibivano con fierezza tutta la loro virilità repressa e provavano a attrarre la loro attenzione con discorsi strampalati, zeppi di rafforzativi non proprio raffinati e con una pseudo galanteria inopportuna.
È risaputo che il maschio alfa prova imbarazzo a manifestare verbalmente sensazioni e sentimenti ma, quando vuole, sa farsi capire perfettamente con il semplice linguaggio del corpo; così, tra una battuta e una risata accattivante, si delinearono alcune simpatie che ricavarono intime alcove lungo il binario tronco della stazione ferroviaria. Il primo bacio fu un'esperienza tutt'altro che speciale, perché mancava di romanticismo e intimità.
Gianni aveva magnifici occhi verdi che ricordavano le acque di certi fondali marini, una statura e una corporatura media e viveva in un'altra provincia. La sua arma di seduzione era la lingua che usava, spropositatamente e con audacia non ricambiata, intorno a quella di lei, mentre le mani, troppo esploratrici, erano imbarazzanti.
Per il terzo appuntamento lei avrebbe dovuto raggiungerlo nel suo paese, ma perse la coincidenza del treno, così raccolse quel segnale fortuito e decise di non rivederlo mai più. Trascurò e infine abbandonò queste amicizie di scarsa sostanza e cominciò a frequentare, con interesse e assiduità, sua cugina Diana. Necessitava di avere accanto una confidente che condividesse la sua stessa percezione un po' contorta della realtà, e comprendesse nella stessa maniera le emozioni, valutandole solo per quello che emotivamente suscitavano e non per quello che realmente rappresentavano.
Un'amica fidata a cui fare riferimento nella fase più critica della sua vita; un appoggio morale e un confronto autentico: Diana avrebbe potuto occupare, con assoluta certezza, quel ruolo vacante. Aveva pochissime amiche perché non si accontentava della mediocrità e non accettava la falsità che la circondava e si insediava silenziosa tra le righe del suo vissuto.
A tutto ciò preferiva la solitudine e in essa affrontava il suo quotidiano, entrando in comunicazione con i lati più profondi del suo essere, motivo per cui nel corso degli anni sviluppò un carattere riflessivo, un saldo senso pratico e un individualismo indissolubile. Diana le dimostrava la sua fedele amicizia e lei ricambiava con la sua confidenza. Il loro era un sentimento unico e spontaneo; avevano molto da condividere: le aspirazioni, la poca differenza di età, l'indole gentile, le prime esperienze amorose e la stessa sensibilità verso un sentimento nobile come l'amore.
Il silenzio suggellava un tacito patto che neppure il trascorrere del tempo e gli imprevisti futuri, avversi, avrebbero sciolto. In un torrido pomeriggio di agosto, distese su coloratissimi teli in riva al mare, indugiavano in completo ozio sotto i raggi cocenti quando furono distolte da battute e apprezzamenti eleganti. Due giovani amici, con gesti piacevoli e discorsi sensati, conquistarono la loro attenzione e riuscirono a strappare anche un invito per la serata.
Gli sguardi si lasciavano sedurre, ammaliati dalla naturale gestualità scandita dal ritmo lento dei corpi che, come in un balletto, esibivano un fascino accessibile a pochi. Facevano breccia nei giovani cuori, spingendosi oltre le pieghe del desiderio e sconvolgendone i pensieri, ma questi meccanismi erano inconsci, perché le ragazze ignoravano le tecniche della seduzione. Furono contagiate e sedotte dalla loro simpatia e non fu un mistero l'interesse che entrambi nutrivano: con spontaneità, i due ragazzi si dichiararono. Lei fu attratta e ricambiata dal biondino, che aveva modi garbati e atteggiamenti protettivi ma non era molto loquace.
Edoardo viveva in un'altra regione ma nel periodo estivo villeggiava al mare, in una casa di proprietà, con i suoi genitori. Aveva un corpo tonico e ben scolpito, spalle spioventi e statura appena sotto la media, il classico fisico di chi fa periodicamente fitness e si mantiene in forma con i pesi; la intratteneva con una moltitudine di piccoli e delicati baci a labbra dischiuse, gradevoli, certo, ma privi di passione.
