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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Elena Magnani
Titolo: Luminescence
Genere Urban Fantasy
Lettori 3580 37 59
Luminescence
Genesi 6:1

“Quando Dio abbassò lo sguardo si accorse che sulla Terra c'erano i figli delle divinità, che avevano sposato le figlie dell'uomo.”

Quella notte ero di nuovo in pericolo, di nuovo in fuga. Il mio inseguitore non era un nemico, o almeno era quello in cui avevo creduto fino a quel momento.
Mentre correvo tra gli alberi, provavo in tutti i modi di tenere alzato il muro. Cercavo di farmi scivolare addosso le sue ultime parole, perché ero certa che sarebbe stata solo una questione di tempo.
Percepivo le forze venirmi meno. Avevo le gambe pesanti e i polmoni mi bruciavano per lo sforzo, ma non mi sarei arresa. Se mi avesse catturata sarei morta, nel migliore dei casi.
Un rumore, più alto degli assordanti battiti del mio cuore, mi distrasse. Senza smettere di correre, mi voltai indietro, terrorizzata. Quando guardai nuovamente avanti era troppo tardi per fermarmi.
Il dirupo mi inghiottì e la paura fu tutt'uno con l'inaspettata stretta delle sue braccia che fermarono la mia caduta. Mi divincolai immediatamente dalla sua presa, consapevole di non avere più scampo, e quello che più mi irritava era che lo sapesse anche lui. Distolsi lo sguardo dal suo volto ormai indecifrabile e mi schiacciai contro la parete di roccia fredda e spigolosa, rimanendo in attesa.
Improvvisamente, tutti i suoni del bosco si affievolirono, diventando un fastidioso ronzio di sottofondo. Si avvicinò lentamente, sovrastandomi con il suo corpo. I suoi occhi, di un limpido azzurro, mutarono in un bianco opaco e lattiginoso. Segno che quella era la fine...
Cinque mesi prima

In ricordo di lei

Il ritrovo era poco dopo Ponteccio, nello spiazzo sotto la strada per Monte Tondo. I primi ad arrivare erano stati Giorgia e Leo, gli eterni fidanzati, poi ero arrivata io.
Scendendo dall'auto mi chiesi, per l'ennesima volta, che ci facevo lì. Quando Mario mi aveva invitata a quel trekking la mia prima risposta era stata un insindacabile no. Qualche giorno dopo, mi ero ritrovata davanti ad una vetrina a fissare le ultime novità per un felice campeggio. Presa da una smania irrefrenabile e diabolica, ero entrata nel negozio e avevo comprato tutto quello che il commesso mi aveva consigliato. E ciò significava molto più del necessario e molto più costoso rispetto a quello che avrei scelto di testa mia.
Il giorno successivo ero tornata al negozio per restituire la merce, ma sulla saracinesca abbassata avevo trovato il cartello con la scritta chiuso per ferie. Così mi ero ritrovata lì, sotto il monte “glabro”, come lo aveva definito una volta Giorgia, con il desiderio pulsante di non esserci mai andata.
Persi tempo facendo finta di sistemare qualcosa nel bagagliaio, non mi era sfuggito il loro sguardo sorpreso quando mi avevano vista arrivare.
Avevo diritto quanto loro di partecipare a quel trekking e, in fondo, il peggio che potesse capitare era che mi chiedessero di andarmene. L'avrei sopportato, sarei sopravvissuta, ormai era da quattro anni che non eravamo più amici.
Mi feci coraggio, chiusi il bagagliaio e mi diressi verso di loro. Il sorriso di Giorgia mi fece avanzare con passo più deciso. Notai che era dimagrita e aveva cambiato pettinatura. Portava i capelli castani, ricci, in un taglio scalato che le ammorbidiva i tratti spigolosi del viso. Leo non era cambiato molto, alto, con un fisico da nuotatore e la solita scintilla da schizofrenico nello sguardo, ma avvicinandomi notai che i capelli biondicci si erano un po' diradati sulle tempie.
