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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Valentina Bellucci
Titolo: La collezionista di sogni
Genere Young Adult
Lettori 4011 67 69
La collezionista di sogni
Tristan.

Suona la sveglia. La spengo. Passano cinque minuti e suona di nuovo.
Devo andare a scuola ma non ne ho voglia, mi tiro le lenzuola fin sopra la testa e la lascio suonare, ma dopo un po' mi infastidisce e allora allungo il braccio fuori dal letto per spegnerla, poi mi giro dall'altra parte con la faccia rivolta verso il muro.
Adesso c'è silenzio. Un silenzio che mi pesa. Che mi pesa da tre anni. Quel genere di silenzio che quando lo ascolti diventa assordante e vorresti soltanto che sparisse dalla tua testa e ti accorgi che urlare è l'unico modo. Ma non lo faccio, non urlo, me ne resto zitto, per paura che mia madre mi senta. L'ultima volta che è successo e lei mi ha sentito le sedute con la psicologa sono aumentate.
Chiudo gli occhi, il vuoto, poi il nulla. Stringo le lenzuola tra i pugni come aspettandomi che cambi qualcosa o che il dolore mi uccida, ma non succede niente. Mi sembra di riviverlo ancora, come se non fossero passati tre anni, come se il tempo si fosse fermato a quell'attimo, ma quando riapro gli occhi davanti a me vedo il solito muro bianco.
Alla fine decido che devo alzarmi se non voglio fare tardi alle lezioni.
Raggiungo la porta del bagno trascinando i piedi, la apro ed entro dentro. Nello specchio il mio riflesso ha la faccia di un ragazzo di sedici anni, ma quando osservo gli occhi spenti, le occhiaie e le rughe d'espressione sulla fronte mi convinco che anche l'età stessa è soggettiva.
Mi passo una mano tra i capelli folti e lisci e penso che tutto sommato sia un disastro completo.
Quando finirà? Mi chiedo. Quando?
Penso che una fine non ci sia, penso che quando vivi la morte quella ti resti dentro per sempre. Penso che possano trascorrere tutti i giorni del mondo e comunque sia tu resti lì, accanto a quel ricordo, perché senza di esso senti che non potresti vivere e ci resti aggrappato per non lasciartelo sfuggire come se fosse un'ancora di salvezza ma invece, senza saperlo, è proprio a causa di quello che smetti di essere vivo.
Ma anche se lo sapessi la cosa non mi sfiorerebbe minimamente. Non m'importa. Ogni giorno è uguale all'altro, niente posso aspettarmi che accada, tutto fila sempre allo stesso modo come se il mio orologio interiore avesse smesso di battere, come se la morte, dopo che è arrivata, avesse deciso di non andarsene più via.
La vedo bene, la morte. Negli sguardi della gente alla fermata dell'autobus, mentre salgo i gradini e guardo in faccia l'autista che ha l'espressione incazzata, mentre mi siedo a un posto vuoto e lascio che l'autobus mi porti a scuola, lì dove ci sono altri sguardi con la morte dentro. La vedo ovunque. Perché lei è sempre lì, presente, in ogni istante, anche se nessuno lo sa. C****, nessuno lo sa.
I miei genitori pensano che tutto sommato stia bene, riesco a fingere con loro come fingo anche con i professori e con la psicologa della scuola ovviamente, la stessa che mi hanno accollato tre anni fa, dopo quel giorno. Quella stessa psicologa che ha detto a mia madre “ne è rimasto scioccato”. Vorrei sapere cosa ne sa lei della parola scioccato. O della parola morte, anche se non sono strettamente connesse.