Appartati in giardini segreti, su scomode panchine al chiarore di un lampione, si osservavano ripetutamente scambiandosi baci e timide frasi di circostanza, ma in quegli interminabili momenti lei percepiva sensazioni di lieve isolamento, non solo perché una fitta e opprimente vegetazione li circondava.
Oltre ai baci non ci fu mai nessun altro contatto; mancavano dialogo e riferimenti al futuro. Quando sopraggiunse il fresco vento di ponente, che portò con sé i colori dell'autunno, l'avventura si esaurì e ognuno ritornò alla propria quotidianità; lui rientrò in città e ripresero, per entrambi, le attività scolastiche.
Le giornate si accorciavano rapidamente e il cielo, sovente coperto da nuvole, minacciava imminenti temporali; il vento increspava il mare, che sbatteva con forza incontrollabile sulla spiaggia, sugli scogli e oltre il molo. Andrea cresceva al suo fianco e divideva con lei la grande stanza riempiendo, con la spensieratezza e la curiosità dei suoi pochi anni, i suoi lunghi pomeriggi. Gli insegnava filastrocche e raccontava favole, gli illustrava immagini e offriva pagine bianche da riempire di colore; non perdeva occasione di giocare, saltellare e canticchiare con lui; lo rendeva partecipe dei suoi brevi momenti di svago.
Lo affiancava, come meglio poteva, nella sua crescita, ma la differenza di età si rivelò un limite imprevisto. Dopo le scuole dell'obbligo aveva deciso di proseguire gli studi e orientare i suoi interessi all'arte, ma il liceo, in quegli anni, aveva un solo indirizzo artistico: quello di architettura; non avrebbe avuto grandi possibilità lavorative a meno che non avesse proseguito con l'Accademia di Belle Arti o la facoltà di Architettura.
Smaniosa di concretizzare le sue nuove ambizioni, cominciò il liceo e volò incontro al futuro sempre più insicura. Attraverso la matita, che accarezzava intrepida il foglio ruvido, dissipava turbamenti e incertezze. La psiche e il cuore le si univano in una danza senza tempo, una magia si impossessava dei suoi pensieri e la spingeva fuori dal reale. Il disegno le stimolava l'intelletto e la creatività e rigenerava anche il suo spirito.
Disegnava traendo spunto e ispirazione dalla natura e da tutto ciò che la circondava. Si soffermava sul dettaglio cercando, con pochi passaggi di matita, di fare emergere le caratteristiche salienti e ricreare quel chiaroscuro naturale che conferiva profondità e rilievo a tutto quello che, su un foglio, appariva statico. Con il solo tratto e sfumature di colore, sapientemente amalgamate, aggiungeva quel tocco di realismo che catturava l'osservatore.
Prediligeva solo alcune fra le materie scientifiche: la chimica e la biologia, ma anche l'anatomia, suscitavano in lei un grande interesse e i rendimenti erano a esso rapportati. Intanto le settimane e poi i mesi trascorsero rapidamente e la primavera prese di nuovo il sopravvento risvegliando i sensi assopiti dalla rigidezza dell'inverno.
Lo studio l'aveva distolta dalle futilità della vita, destinando ai sentimenti un angolo buio. La spessa coltre di ghiaccio che, durante il lungo letargo, avviluppava il suo cuore si sciolse e come un fiore dischiuse i suoi petali mostrando al cielo la sua fulgente corolla. Uscì dal torpore ritemprata nello spirito e sprigionò tutta la sua natura inespressa, ma non si sforzò mai di apparire; detestava ostentare la sua immagine e celava accuratamente la sua femminilità dalle attenzioni lascive e imbarazzanti di qualche maschio troppo esuberante.