- Anche tu? - Constatò Giorgia, lanciando un'occhiata a Leo.
- Già - risposi in imbarazzo.
La sua domanda poteva solo significare che non erano a conoscenza della mia presenza. Mi chiesi perché Mario non glielo avesse detto.
Fortunatamente, dopo una manciata di minuti arrivarono gli altri: Federica, Mario e Claudio.
Terminati i saluti, imbarazzati i miei e frettolosi i loro, ci furono le solite discussioni su dove lasciare le auto e se fosse più opportuno portare le tende o solo i sacchi a pelo; le ultime notizie sulle previsioni del tempo e un rendiconto dettagliato delle varie risorse alimentari di cui gli zaini, soprattutto di Leo e di Claudio, erano stracolmi.
Stava andando meglio di quanto immaginassi, non mi avevano né insultata né scacciata. Erano stati freddamente gentili, ma non mi potevo certo aspettare qualcosa di diverso.
Federica, dopo avermi scrutata a lungo con i suoi occhioni blu nascosti dietro gli occhiali da sole all'ultima moda, iniziò a lisciarsi spasmodicamente la coda di capelli ossigenati. Aveva fatto di tutto per tentare di liberarsi da quella mania, dall'agopuntura alle sedute da un medium terapeuta che in seguito era finito in galera per truffa. Quel vizio di accarezzarsi i capelli era sempre lì, in agguato, e tornava fuori nei momenti di stress.
Ogni tanto cercavo di intercettare lo sguardo di Mario, ma era troppo intento a contraddire ogni decisione presa dagli altri per potermi notare. C'era sempre il vuoto intorno a lui, gesticolava molto e tutti cercavamo di non farci colpire dalle sue lunghe braccia. Era sempre stato un ragazzino dinoccolato, dai colori tipicamente mediterranei, e crescendo non era cambiato. I suoi venticinque anni lo rendevano il più vecchio di tutti noi, motivazione che ostentava sempre per tentare di dettare le regole, atteggiamento che innescava varie e violente ribellioni. Grazie o per colpa sua, ancora non lo avevo deciso, ero andata a quel trekking. Mi aveva convinta che fosse il modo migliore per porre fine ad una situazione penosa per tutti e provare a tornare ad essere il gruppo di amici che eravamo sempre stati.
La discussione si protrasse più del necessario e i toni si stavano facendo davvero troppo accesi. Mi chiesi se tutto quel nervosismo fosse dovuto alla mia presenza.
Claudio incrociò il mio sguardo e mi sorrise con i suoi occhi dorati. Era sempre affascinante come lo ricordavo, portava i capelli mossi raccolti in una coda, abbronzato, alto e dal fisico atletico. Avevamo entrambi ventidue anni ma a differenza di me, che sembravo ancora una ragazzina, lui era un uomo fatto. Uno di quei ragazzi da manifesti pubblicitari che ti volti a guardare e a riguardare per strada.
Mimò la sua intenzione di dare uno scappellotto a Mario, trattenni una risata e per un attimo dimenticai perché eravamo lì.
Il sole iniziava a scaldarci, segno che dovevamo muoverci. Mi morsi un labbro, indecisa se intromettermi nella loro discussione o no.
- Dovremmo fare tutto come allora... - proposi alla fine, sovrastando le loro voci.
Il silenzio che ne scaturì mi paralizzò. Ecco, pensai, ora mi chiederanno di andarmene.
- Che intendi dire? - Domandò Leo con una mal celata vena di rancore.
Inghiottii cercando di apparire sicura del fatto mio.
- Che se vogliamo veramente commemorarla, dobbiamo rifare tutto come quell'estate - gli spiegai ignorando il suo tono.
- Ha ragione, dovremmo lasciare qui le auto e le tende - mi appoggiò Mario, lanciando un'incomprensibile occhiata a Claudio.