È già da un po' di tempo che non ci vado, ma sono quasi certo che non ne abbia ancora fatto parola con i miei. Tanto per cominciare l'ultima volta le ho fatto credere di stare veramente bene, le ho detto di non avere più incubi la notte e di non sentire più quella strana sensazione di vuoto, di non poter far parte del mondo; anche se ciò non è del tutto vero. Lo so ho mentito, ma l'ho fatto per un buon motivo e di conseguenza credo che mi lascerà in pace, almeno per un po'. Dall'altra parte, invece, potrebbe benissimo aver già avvertito i miei che però, per una strana coincidenza o semplicemente per volontà divina, hanno deciso di smettere di intromettersi nella mia vita, un'ipotesi che però non ritengo affatto plausibile.
Un'altra cosa che mi fa perdere la testa all'inverosimile è la smania di molte persone di volermi aiutare, come se dipendesse da loro l'evolversi degli eventi e come se, cercando di allungare la loro mano, potessero in qualche modo arrestare la valanga. Ma il punto che non capiscono è proprio lì: nel fatto che non possono e non potranno mai farci niente. Vuoi aiutarmi? Mi dispiace deluderti, ma non puoi.
Quando ormai hai lanciato la palla, non puoi più tornare indietro e l'unica cosa che ti resta da fare è restartene buono a guardare dove andrà a colpire. Il mio problema però è che non ho ancora lanciato nessuna palla. Semplicemente: non mi interessa lanciarla.
Per me i giorni vanno avanti così, senza un senso e senza uno scopo, tutti uguali. Mi accorgo che sono vivo perché respiro. Vado avanti a ripetermi che sono un disastro completo, mi dico che devo fare molto di più, che i miei genitori non si meritano tutto questo, dopo la sofferenza che gli ho già causato non è giusto continuare a infliggergliene, eppure non riesco a comportarmi diversamente. A volte è tutto così confuso che nemmeno so di esserci, nemmeno so di vivere.
Se l'esistenza di una persona dipendesse dal grado di felicità che ha... be', allora potrei ritenermi morto e sepolto da un pezzo. L'ironia della battuta mi scatena un vuoto improvviso, ma fingo di non sentirlo.
L'autobus si ferma all'entrata della scuola accostando sul viale coronato di alberi. Il cancello nero in ferro battuto è spalancato, questa scuola sembra una prigione.
Non si direbbe che Londra sia una prigione, finché non ci vivi dentro e te ne accorgi.
Scendo da quest'autobus, dove l'autista ha la faccia ancora incazzata: chissà cosa avrebbe preferito fare questa mattina invece di scarrozzare studenti su e giù per le strade.
Nel piazzale della scuola ci sono decine e decine di ragazzi e ragazze sotto un cielo grigio, tutti con lo zaino sulle spalle e cappotti ben abbottonati, con sciarpe accollate e cappelli di lana, che aspettano solo il suono della campanella per entrare nelle aule. Alcuni ridono, altri si danno pacche sulle spalle, mentre alcune ragazze si sussurrano all'orecchio.
Passo tra di loro, senza degnarli nemmeno di uno sguardo e nemmeno loro si curano di guardarmi. Da lontano vedo Ryan Gill, il mio migliore amico. Il mio ex migliore amico. Mi guarda anche lui e sembra che voglia salutarmi ma non gliene lascio il tempo, svolto l'angolo e mi ritrovo sulla gradinata dell'ingresso principale. Non voglio parlare con nessuno. Nemmeno con Ryan. Salgo quei cinque scalini che mi separano dalla porta aperta ed entro nell'edificio in mattoni rossi.
Ryan alle mie spalle scuote la testa e fa spallucce, mentre riprende a parlare con i suoi nuovi amici. Sembra rattristato, ma poi uno di loro dice qualcosa e lui si mette a ridere. Non penso che ridano di me, non faccio ridere proprio nessuno.
Mi giro per non vederlo più e cerco di ricordarmi in quale aula dovrei dirigermi stavolta. È giovedì mattina e ho lezione di scienze alla prima ora. Ho sempre pensato che non sarebbe stato facile evitare gli sguardi degli altri e invece devo ricredermi perché da tre anni a questa parte ci riesco benissimo.
