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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Alessio Moa
Titolo: Il popolo della Dea
Genere Fantasy
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Il popolo della Dea
La terra degli Histri

La cittadina di Badò si era sviluppata attorno al suo porto, protetta a est e a ovest dall'insenatura dove trovava riparo e a sud dalle isole che la cingevano. Ogni giorno numerosi pescherecci e barche di diversa grandezza salpavano verso un mare pescoso ma infido. I venti impetuosi e le coste frastagliate rendevano la navigazione un compito adatto solo a marinai abili ed esperti.

Non era un segreto che a volte la flotta degli Histri attaccasse, per depredarle, le navi spinte troppo vicino alla costa dai venti e dalle correnti avverse. Ma ora era tempo di pace e non esisteva rivalità con le città del popolo della Dea.
Sulle banchine del porto il pescato veniva selezionato con cura, quindi collocato su enormi ceste di legno.

Osservando i lunghi pontili che si irraggiavano verso il mare, saldi e indifferenti ai destini degli uomini come forse lo erano gli stessi dèi, Ubith si sentì quasi perduto. La notte era passata praticamente insonne mentre si rigirava in preda all'inquietudine sopra la branda, tra lembi di sogni angosciosi e oscure premonizioni. Lontano dalla sua terra, senza più punti di riferimento, lo attendeva una città ignota e in apparenza incomprensibile.

Prudentemente aveva deciso di rifiutare l'aiuto del comandante Muntic che si era offerto d'intercedere presso le autorità di Nesazio. Nella migliore delle ipotesi sarebbero potuti entrare in città solamente sotto scorta, guardati a vista da un drappello di soldati armati. Non avrebbe avuto alcun senso. Il loro unico scopo era quella di raccogliere notizie sui superstiti del santuario della Dea e scoprire il luogo dove si erano diretti per rifondare Shira. Un compito difficile che avrebbero potuto portare a termine con successo solamente a condizione di avere la massima libertà d'azione.

Ai soldati di qualsiasi etnia era negato l'ingresso in città e lui e i suoi due uomini avevano dovuto indossare ampie tuniche di canapa per nascondere le armi che tenevano infilate nei cinturoni.

Cosa lo spingeva a Nesazio oltre a quei nobili scopi? In fondo avrebbe potuto per prima cosa interrogare qualche marinaio di Badò di ritorno con la sua nave; lo stesso Muntic avrebbe potuto, dall'alto della sua autorità, esporsi in prima persona per cercare di rintracciare qualcuno che avesse avuto notizia del passaggio dei sopravvissuti del santuario e della loro destinazione. Perché allora era così ansioso di entrare a Nesazio?
Un'urgenza sconosciuta forse, un desiderio di conoscere senza intermediari quella città indifferente che non avrebbe mosso un ciglio per aiutarli. C'era qualcos'altro d'inconfessabile?

Mentre osservava i gabbiani che si facevano portare dal vento sulla scia di una grande chiatta lanciando le loro grida fameliche, uno dei due giovani soldati che si erano offerti volontari per accompagnarlo gli si avvicinò timoroso.

- Comandante Ubith... mi chiedevo... ci chiediamo un po' tutti in effetti... quali saranno le prossime mosse? I marinai della nave, ecco, mi sono sembrati un poco scoraggiati. Non nutrono molte speranze che a Nesazio ci sia qualcuno che possa aiutarci a trovare il luogo dove... sì, dove le Favorite e i Favoriti degli dèi ci attendono per ricostruire Shira. -
- Rhami... Ti chiedi cosa faremo. La terra dove siamo nati è in mano ai Kurgan: sta bruciando. Il nemico stesso ci insegue. E questa città ti appare un enigma. Nesazio prima o poi rischia di essere invasa e, a quanto si dice, nessuno se ne preoccupa. Bene, per prima cosa andremo a vedere di persona se le cose stanno realmente in questo modo. Ricorda inoltre che per giungere nel luogo dove rifondare la nostra città abbiamo bisogno di conoscere il territorio che si apre oltre il piccolo mare: ci mancano guide, esploratori, conoscenze. Abbiamo bisogno di tutto. Forse riusciremo a trovare chi ci aiuterà. Dobbiamo trovarlo. -