Lo fissai sbalordita, era la prima volta che mi dava ragione e intuii che dietro ci fosse molto più di quanto potessi immaginare. Una strana sensazione mi pizzicò la nuca. Mario era sempre stato il mio bastian contrario personale. Se io dicevo bianco lui ribatteva nero, se cambiavo idea e lo appoggiavo, inspiegabilmente la cambiava anche lui e mi dava contro. Ripensai ai toni della sua telefonata, era stato comprensivo quanto bastava per farmi accarezzare la possibilità di unirmi a loro quel giorno. Se uno qualsiasi degli altri mi avesse invitata non l'avrei neppure preso in considerazione. Mario era l'osso più duro, quello su cui era facile spezzarsi le corna. Se lui mi voleva a quel trekking, affrontare gli altri sarebbe stata una passeggiata e, in effetti, pareva che avessi avuto ragione perché tutti furono d'accordo con me.
Ci caricammo gli zaini sulle spalle e lentamente ci incamminammo lungo la strada sterrata che portava sulla vetta di Monte Tondo.
Faceva molto caldo, lo zaino pesante e la strada in salita mi fecero pentire immediatamente che unirmi a loro fosse stata una buona idea. Potevo essere a casa a martoriarmi l'anima con i sensi di colpa, trascorrendo la giornata nei ricordi, invece che essere sotto il sole cocente, carica come un mulo e con gli scarponcini nuovi fiammanti che sicuramente mi avrebbero provocato varie e dolorosissime vesciche.
Mi ritrovai a essere l'ultima della fila, in tanti anni era la prima volta che accadeva. Ero sempre stata davanti, a liberare i percorsi dai rovi e a decidere come meglio procedere nei passi più difficili.
Quasi a metà salita, Giorgia rallentò il passo e mi affiancò. Camminammo insieme in silenzio per un po'. La sbirciavo di sottecchi, aspettando il momento giusto per porle una domanda, una qualsiasi, giusto per rompere il silenzio e l'imbarazzo, ma non trovavo niente di appropriato da dire.
- Come stai? - Domandò per prima, senza guardarmi.
- Bene - risposi mentendo, seppur lieta che mi avesse parlato.
- Fai sempre terapia? - .
Domanda sbagliata, pensai.
- No - risposi secca.
- Dopo tutto questo tempo... non ne avrai più bisogno... - .
Mi voltai verso di lei, trattenendomi a stento dall'investirla con un'occhiataccia.
- Ho fatto solo due sedute, ben quattro anni fa, e mi stupisce che tu lo sappia... - il tono della mia voce non era per niente amichevole e se ne accorse.
- Mi hanno informata male - ammise, stringendosi nelle spalle e lanciando un'occhiata davanti a sé.
Seguii il suo sguardo e non capii se si stesse riferendo a Mario o a Claudio.
- Non ne avevo bisogno - puntualizzai acida.
- Certo - bisbigliò impercettibilmente.
Giorgia si sistemò gli spallacci dello zaino e intuii che volesse allungare il passo per raggiungere gli altri.
- E voi come state? - Chiesi velocemente, nel tentativo di fermarla.
Mi sorrise stupita, ma altrettanto contenta del mio interesse.
- Bene - affermò indicando Leo. - Cerchiamo casa, andremo a vivere insieme - .
- Fantastico. Questa è una bella notizia - tentai di mettere nella voce un po' di entusiasmo e di stamparmi in faccia un sorriso a trentadue denti.
Giorgia roteò gli occhi tondi. - Leo, sai come è fatto - si scusò per lui, bisbigliando per non farsi sentire dagli altri, - non devi pensare che ti odia. È che non ci aspettavamo che tu venissi... - .
- Non ti preoccupare - la interruppi per evitarmi discorsi pietosi su quanto fosse stata dura per loro. - Lo so, e poi chi vuole avere a che fare con una bugiarda? - .
- Tu non sei una bugiarda - affermò, quasi offesa che potessi pensarlo, - ognuno ha vissuto lo shock a modo suo. Comunque hai fatto bene a venire, magari servirà a riaggiustare le cose tra di noi... - .