Introspezione
La sua natura introversa la incoraggiava a foggiare un universo chiuso, al centro del quale poneva il suo riferimento; si circondava, poi, di tutto quello che non costituiva una minaccia alla sua continua crescita interiore e integrità morale. La sua abnegazione le permetteva di amare senza riserve, tuttavia non accettava che si tradisse la sua fiducia; non era affatto indulgente, su questo punto.
La sua innata insicurezza nei rapporti sentimentali si trasformava, sovente, in un irragionevole sentimento poiché era afflitta da un irriducibile complesso di inadeguatezza; possedere era una necessità che la faceva sentire forte e inattaccabile.
Quando allacciava un rapporto, lei instaurava basi di amicizia e confidenza; lei stessa donava fedeltà, complicità e affetto sincero. Si affidava al suo spiccato istinto che le permetteva di compiere una valutazione oculata e accurata delle sue scelte; oramai lo aveva assodato: era ineccepibile. Le continue ricognizioni all'esterno, invece, arricchivano il suo bagaglio culturale e le offrivano una visione ampia e autentica del suo io. Predisposta a piccoli e grandi gesti, senza alcuna pretesa in cambio, aveva parole e attenzioni premurose da elargire, semplici dimostrazioni di affetto incondizionato che le sottraevano tempo.
L'affetto è un sentimento confortante e necessario, ma non sopravvive se non è costantemente nutrito e protetto, e questo lo stava imparando a sue spese: l'unione si allenta se viene a mancare un apporto continuo di stima e rispetto reciproco, così come lo scarso interesse, invece, affievolisce ogni tipo di sentimento.
Si trastullava con pensieri e congetture conflittuali che riversava su pagine e pagine di quaderno; si domandava perché mai era faticoso mantenere uno stato di benessere reciproco. Si domandava cosa fosse realmente la felicità e come potesse facilmente raggiungerla e mantenerla. Riassunse il concetto nei seguenti e personali punti:
Il raggiungimento di un traguardo impossibile.
La realizzazione di un'ideologia.
Una buona intesa con gli altri.
La creazione e il sostentamento di un nucleo affettivo.
La costruzione e il mantenimento di una dignitosa posizione professionale, in un futuro governato dalle proprie scelte e regolamentato da leggi che proteggono e non distruggono i valori acquisiti dalle esperienze di crescita.
Amare ed essere ricambiati.
Il conseguimento di tutti i passi sopraelencati.
Per alcuni di questi proponimenti la questione era inequivocabile: bastava impegnarsi a prodigare il meglio di sé e sperare di ricevere lo stesso trattamento. Si arrovellava la mente cercando di capire dove si nascondesse l'inghippo; non poteva essere così semplice.

Apparentemente sembriamo tutti uguali: in sostanza ciascuno cerca la sua felicità. Osservando attentamente le dinamiche, però, ci scopriamo differenti nel formulare un concetto e nel metterlo in pratica e, per quanto possiamo sembrare simili, molteplici sono le sfumature che ci distinguono gli uni dagli altri perché le controversie che si frappongono tra noi, il mondo e gli altri sono infinite.
La vita è un rebus e solo noi possiamo decidere se accettarlo e risolverlo, oppure ignorarlo e diventarne parte integrante. Nel lasso di tempo concesso, ci approprieremo degli strumenti giusti; se li comprenderemo e li useremo in maniera adeguata trarremo beneficio e assaporeremo la vita nella sua vera essenza. Il libero arbitrio sarà l'arma più potente che impugneremo, ci distinguerà a ogni bivio e seguirà regole che spesso dovrà infrangere. La scelta determinerà un risultato ma l'esperienza suggerirà e condizionerà il nostro percorso.
Il domani è incerto per ognuno; per alcuni sarà una scommessa con se stessi, per altri non esisterà, i più fortunati sopravvivranno, ma chi non potrà più permettersi di sognare e sperare avrà ricevuto la sorte peggiore. La vita scorre inesorabilmente e non si può fare altro che prenderne atto e provare a viverla.