So perfettamente dove si trova l'aula di scienze, ma non intendo arrivarci subito, prima del suono dell'ultima campanella: se arrivo troppo in orario rischio di incontrare qualcuno in aula ed essere costretto a scambiarci due parole. Non mi va di parlare, non lo faccio da un bel po' e non credo di esserne più capace.
Svolto l'angolo sovrappensiero e una ragazza mi viene improvvisamente addosso. Sbatte contro di me e sussulta, fa un balzo all'indietro per la sorpresa.
- Scusami - , dice. Poi alza lo sguardo e mi sorride imbarazzata. La conosco: è Mary Lou Finger, andavamo all'asilo insieme ma non ci siamo mai frequentati.
Mentre lei continua a guardarmi a un tratto sento come un tuffo al cuore e trattengo il respiro, mentre mi lascio trafiggere dai suoi occhi e mentre mi immergo in quelle profondità senza nome. Non riesco a smettere di guardare il suo sorriso e in quel momento è come se tutto fosse perfetto: la paura, il buio, la morte spariscono, cancellati dalla luminosità del suo sorriso, quel sorriso rivolto solo a me. Quello sguardo che guarda solo me.
A un tratto il silenzio si rompe: la campana di vetro all'interno della quale mi trovavo da troppo tempo si infrange e il rumore degli studenti che gridano nei corridoi mi riempie le orecchie.
Resto frastornato da così tanti suoni tutti all'improvviso. La guardo e mi sento girare il mondo attorno.
Lei sta ancora sorridendo, mentre gli altri ci passano accanto ed io resto imbambolato a guardarla, incapace di dire qualsiasi cosa e certo che se aprissi bocca in questo istante direi sicuramente una stupidaggine.
Poi lei muove leggermente la punta di un piede e solo adesso mi accorgo che le sto bloccando il passaggio. Non vorrei che se ne andasse, ma mi sposto per farla passare.
- Grazie... - , mormora guardandomi da sotto la frangia. Ancora non riesco a dire niente e lei si sta già allontanando, devo fermarla, anche se non so perché. Quando all'improvviso sento domandare dalle mie labbra:
- Esci con me oggi pomeriggio? -
Lei si volta. Sono attimi in cui io potrei morire di nuovo. È strano: mi rendo conto che tutto dipende dalla sua risposta. Sgrana gli occhi castani e fa un debole sorriso. - Sì - , dice semplicemente, poi si allontana e viene risucchiata dalla massa di studenti in movimento.
Alcuni mi urtano alla spalla, altri passano senza nemmeno vedermi, ma all'improvviso io li vedo tutti. All'improvviso li sento tutti.

Mary Lou

Un giorno ti svegli e scopri di essere una scrittrice.
Ok, no, non è del tutto vero: diciamo che mi sono svegliata e ho immaginato di esserlo. L'ho immaginato subito dopo un sogno che ho fatto.
Sì, lo so: non è da tutte le adolescenti di sedici anni fare un sogno così, no?
La mia vita oscilla tra un insuccesso e un altro. A volte mi sento ridicola, ogni giorno sono depressa, spesso ho la mania dell'ordine e del pulito, ma il 99% delle volte nella mia camera sembra si sia svolta la guerra dei due mondi: quella tra calzini e magliette, per di più ho istinti suicidi almeno una volta a settimana: non male, eh?
Credo di avere seri problemi di adattamento e non sono niente se considero la mia innata predisposizione agli studi, insomma: non si è mai vista una sedicenne amante della letteratura!
Ho i capelli color paglia bagnata e in fondo hanno anche la stessa consistenza. Occhi castani chiari e labbra e mento piccoli. A volte vorrei non andare a scuola, ma non ho mai saltato una lezione, neanche con la febbre. Mi piacerebbe andare al cinema un po' più spesso di quanto vada adesso e adoro disegnare, ogni tanto. Ah, sì: odio il ketchup... e le caramelle alla menta: hanno lo stesso sapore del dentifricio.