Era davvero quello il motivo che mi aveva spinta a unirmi a loro? O inconsciamente speravo di persuaderli che non mi ero sbagliata, che non avevo mentito, che avevo visto veramente quel ragazzo?
Leo fece cenno a Giorgia di aumentare il passo e lei, dopo avermi lanciato uno sguardo di scuse, lo raggiunse subito.
Li osservavo arrancare faticosamente su per la salita. Nessuno di noi era più allenato come un tempo, mi sentivo le gambe molli, inerti, prive di muscolatura e ad ogni passo mi dicevo che dovevo tornare indietro, che non avrei risolto niente, che il dolore che provavo non si poteva soffocare, che loro non mi avrebbero dato il beneficio del dubbio. Però continuai a seguirli, fin quasi sulla cima del monte.
Ci sedemmo per un po' all'ombra degli ultimi alberi. Il sole era alto ormai e il cielo terso annunciava una calda giornata di fine agosto.
Federica offrì a tutti il suo solito pane, pomodoro, olio e sale. Niente sembrava così buono come un cibo qualunque mangiato lassù.
Giorgia frugò nella tasca dello zaino e ne tirò fuori un involto. Il cuore mi balzò in gola quando aprì la cartina rattoppata con il nastro adesivo. Era un pezzo storico, l'aveva comprata tanti anni prima ed era stata la nostra inseparabile amica di molti trekking. Spesso ci aveva salvato la vita. Ci era capitato più di una volta di imbatterci in percorsi non segnati e il suo aiuto ci aveva fatto ritornare a casa sani e salvi tutte le volte. Tutte tranne una.
Quattro anni prima le cose non erano andate bene, e neanche la nostra super cartina fortunata ci aveva saputi aiutare. Come ogni anno eravamo partiti in sette, ma solo sei di noi avevano fatto ritorno.
Era stato un incidente, o almeno così avevano appurato dopo tutti gli accertamenti del caso, ma io sapevo che non era andata in quel modo. Avevo detto la verità, avevo raccontato ciò che era successo, e nessuno mi aveva creduto, neppure i miei migliori amici.
Comunque ero ancora una volta lì con loro, a guardare il cielo limpido, di un azzurro da pittore, con la voglia di andare avanti e il desiderio di tornare indietro, ma con la radicata certezza che qualcosa di strano fosse capitato e che forse, continuando quel trekking, avrei trovato la risposta che cercavo.
Con la bocca ancora impastata di olio e pomodoro e con le gambe nuovamente riposate, ci arrampicammo fino alla cima del monte.
C'era vento ma non faceva freddo. I fili d'erba luccicanti si muovevano all'unisono, come pettinati da una mano invisibile.
Camminammo per alcune ore sul crinale dei monti, lungo stretti sentieri appena accennati.
Mi fermai ad osservare il paesaggio circostante. In lontananza si vedevano i tetti rossi di Dalli Sotto, i campi coltivati a grano e a farro. Si scorgevano altri paesi di cui confondevo sempre i nomi.
Presi il cellulare dalla tasca. Nessun segnale.
Lassù, tra l'erba alta e qualche piantina di erica, eravamo fuori dal mondo eppure così vicini, in linea d'aria, con la civiltà.
L'ansia mi attanagliò la gola. La vista dei prati, che si stendevano quasi verticalmente alla nostra sinistra, mi diede le vertigini.
- Stai bene? - Mi domandò Claudio tornando indietro.
- Sì, qui il cellulare non prende - risposi, mascherando la strana agitazione che sentivo.
- Ti ricordi quando eravamo ragazzini? - Mi chiese allargando la bocca in un sorriso fanciullesco. - Chiedevamo a un nostro genitore di portarci con la macchina all'inizio di un percorso e ci facevamo lasciare lì. Quante volte siamo tornati al paese in autostop... senza cellulare, senza un sentiero preciso da seguire. Nessuno sapeva per certo dove fossimo. Dei veri disgraziati. Se ci fosse successo qualcosa... - .
La tristezza mi pervase i sensi.