Rhami si lasciò sfuggire un sospiro, poi quasi a controbilanciare quel gesto d'involontario scetticismo annuì in modo vigoroso, schiacciando con un gesto di nervosismo una zanzara che si era posata sulla sua coscia. Entrambi guardarono i pescatori ai bordi della chiatta spingere le grandi pertiche nell'acqua per contrastare la corrente impetuosa che trascinava l'imbarcazione verso il molo. Servivano braccia e muscoli potenti per vincere la spinta delle acque e attraccare in modo sicuro.

La notte già incombeva.

- Ci siamo quasi. - Ubith si rivolse a Rhami. - Avverti il tuo compare che a breve ci muoveremo. Con il favore delle tenebre sarà più facile entrare a Nesazio. E rassicura i civili e i viandanti pellegrini. Appena torneremo con le informazioni che ci necessitano, caricate le provviste, salperemo verso la nostra nuova patria. -

Mura possenti di pietra arenaria, alte quasi dieci metri si innalzavano a proteggere Nesazio, avvolgendola in un abbraccio materno. Una modesta apertura sormontata da un arco, appena rischiarata da due coppie di torce sistemate a mezza altezza, ne interrompeva la geometria. Lo spesso portale in legno massiccio era spalancato. Apparentemente nessuno presidiava l'entrata.

- È incustodita! - Rhami si era girato verso il suo comandante scuotendo la testa; l'altro soldato chiudeva la fila del piccolo drappello.
- Se fossi un Kurgan, ora, non scoppieresti in una risata fragorosa? Le porte della città aperte, nessuno a guardia, torce pronte per appiccare l'incendio! -

Pur pronunciando quelle parole con amarezza e sarcasmo, Ubith iniziava a provare una sincera curiosità verso il popolo degli Histri, così indifferente al fato o forse così fiducioso negli dèi da apparire temerario. I commercianti e i viaggiatori che in passato da Nesazio giungevano a Shira, erano soliti raccontare storie confuse di ricchezze nascoste in palazzi inaccessibili e di usanze bizzarre, spesso inquietanti. Dèi sfuggenti si incaricavano di proteggere finanche ladri e truffatori e la negromanzia, nelle famiglie più nobili, era consuetudine tollerata, anzi in qualche modo incoraggiata.

Il comandante fece un cenno ai suoi compagni e in silenzio oltrepassarono la porta di accesso. Si ritrovarono in un ambiente buio. Procedettero con cautela ma dopo pochi passi Rhami si fermò d'improvviso lanciando un'imprecazione.

- Cosa succede? -
- Comandante... C'è un'altro muro. Ci sono appena finito contro. -

Ubith raggiunse il suo uomo. Tastò il muro davanti a sé iniziando a seguirne la superficie. Presero ad avanzare verso destra, seguendo una debole luce che filtrava da una modesta feritoia ubicata in alto. Procedettero così fino a che il muro si interruppe. Ubith imprecò.

- Sembra una specie di labirinto... -

- Proviamo dall'altra parte - aggiunse Rhami.

Camminando cautamente verso sinistra dopo qualche minuto giunsero a un nuovo varco che d'improvviso si apriva nel muro.

- Ci sarà da fidarsi? È molto stretto, non sono nemmeno sicuro di riuscire a passarci con la mia spada. -

- Allora sfoderala soldato e infilati nell'apertura. Tieniti pronto. -
Tuttavia, come prevedibile, il varco conduceva a un nuovo muro di pietra che bloccava il cammino.
Ubith sollevò lo sguardo verso l'alto; annuii.