Ma in quel sogno non sembravo nemmeno più io. Cioè: ero io, ma era come se non lo fossi. Voglio dire: non che dipendesse da me o che all'improvviso mi piacessero le caramelle alla menta, certo che no; ma ero più grande, più consapevole. Ero semplicemente... diversa.
In quel sogno ero una scrittrice e stavo facendo il mio primo discorso in pubblico per il mio romanzo d'esordio. Cosa veramente assurda se si considera il fatto che sono estremamente allergica alle persone, sono troppo timida perché riesca a spiccicare anche solo una parola in aula, figuriamoci esprimere un discorso di fronte a una platea intera!
Eppure in quel sogno non mancava proprio niente: c'erano gli spettatori (tantissimi!), la mia amica Megan, mia madre, il tavolo di presentazione con le copie del romanzo e i segnalibri, il computer per trasmettere le diapositive; avevo anche in mano un microfono.
Mi tenevo sul bordo del palco (oddio: c'era pure il palco!) e avevo indosso un lungo cardigan beige sopra un paio di jeans stretti e a vita alta. Ai piedi indossavo scarponcini marroni.
Mi voltavo spesso in direzione di mia madre cercandola con gli occhi, come a chiedere un po' di incoraggiamento e allora lei sorrideva e mi salutava con la mano dal fondo della sala: era sola, senza uno dei suoi soliti accompagnatori del bar.
Inutile dirlo: quella sera dovevo aver bevuto parecchio per riuscire a fare un sogno del genere. Eppure l'idea di scrivere un romanzo ha continuato a baluginarmi in testa per tutta la settimana, tanto che quando Tristan Colin mi ha chiesto di uscire insieme questo pomeriggio ho detto di sì.
- Che COOOSA? - . Megan quasi grida quando le racconto tutto. - Ma non puoi! - , sbotta.
- Oh, certo che posso: gli ho appena detto di sì - , le faccio notare passandomi la limetta su un'unghia per limarla. Ripenso alla faccia che ha fatto Tristan Colin quando gli ho detto di sì: sembrava sorpreso, come se non se lo aspettasse, ma negli occhi aveva quella punta di desiderio di chi attende un simile momento da anni.
- Ma Tristan Colin è il ragazzo più sfigato della scuola! Sant'iddio, come hai fatto a dirgli di sì? Ancora non riesco a capire dove abbia trovato il coraggio per chiederti di uscire - , Megan mi guarda con un misto di compassione e disagio, poi dice: - Si può sapere a cosa stavi pensando quando hai accettato? -
La guardo per un po', soffermandomi sui suoi ricci rosso scuro e sulla camicetta azzurra che indossa. - A un sogno che ho fatto - , rispondo lasciando cadere la limetta sul banco.
- E sarebbe? -
Non so bene se dirglielo o meno e resto a fissarmi le unghie come se fossero la cosa più importante del mondo, poi decido che in fondo non c'è niente di male.
- Be'... ho sognato di essere una scrittrice - , la guardo aspettandomi chissà cosa.
- Una scrittrice? - , mi osserva come se avessi detto “Ho sognato di essere un extraterrestre su Marte” e la cosa mi dà un pochino sui nervi.
- Sì, ma... be', era solo un sogno, ok? - , mi giustifico facendo spallucce e mettendo su un finto broncio.
- Be', meno male - , ride facendo scrollare tutti i suoi riccioli. - Non ti vedrei affatto nei panni di una scrittrice! - .
Il suo commento mi ferisce un po', ma cerco di non dargli peso e allungo una mano per prendere il libro di storia.
Non avrebbe senso prendersela a male per un commento così, anche se detto da un'amica.
- Dovrai raccontarmi tutto della tua uscita con Tristan - , decide Megan all'improvviso con aria saputella mettendomi una mano su una spalla. - Voglio sapere proprio tutto, fin nei minimi particolari - .
La guardo da sotto la frangia e apro il libro, cerco il capitolo al quale eravamo rimasti la volta prima e inizio a leggere senza risponderle.