La sua vita andava avanti tra alti e bassi di gioie e dolori, tra lacrime e sorrisi di bugie e verità, tra nascite e perdite; era la somma di ogni suo gesto di rinuncia o di rifiuto, di accettazione e accoglienza: un susseguirsi di equilibri precari. La sua felicità risiedeva nella capacità di raggiungere e far durare questi equilibri e la qualità della sua vita non esulava da tutto questo. Aveva una luce nuova negli occhi perché, conseguentemente a quelle osservazioni, era finalmente in grado di comprendere quell'oscuro enigma che spiega la vita.
Traguardi
Quella mattina di fine aprile – il cielo era un pesante telone plumbeo – non si sorprese quando lei lo osservò dalla finestra della sua camera; per diciassette anni il giorno del suo compleanno era quasi sempre stato scuro e uggioso e si accompagnava a sensazioni di malinconia, mista a euforia, a cui si aggrappava per eludere una realtà ordinaria e prevedibile.
I suoi stati d'animo rasentavano, spesso, un moderato pessimismo che però la relazionava, in modo intelligente, al quotidiano, impedendole di inseguire realtà impossibili; si preparava ad affrontare così le delusioni che forse in questo modo non avrebbero inciso troppo sulla sua autostima, già abbastanza precaria. Aveva atteso con ansia quel giorno che però ora spalancava con furia le imposte del suo cuore, cogliendola impreparata.
Avvertiva un senso d'incertezza crescere dentro di sé mentre avrebbe desiderato sentirsi intraprendente e sicura. Rivolta alla vita, spesso ostica e inflessibile, si impegnava per renderla gradevole e interessante e anche quel giorno la sua mente rincorse quel pensiero. La mattinata a scuola era trascorsa in un lampo, insieme agli auguri delle compagne che, con indifferenza mal celata, le sorridevano.
Martina, invece, le aveva rivolto il più grazioso dei sorrisi mentre i suoi grandi occhi nocciola si infilavano furtivamente nel suo cuore, aveva deposto nel palmo della sua mano un pacchettino infiocchettato e un biglietto, poi le aveva stampato un bacio sulla guancia e si era allontanata. Si era accomodata al banco, con un incontenibile stupore, a osservare con attenzione quel biglietto di auguri realizzato interamente a mano.
Un bocciolo di rosa stilizzato incorniciava un lato del cartoncino bianco accanto al quale si leggeva, a caratteri cubitali, una dedica. Un elenco di aggettivi componeva una frase che le strappò una lacrima di commozione: era felice; le bastava davvero poco, per sentirsi in sintonia con tutto il suo mondo.
Martina era la sola compagna con la quale avesse creato una connessione molto profonda negli ultimi anni scolastici e tra loro era sbocciata un'amicizia spontanea e pura, priva di invidia e incomprensioni. Complici di un comune fervore, avevano progettato la serata in discoteca e nel tardo pomeriggio cominciarono i lunghi preparativi per quel compleanno speciale.
Arroccata sulle alture scoscese di un paesino sperduto, in un ammasso di vegetazione rugginosa e relitti di legna strinata, tra villette che si moltiplicavano allo stesso ritmo degli incendi, si levava la discoteca. Un faro verde, al laser, sparava attraverso il buio della notte per richiamare una discreta quantità di anime che, attraverso la musica e il ballo, si svincolavano dall'onere di un'intera settimana. L'impegno dello studio e l'estenuazione lavorativa venivano affrontati e superati, in previsione di quello svago che alleggeriva lo spirito dallo stress a cui ognuno era sottoposto. Saltarono una lunga fila, sfilando sotto occhi increduli e sorpresi; fu difficile da sostenere se non a testa bassa e con il riserbo nel cuore.
Acquistarono il biglietto di ingresso, raggiunsero il guardaroba e depositarono le giacche, poi si accaparrarono un divanetto e rimasero in attesa: la discoteca era semivuota. Brillavano sotto un fascio soffuso di luce ultravioletta mentre le hit musicali, contemporanee, scorrevano in sottofondo. Mezz'ora dopo, il volume era al massimo e la pista pullulava; presero coraggio e si mescolarono alla confusione. Scatenarono, fino a tarda notte, la loro inesauribile energia, consapevoli di avere una piccola parte di sguardi addosso.