- Probabilmente non è questo l'accesso giusto. Dev'essere poco più di un diversivo... Forse una trappola dove attirare soldati nemici. Ma non abbiamo il tempo di trovare l'entrata principale. Dovremo passare dall'alto. Vedi quella finestra lassù, Rhami? Prepara la corda, legaci a un capo l'uncino che porti al cinturone. La lancerò io. -

Al quarto tentativo il pesante uncino si era infilato nella fenditura permettendogli di poter issare i loro corpi verso la stretta finestra che interrompeva, cinque metri più in alto, la geometria del muro. Una volta raggiunta l'apertura, calarsi all'interno della città fu facile e privo di rischi. Nessuno li sorprese; un rumore di folla vociante giungeva attutito alle loro orecchie.

- Sembra che la città sia in festa! Persino le guardie che la presidiano devono essere ubriache. Forza uomini, sarà più facile per noi passare inosservati. E ancora più agevole sarà estorcere informazioni da chi si è riversato nelle taverne; dobbiamo conoscere dove si sono diretti i superstiti del santuario. Ammesso che i cittadini di Nesazio abbiano avuto notizie o ne serbino il ricordo. -

Man mano che procedevano attraverso le strette vie formate dalle ampie abitazioni a pianta circolare di quella città aliena e in qualche modo minacciosa, l'iniziale fiducia nella riuscita della loro missione lasciò lentamente spazio all'incertezza e al dubbio. Il popolo di Nesazio non li degnava di alcuna attenzione. Ricurvi nei loro mantelli di tessitura pregiata, nascosti da copricapi di bizzarra fattura, scivolavano al loro fianco indifferenti, cantando canzoni sconosciute in una lingua armoniosa e musicale. Sembravano a loro agio, avvezzi a festeggiare le loro ricorrenze e a lasciarsi trasportare dal clima di festa, sicuri che le mura che proteggevano la loro capitale li avrebbero protetti per sempre. I Kurgan non potevano essere più distanti con la loro rozza ferocia sanguinaria.

Procedendo verso il centro della città il panorama cambiò bruscamente. Le costruzioni ora avevano una solida base di pietra lavorata che sorreggeva dimore in legno alte un paio di piani finemente decorate, ognuna differente, ognuna a modo suo unica. Qua e là si notavano segni di crolli passati, muri sfaldati e in parte ricostruiti con mattoni d'argilla; le strette passerelle che collegavano i vari edifici apparivano ostruite da detriti e rifiuti.

Odori di cibi molto speziati impregnavano l'aria; gli stretti vicoli, disposti in modo geometrico e ordinato si intersecavano formando una ragnatela di strade in leggera pendenza. Ogni tanto note di strumenti a fiato ed echi di percussioni fuggivano invitanti da edifici riccamente illuminati o da taverne ombrose.

Iniziarono a venire avvicinati da strani individui che sostenevano di essere mercanti o affaristi. Erano interessati forse a una resina curativa che prometteva di liberarli dai mali delle ossa e della testa? Conoscevano la radice magica della pianta di Moscole che permetteva di viaggiare nel respiro della Madre senza averne il potere? O forse preferivano i funghi dei sogni che nascono solo sulle pendici del monte Miro?

Un uomo basso, tarchiato, lasciò rifulgere per pochi attimi delle pietre nella sua mano che sostenne avessero il nome di Pietre di Luce. Appena vide la mano di Rhami infilarsi nella tunica a far balenare l'elsa della sua spada si dileguò in un vicolo buio.

Ma i nervi dei sopravvissuti di Shira erano sempre più tesi. Ubith affrettò il passo, spronando i suoi compagni a seguirlo. Proseguirono imboccando una stretta strada che sembrava procedere in linea retta. Ben presto confluì in un ampio slargo dove sorgeva un vecchio pozzo. Si fermarono a tirare un poco il fiato, approfittando della pausa per dissetarsi.
Mentre uno dei soldati armeggiava con un grande otre legato alla corda per immergerlo nell'acqua del pozzo, da un vicolo sbucò una torma di ragazzini laceri, dai piedi scalzi e dalle braccia luride. Circondarono gli uomini, tirando per il mantello Ubith, infilando le loro lerce mani nelle tuniche dei soldati.