Scorro gli occhi sulla pagina e sugli articoli dell'antica Grecia e cerco di concentrarmi sul Partenone, ma mi ritorna in mente la proposta di Tristan Colin. Perché mi ha chiesto di uscire con lui, così all'improvviso, senza un motivo vero e proprio? Se non gli fossi praticamente finita addosso, mi avrebbe invitata lo stesso?
Non ci siamo mai frequentati, raramente ci salutiamo, non vedo perché debba uscire con lui. Con tutti i guai in cui potrei cacciarmi questo è decisamente il peggiore di tutti.
Decido che al termine della lezione andrò a cercarlo per spiegargli che è stato tutto un malinteso e che non volevo affatto dirgli di Sì e che mi sono sbagliata. Sì, farò esattamente in questo modo.
Mi volto verso Megan, ma senza avere davvero intenzione di raccontarle il mio piano; lei mi sorride e finisce di aggiustarsi l'eye-liner sugli occhi.
Il professore entra in classe e la lezione finalmente comincia, anche se io ho i pensieri da tutta un'altra parte. Non riesco a prestargli attenzione neanche quando annuncia il compito in classe per la prossima volta, così che Megan deve ripetermi tutto.
Mi piace la scuola, è uno dei momenti in cui me ne sto lontana da casa senza pensare ai miei problemi, dedicandomi allo studio, immergendomi interamente nella letteratura, nella chimica e nella scienza. Ma adesso, per colpa di Tristan Colin, neanche più lo studio sembra riuscire a distrarmi.
Nell'ora successiva abbiamo biologia. Riordino le mie cose e raggiungiamo i nostri armadietti per cambiare i libri di testo e prendere i camici da laboratorio. Se voglio liquidare Tristan devo farlo entro questa stessa mattina, altrimenti non troverò un'altra occasione prima di questo pomeriggio.
Prendo un elastico e lego i capelli in una coda di cavallo, poi con Megan scendiamo all'aperto nel cortile interno all'istituto, attraversiamo tutto il piazzale, mentre fuori ci sono ragazzi e ragazze che fumano e si sente distintamente l'odore di canna.
Camminiamo fino a raggiungere il tunnel ed entriamo nella serra. Megan cammina davanti a me e vedo che sta facendo tutto il possibile per farsi notare da Mark Tuner, ancheggiando e indirizzandogli sorrisi maliziosi. Lui e Jake Sullivan, il mio ex ragazzo, sono già ai loro posti e Jake sta leggendo qualcosa sul libro aperto. Sono certa che anche stavolta si sarà dimenticato di studiare e come al solito tenterà di recuperare tutto all'ultimo minuto.
Oltrepassiamo le piante officinali e raggiungiamo i banchi disposti a ferro di cavallo per prepararci alla lezione.
Mentalmente sto preparandomi un discorsetto per Tristan da poter usare senza ferirlo troppo e senza sembrare scortese, qualcosa tipo: “Ciao Tristan, mi spiace aver frainteso il tuo invito. Ci vediamo come sempre a scuola!”.
Potrei anche scriverglielo per messaggio, ma non ho il suo numero di cellulare e non sono neanche intenzionata a chiederlo a qualcuno.
Sto per sedermi al mio posto quando nella serra entra Tristan Colin e per poco non mi lascio sfuggire un'esclamazione di sorpresa.
- Ehi, ma si può sapere che hai? - , mi chiede Megan.
Avevo completamente dimenticato che Tristan ha lezione di biologia con noi. La guardo di sfuggita e scuoto la mano: - Niente - , dico, ma si vede che fingo e intanto sento crescere la tensione. Devo parlargli, mi dico, devo farlo.
Mi siedo al mio posto, mentre Megan sorride a Mark e gli fa un cenno di saluto con la mano. Jake che è accanto a lui sta guardando da tutta un'altra parte, seguo incuriosita il suo sguardo e mi ritrovo a fissare Tristan che mi osserva. Avvampo e abbasso velocemente gli occhi, poi mi volto verso la mia amica. - La vuoi smettere di fare la bambina? - , dico a denti stretti.