Accettò questo sano egoismo che la elevava appena da terra e divenne, per una volta, il centro del suo stesso universo. Poi, intorno a mezzanotte, fu distratta da due scintille di luce che incrociarono il suo sguardo e cominciarono a inseguirla per tutta la pista.
Ipnotizzata da quegli occhi che si facevano strada tra la folla, imbarazzata, ma al tempo stesso attirata dal quel viso che esprimeva tenerezza e semplicità, fu letteralmente trascinata in quel vortice di piacere. Si ritrovarono così vicini che le fu impossibile evitarlo; sentì avvampare sul viso, ma per fortuna giochi di luce minimizzavano il rossore e si sentì al sicuro. Poi, con leggero impaccio, lui si accostò al suo orecchio e le fece un complimento mentre la musica copriva quasi del tutto la sua voce.
Ringraziò timidamente mentre le guance e il petto, avvolti dalle fiamme, adesso pizzicavano. Quell'ardore lacerava il suo stomaco, come se uno stormo di farfalle ci volteggiasse sbattendo con impeto le ali, ma le fece percepire, inspiegabilmente, una voluttuosa sensazione. Tutta quella adrenalina scorreva fuori controllo e scuoteva ogni centimetro della sua pelle che si accapponava e sussultava in un improvviso e fugace tremito.
È tutto sotto controllo, si ripeté mentalmente, poi si immaginò al di fuori del proprio corpo e si scrutò con occhi severi. Era molto esile, mentre avrebbe desiderato assomigliare a Martina: possedere i suoi fianchi morbidi e i suoi seni procaci, sotto quelle provocanti aderenze. Priva di quegli attributi così conturbanti, sentiva il proprio corpo chiudersi al mondo, in un susseguirsi di movimenti rigidi e poco armoniosi; intanto lui si presentò con due analcolici e si appartarono su un piccolo divano, nella semioscurità.
Entrambi emozionati, non tacevano quel sentimento che visibilmente pervadeva i loro volti, poi uscirono nella terrazza al riparo del frastuono della musica e si raccontarono l'uno all'altra. Il dialogo era spontaneo e vivace. Si chiamava Giorgio e aveva fatto studi professionali che gli avevano fornito una preparazione tecnica, specializzata nelle attività pratiche di laboratorio; faceva l'operaio meccanico e manutentore per un'importante azienda del settore aeronautico, che produceva aerei civili e militari, a Finale Ligure, il paese in cui viveva.
Entrambi sognavano un futuro in cui poter erigere mura solide, a protezione di quello che avrebbero ideato strada facendo. Nel cielo, la luna era una virgola luminosa confinata in uno schema tessuto da una miriade di stelle. I loro corpi si avvicinarono mentre gli sguardi, rivolti al cielo, rimasero per un po' in contemplazione, poi scivolarono fino a incrociare le labbra, ignare, che si sfiorarono in un soave delirio.
Le gambe tremarono e il cuore spinse, prepotentemente, contro il suo petto. Giorgio la osservò con dolcezza, accarezzò la sua guancia, la strinse a sé e la baciò ancora, poi le prese il viso tra le mani e con leggero impeto continuò a baciarla. Ricambiò i suoi baci, con tutta la delicatezza che le si confaceva, poi il silenzio calò come un velo e rapì i loro cuori.
Martina, che fino a quel momento era occupata in altre conversazioni, la raggiunse, poi sbirciò l'orologio al polso: era tardi. Dovevano rientrare. Giorgio le chiese il numero di telefono di casa e cercò di strapparle un appuntamento per il giorno seguente, ma le due amiche, in previsione della chiusura dell'anno scolastico e delle imminenti interrogazioni, avevano deciso di dedicare l'intero pomeriggio allo studio.