- Quando è successo eravamo più grandi e tutti muniti di cellulare, eppure non è servito a niente - precisai in un sussurro.
Claudio corrugò le labbra.
- Mi dispiace, non volevo... - .
- Lo so, eravamo degli incoscienti - .
Scosse la testa visibilmente deluso dalla piega che aveva preso la nostra conversazione.
- Le cose cambiano - .
- Sono cambiate - bisbigliai talmente piano che lui non mi sentì.
Riprendemmo il sentiero e raggiungemmo gli altri.
Osservai Claudio per un po', era stato carino a parlarmi così, ma forse io non ero ancora pronta per lasciarmi tutto alle spalle. Ogni parola, ogni sguardo, ogni immagine, anche la più insulsa, mi riportavano quel ricordo terribile.
Continuammo a seguire la piccola striscia sterrata per un'ora circa, poi ad un bivio scendemmo lungo il fianco della montagna, fino ad un gruppetto di alberi bassi sotto i quali decidemmo di pranzare e ripararci dalle ore più calde del giorno. Avevamo tutti il viso arrossato dal sole, nonostante la protezione solare e i cappellini sulla testa.
Anche quattro anni prima ci eravamo fermati lì. Avevamo pranzato in quella piccola radura e poi avevamo gonfiato un pallone da mare e giocato a pallavolo. Pochi minuti dopo, avevamo dovuto usare quasi tutti i cerotti del piccolo pronto soccorso per tappare i buchi e gli strappi che si erano formati.
E non restai per niente sorpresa quando Giorgia tirò fuori quel pallone dallo zaino. Aveva tolto i cerotti e aveva chiuso le fessure con dei bollini trasparenti per canotti. Gonfiò il pallone e dovette ricacciare a forza le lacrime per non piangere. Li guardai giocare come allora e, alla fine, accettai l'invito di Claudio a unirmi a loro.
Ridevamo come pazzi e ci stavamo divertendo sul serio. Mi sembrava impossibile, era come essere tornati indietro nel tempo e per un istante sentii che lei era con noi.
Ricordavo chiaramente il momento in cui l'avevo conosciuta. Era un ricordo recente, qualcosa che improvvisamente aveva fatto breccia nella mia memoria. Non dovevamo avere avuto più di cinque anni. Il suo viso era magrissimo, gli occhi nocciola dorato e i capelli raccolti in due treccine. Teneva le mani l'una dentro l'altra, timidamente. Ricordavo che ci trovavamo nella stradina di pietre sotto casa sua, nel punto in cui si diramava per portare al cimitero o alla vecchia scuola in disuso. Rammentavo il verde intenso del prato sopra il muro alle sue spalle.
Negli anni si erano aggiunti gli altri; i genitori avevano, chi comprato, chi affittato, le casette in pietra con i tetti rossi di Dalli Sotto.
Con i ragazzi del posto non legavamo molto, però ci tolleravano abbastanza nonostante le nostre incursioni nei loro campi coltivati a fragole e a lamponi. E poi avevamo iniziato ad esplorare quello che c'era oltre il paese. Venendo da una città di mare, volevamo conoscere la natura, i boschi, la macchia di faggi, fin sulle vette senza alberi, i fiumi e i laghi.
Avevamo iniziato con piccoli percorsi segnati che partivano dal centro di un parco naturale, a pochi chilometri da Dalli. Mettevamo un po' di soldi a testa e compravamo da mangiare nel bar alimentari del paese.
Ci sembrava di partire per chissà quale avventura e, nonostante le spalle bruciate e i piedi pieni di vesciche, ci divertivamo sul serio.
E così era stato per anni.
Quattro anni prima, invece, lo spirito che ci aveva portato lungo i sentieri di quel trekking era un altro; era stato un modo per tornare indietro nel tempo, per tornare bambini, per scrollarsi di dosso le prime preoccupazioni del diventare grandi, le prime delusioni in amore. Sfortunatamente, però, le cose erano andate subito male. Eravamo cresciuti, ognuno aveva la sua vita, intrapreso la sua strada. Chi si era appena diplomato, chi era in cerca di un lavoro, chi studiava all'università. Le nostre personalità si stavano formando e più stavamo insieme e più ci rendevamo conto che non avevamo niente in comune.