- All'inferno! Mendicanti ragazzini... a quest'ora della notte! Ma che città è mai questa? -
- E che lingua parlano? Io non li capisco. -

Ubith si volse per rispondere al soldato.

- Io conosco in parte la lingua degli Histri. Ma costoro parlano come cantilenando... Ripetendo le stesse parole, con questo strano accento... chiedono delle monete, se ho ben compreso. -

Rhami sollevò i capelli incolti di uno dei ragazzini che con la mano tesa gli stava davanti, ma i suoi occhi erano semichiusi, quasi si stesse concentrando per recitare la sua cantilena; per un momento li riaprì e uno sguardo colmo di diffidenza e di odio balenò sul suo viso.

Una moneta chiedo, a te che giungi da fuori.
Due monete, affinché la strada tu ritrovi.
Tre monete e non muori!

Ubith si guardò intorno sempre più nervoso; scostò brusco uno dei ragazzini che lo tirava per la tunica e si mise spalle al pozzo; poi si rivolse agli altri.

- La taverna in fondo... passeremo la notte lì. Prima che succeda qualcosa di brutto. -

Con la coda degli occhi vide un movimento sospetto; nelle mani di uno dei piccoli mendicanti era apparso qualcosa di strano. Si girò veloce verso di lui mentre questi stava armeggiando sotto la sua tunica. Veloce protese la mano per bloccargli il braccio e lo torse. Il coltello di rame che stava per recidere la corda del sacco che Ubith portava sulla spalla piombò a terra con un suono sinistro. Il ragazzino lanciò un grido rabbioso.
Sputò verso di lui, lo maledisse.

I soldati si disposero a semicerchio a proteggersi a vicenda, muovendosi allo stesso modo verso la locanda.

Uno dei ragazzini raccolse dal terreno una selce e la lanciò verso il gruppetto. Presto fu imitato dagli altri. Una pioggia di sassi iniziò a cadere nei pressi degli uomini che rapidamente stavano dirigendosi verso le torce che illuminavano la locanda. Prima di entrare per ultimo, coprendo i suoi compagni, Ubith fece in tempo a osservare l'insegna. Soprastante la figura stilizzata di un animale con le fauci rivolte al cielo compariva la scritta in caratteri dorati: Il canto della lupa.

Un paio di selci si infransero inutilmente sulla porta che si richiudeva alle loro spalle.

- L'accoglienza non è stata delle più calorose, anche se, per come si erano messe le cose, sarebbe potuta andare molto peggio. -

- Se è come dici te, Rhami, per quale motivo nessuno ancora ci ha rivolto la parola? Siamo seduti da tempo a questa panca e non fanno che guardarci di sottecchi. -

Ubith si alzò in piedi, facendo oscillare la spada nascosta sotto la tunica che a ogni brusco movimento finiva per ostacolarlo. Si guardò intorno, nervoso.
Le luci fioche provenienti da piccoli candelabri in rame lavorato illuminavano debolmente solo la parte del bancone dove lavorava un vecchio uomo e una donna dall'età indefinita. Un lato del grande salone era completamente immerso nel buio. Si diresse al bancone e raggiuntolo rimase in piedi a fissare un vecchio intento a pulire un piccolo vaso di colore verde scuro. Poi battè una mano sul legno resinoso.

- Abbiamo bisogno di un posto dove passare la notte. Siamo stanchi. Di chi è questa locanda? -

Si aspettava che il vecchio alzasse almeno gli occhi; invece rimase ostentatamente a pulire il contenitore voltandogli le spalle. Fu la donna a rispondere.