Si salutarono con un interminabile bacio e si separarono. La notte fu breve, il sonno concitato.

Il pomeriggio seguente prese un mezzo pubblico, raggiunse Martina a Savona e insieme si recarono al grande parco; si sistemarono sopra un muretto che costeggiava tutto il lungomare e all'ombra di una grande palma si dedicarono alla lezione di storia. Incanalò tutta l'euforia fuori controllo e concentrò la sua attenzione sull'argomento, rimandando i dolci pensieri al suo rientro.
Il tempo scivolò tra le pagine lucide e corpose; scavalcò immagini suggestive e sanguinolente, fuggì sotto una pioggia di lance e giavellotti, sopravvisse tra battaglie in acque gelide e impetuose mentre migliaia di scudi si sollevavano contro il nemico e infine si consumò tra i capitoli del libro.
In autobus, si accomodò sui sedili posteriori e ricominciò a fantasticare; intanto il paesaggio scorreva veloce alle sue spalle e l'eccitazione riprendeva vita. Varcò la soglia di casa mentre il sole lasciava un alone infuocato dietro le montagne lussureggianti. La presenza degli zii la sorprese piacevolmente, poi, nella confusione, incrociò gli occhi della mamma intenti a osservarla: il suo volto mostrava un'insolita espressione di sorpresa.
Bastava un silenzioso gioco di sguardi, per scoprirsi turbate o semplicemente incuriosite, ma nei suoi occhi leggeva stupore. Quell'incontenibilità stava diventando ingestibile: doveva sapere. Qualche ora prima aveva telefonato un ragazzo e con modi educati e gentili aveva chiesto di lei; avrebbe richiamato in serata. Ora non stava più nella pelle. Gli zii si congedarono e tutti gli altri si prepararono per cenare, ma per via di quello scompiglio, quando fu a tavola, l'appetito le era svanito e lo stomaco le si era chiuso.
Pregustava quel momento, ma al tempo stesso era impaziente e nervosa davanti al suo piatto vuoto. A causa della sua eccessiva timidezza, temeva di rimanere intrappolata in un silenzio imbarazzante o peggio ancora in un discorso prolisso e impegnato. In ogni caso, avrebbe evitato di essere superficiale; stava ancora riflettendo quando il trillo del telefono la colse impreparata. Sobbalzò dalla sedia e il cuore cominciò a fare le capriole fino in gola. Esitò un attimo; fece un respiro profondo e riprese fiato, poi con passo deciso afferrò il ricevitore e rispose con una voce che non riconobbe come la sua. Come era possibile che quell'intonazione, così melliflua, fosse rifluita dalla sua bocca?
Dall'altra parte, l'accolsero parole pacate e confortevoli; Giorgio desiderava rivederla al più presto, ma per via degli impegni scolastici fissarono l'appuntamento per il fine settimana successivo. Era incredula e senza parole e la fame, ora, prese d'assalto il suo stomaco; divorò un delizioso e abbondante piatto di pastasciutta; poi, esausta, si gettò sul letto a ripassare la lezione mentre il sonno lentamente sopraggiungeva.
Le settimane volarono una dopo l'altra e i mesi trascorsero serenamente. I contatti con Diana si erano intensificati e la sua fragilità, che la rendeva bisognosa di premure, era bastata per spingerla a prendersene cura. Unite da un solido vincolo di parentela, a cui entrambe le famiglie avevano contribuito, non perdevano occasione per trascorrere insieme intere giornate, ma adesso Diana era giunta a un bivio della sua vita che la costringeva a una svolta. Decisa a proseguire gli studi, si iscrisse all'università e si trasferì in un'altra provincia; scelse un indirizzo impegnativo e arduo, esortata dalla madre che riponeva in lei troppe aspettative.