- Oh... pensa al tuo Jake, o meglio: a Tristan. O anche a tutti e due se preferisci - , borbotta. - Io penso a Mark - , continua a sorridergli.
Scuoto la testa rendendomi conto che la mia amica Megan McCollins ormai è senza speranza e mi volto a prendere il libro di testo iniziando a sfogliarlo. Tiro fuori anche il mio blocco per appunti e alcune matite colorate che uso per evidenziare in modo diverso i nomi delle piante e dei parassiti che le colpiscono.
Penso a quante volte ho rinunciato a cogliere un fiore per la mia collezione proprio perché affetto da una di queste malattie. Riconoscerle è importante anche per l'essiccazione della pianta stessa. Vari tipi di parassiti possono causare muffe e funghi sulle foglie e il conseguente deperimento del fiore e dei petali facendogli perdere qualsiasi traccia del colore originario.
Stiamo studiando la parte dei parassiti e Megan mi passa un vaso di Valeriana colpito da Botrytis cinerea, ma mentre mi sporgo per prenderlo faccio cadere per sbaglio il libro di testo che trascina con sé anche penne e fogli per appunti.
Trattengo il respiro come se così facendo riuscissi a fermarne la caduta. Ma quando il libro tocca il suolo, il rumore è assordante nel silenzio assoluto della serra. Il professore mi lancia un'occhiataccia, ma per mia fortuna decide di lasciar correre e non dire niente, mentre divento tutta rossa in viso e borbotto uno: - Scusate... - .
Non ho il coraggio di voltarmi e guardare indietro, in questo momento vorrei soltanto sprofondare e ho la netta sensazione che Tristan mi stia fissando già da un po'.
Raccolgo il quaderno e le penne e rimetto tutto sul banco in maniera caotica. Cerco di riordinare i fogli sparsi e infilo tutto nel blocco degli appunti. Sistemerò tutto a casa, decido.
Mi volto per guardare finalmente il vaso di Valeriana. La Botrytis cinerea non è ancora riuscita a causare danni irreparabili alle foglie. Il nostro compito è quindi quello di trovare un rimedio naturale per la pianta, nel caso non riuscissimo, passeremo ai rimedi chimici.
La Botrytis cinerea o muffa grigia è un fungo parassita aerobico, cioè che si sviluppa in presenza di ossigeno, e polifago e ciò significa che può attaccare diverse specie di piante; attaccando principalmente i frutti, ma a volte anche germogli e foglie.
Apro di nuovo il libro di testo e cerco nell'indice il capitolo dedicato ai preparati naturali, quando Megan mi dà una leggera gomitata su un fianco.
- Ehi, Mary Lou... - , sussurra Megan.
- Mh...? - , faccio io distratta, sottolineando delle frasi sul testo.
- Tristan non ti ha tolto gli occhi di dosso nemmeno per un secondo - .
Il mio cuore salta un battito e smetto di sottolineare.
- Ma che dici... - , mi fingo disinvolta, ma in realtà sono nervosa. Riprendo a sfogliare il libro senza alzare gli occhi dalle pagine, fingendo che la cosa non mi turbi minimamente e continuando a sottolineare quello che penso che sia importante.
- Ho notato come ti guarda, sai? - , continua Megan.
- Ah... e come mi guarderebbe? - , stringo più forte la matita nella mano. Ho lo sguardo fisso sul libro e non intendo alzare gli occhi dalle pagine. Non posso lasciarmi influenzare da certe cose; dopotutto ho deciso di evitare l'appuntamento in un modo o nell'altro. Abbandono la matita gialla e ne prendo una rosa.
- Non lo so - , borbotta Megan. - Non so esprimerlo a parole, ma è piuttosto inquietante - .
Valentina Bellucci
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