- Siete i benvenuti, stranieri. Abbiamo una grande camera che dà sulla piazzetta con cinque o sei brande... C'è anche una stanza con un solo letto all'ultimo piano, che riserviamo alle persone importanti della nostra città: sarà tua se la vorrai, soldato. O dovrei chiamarti comandante? -

Ubith si volse a guardarla, interdetto. I lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle esili dando risalto al suo viso delicato, alle sopracciglia rasate e ai suoi occhi di un azzurro chiaro, cristallino, circondati da tatuaggi e segni arcani.

- E' così evidente? Siamo così riconoscibili? -

- Ahimè, sì! - lo canzonò sorridendo, - ma, guerriero della Dea, considera che ho occhio per le persone. Sono più di dieci anni che faccio questo lavoro e devo saper riconoscere la gente al primo sguardo. Avrai notato che la città è tumultuosa, c'è gente di ogni tipo. Le risse, al canto della lupa, non le vogliamo. Ma forse il popolo di Shira è troppo stanco e sfiduciato perché ci possa creare problemi, non è vero? Volete solo riposare... Ma, dimmi: prima del sonno ristoratore non desiderate forse assaporare la nostra birra speciale? Abbiamo mezzo cinghiale arrostito in cucina. E tra poco ci sarà un'esibizione dei nostri artisti, musiche, balli e magie; c'è tempo, per dormire. -

- Un'esibizione? Uno spettacolo? Come ho detto siamo stanchi e... -

- Rilassati uomo ombroso, anche se i soldati non sono ben accetti a Nesazio, qui nessuno vi denuncerà; almeno finché avrete monete d'argento per pagare il conto! -

La sua risata, dolce come un frutto maturo, si confuse con un suono ritmato di piccoli tamburi ovoidali che annunciavano l'inizio dell'esibizione: la parte che era immersa nel buio si accese di una luce verdastra proveniente da due grandi torce trattate con qualche strana resina e posizionate ai lati dello spazio.

Al suono ipnotico dei tamburi si sovrappose una melodia sospesa, ora solenne, ora vagamente malinconica, che evocava spazi immensi, foreste senza fine. Dalla penombra che ancora indugiava nella zona centrale sbucarono due ragazze vestite con lunghi mantelli chiari, i corpi nudi disegnati da splendidi tatuaggi con spirali concentriche.

La musica crebbe, divenne solenne e due uomini a petto nudo si materializzarono a fianco delle ragazze; iniziarono a danzare con loro, a piccoli passi coordinati, sfiorandosi. I mantelli sembravano fluttuare a tempo di musica, seguendo i movimenti ondeggianti delle ragazze, mentre gli uomini, ora separati da loro, azzardavano contatti fugaci, accarezzandosi, mentre danzavano insieme. Quindi l'armonia si ruppe e i movimenti si fecero confusi, in parte oscurati da un vapore profumato apparentemente sorto dal nulla, che sembrò inglobare la luce verde emanata dalle torce.

La musica divenne ipnotica.

Ubith tornò al tavolo, osservando gli altri avventori della taverna battere le mani, oscillare il capo a tempo di musica, guardare voluttuosi le donne e gli uomini che si muovevano nella luce verdastra. Enormi otri di birra erano già stati serviti e i suoi compagni apparivano ipnotizzati dallo spettacolo.

Si accorse che dal palco improvvisato erano comparse due grosse linci ammaestrate al guinzaglio delle ragazze, dallo splendido pelo grigio maculato. Iniziava a sentirsi stordito.
Osservò le scale che conducevano al piano superiore e prese una decisione. Tornò al bancone e fece un cenno alla donna che gli sorrise, consegnandogli senza esitare la pesante chiave bronzea della sua stanza.

L'ultima cosa che vide mentre, con in mano ancora la sua birra saliva le scale, fu una coppia di lepri dal pelo colorato di rosso che gli uomini si accingevano a liberare davanti alle linci accucciate ai piedi delle ragazze.

Alessio Moa
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