Erano cresciute come sorelle consigliandosi e affrontando, a piccoli passi e altrettanti sbagli, le vicissitudini di quella porzione di vita, ma ora quell'animo delicato veniva travolto dagli avvenimenti e piegato dal vento dell'inconsapevolezza e la sua mente era imprigionata in una sottile costrizione che non avrebbe saputo restituirle la libertà.
Il distacco fu ineluttabile, ma non dipese unicamente dalle strade differenti che entrambe intrapresero: incisero anche i rispettivi atteggiamenti e le volontà future. Spogliata di quel grande affetto, si strinse sempre più a Giorgio e riservò a lui tutte le attenzioni; al di fuori della scuola trascurò, inevitabilmente, la sua compagna Martina, fino a che il rapporto si perse nel tempo. Nel cassetto dei ricordi conservava, con molta nostalgia, una riflessione che Diana aveva annotato sul suo quaderno; di tanto in tanto lo sfogliava e riemergeva la memoria: le confidenze si concretizzavano e il sentimento si rinnovava e prendeva forma.

Gli amici non sono tutti uguali. Con alcuni, non ti basteranno le parole di tutta una vita per costruire solide e durature fondamenta, mentre con altri saprai creare una vera unicità che non deriva dalle parole. L'amico colma i tuoi silenzi e non sottolinea le tue assenze, accetta il tuo passato, supporta il tuo presente e incoraggia il tuo futuro. L'amicizia è un sentimento di scambio libero: non si può pretendere, non si può comprare.
Sovente chi elargisce attenzioni, però, lo fa per convenienza personale; è più semplice vendersi con un falso sorriso oppure ammaliare con frasi di circostanza, piuttosto che esporsi e subire critiche e rifiuti rischiando di ritrovarsi emarginati e soli, nel tentativo di difendere i propri princìpi e sostenere le proprie opinioni.
La solitudine, quella dell'anima, sopravvive tuttavia. Dovremmo imparare a essere buoni mediatori, abili a non provocare scompiglio, vivendo il quotidiano in tutta coscienza e completa responsabilità, senza la presunzione di essere infallibili. Dovremmo imparare a gioire della felicità e dei successi altrui, abbandonando invidie e ipocrisia, ma essere mediocri è più facile che provare a essere migliori. La coerenza è un privilegio che pochi sanno mantenere.
Affrontiamo distanze e allontanamenti: individui da scartare e amicizie da recuperare; consuetudini imprescindibili e abitudini da evitare. Abbiamo scelte ma non esistono obblighi. Le incomprensioni nascono quando il dialogo non le compensa perché è assente. Così, dietro a quei silenzi, si innalzano i muri: abbattiamoli e sforziamoci di guardare oltre.

Per la sua significativa esperienza di vita, classificava l'amicizia in tre fasce tipologiche: chi aveva continuamente pretese sull'altro come un diritto acquisito e non si preoccupava affatto di ricambiare, chi elargiva ma esigeva e pesava ogni reazione corrispondente alla propria azione come un dovere e chi, invece, donava liberamente per il gusto di rendere felice chi gli stava accanto, senza nessuna aspettativa, ma solo per puro piacere.
L'amicizia è un intreccio di piccoli gesti: un abbraccio caloroso, un sorriso inaspettato, uno sguardo complice, un bacio rubato, una risata contagiosa, un passatempo condiviso, uno scambio di opinioni, un aiuto solerte, un consiglio disinteressato; manifestazioni che il mondo ha quasi dimenticato. Il consenso, la partecipazione, l'appoggio, il nostro aiuto: questa è la solidarietà.
La solidarietà è la forza che ti spinge fuori dal baratro, è il braccio che ti solleva quando cadi, è la mano che ti accompagna attraverso sentieri intricati e bui; è la parola che conforta e l'abbraccio che perdona, è l'equilibrio e il rispetto tra gli esseri umani. È la fede e l'umiltà; la partenza e mai l'arrivo. L'unità e il fine comune; l'inizio e mai la fine. È il collante e mai il disgregante. È un pregio straordinario e una rarità: chi la riceve e chi la dona è interiormente ricco.
Sabrina Volpe
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