Ci eravamo gasati a vicenda, cercando quello che oramai non c'era più: il desiderio di un'altra avventura tutti insieme, la sintonia costruita grazie ad anni di conoscenza.
Mario e Claudio avevano litigato la sera precedente per via di uno zaino prestato e mai restituito, poi c'era stata la proposta di Federica di portare con sé un'amica che nessuno voleva conoscere, o almeno non in quell'occasione. Quella gita per noi era sacra e la presenza di un'estranea ci disturbava.
Eravamo partiti dallo stesso spiazzo lasciando le tende in auto, più per dimenticanza che per scelta. Regnava il malumore, che si era appiccicato alla pelle di ognuno di noi per via osmotica, però, arrivati in quella radura tutto era mutato. Forse era stato per via del sole che filtrava tra i rami creando macchie di luce sul terreno, o forse per il tintinnio delle foglie rotonde mosse dal vento. In quei momenti ritrovammo un po' di quella magia, ritrovammo l'amicizia che ci faceva incontrare da anni, che ci impediva di sbranarci a vicenda nonostante le idee politiche e morali diverse.
In quei quattro anni mi erano mancati. Mi era mancata l'idea di loro. Mi era mancata la consapevolezza del loro affetto.
- Tutto bene? - Mi chiese di nuovo Claudio. - Te la senti di continuare? - .
Annuii e per un attimo fui contenta di non essere tornata indietro. Giorgia sgonfiò il pallone e me lo diede.
- Dovresti tenerlo tu - .
Avrei voluto dirle grazie ma non ci riuscii. Mi si era formato un groppo di pianto in gola e se avessi parlato, in quel momento, sarei di certo scoppiata in singhiozzi.
Risalimmo sul crinale e riprendemmo la marcia, su e giù dalle vette.
Quando decidemmo di scendere verso gli alberi in basso, il sole era una rossa palla infuocata all'orizzonte.
Trovammo quasi subito il posto adatto per accamparci. Era un po' in discesa ma il terreno era ricoperto di borraccina, e anche se portava un po' di umidità, avremmo avuto un letto morbido.
Tutto intorno gli alberi intrecciavano i loro rami quasi a formare un cerchio attorno a noi. Mangiammo subito perché sapevamo che presto sarebbe diventato buio. L'idea era di accendere un fuoco ma non c'era legna secca da poter usare. Se fosse successo anni prima ci sarebbero stati i soliti battibecchi, quella sera no, nessuno aveva voglia di litigare.
Quando le stelle iniziarono a luccicare nel cielo eravamo già avvolti nel calduccio dei sacchi a pelo. Era una notte senza luna e il buio sembrava colasse dal cielo fino a terra.
- Non ha molto senso tutto questo - .
La voce di Mario risuonò densa e opaca. Nessuno commentò.
- Vi fa sentire meglio essere qui? Io non sento niente - aggiunse amareggiato.
- Allora perché sei venuto? - Gli chiese Leo in tono duro.
- Perché ci venivate voi - rispose Mario, come se fosse una cosa ovvia
- E tu Alessandra, perché sei venuta? - .
Le parole di Leo mi fecero sussultare e fui grata che i sacchi a pelo fossero ben distanziati e, soprattutto, che fosse notte.
Tremavo all'idea di quella domanda perché sapevo di non avere una risposta. Non avevo la più pallida idea del perché mi fossi lasciata convincere ad andare con loro. Negli ultimi anni avevo tentato con tutte le mie forze di dimenticare, di far sprofondare in un pozzo nero ogni ricordo di quella gita e invece ero lì, a far rivivere ogni emozione.
Allucinazioni causate dallo shock, questa era stata la mia diagnosi e ogni giorno da allora cercavo di convincermene. Era stato solo il frutto del mio subconscio, eravamo sole, Luisa ed io, e non ero stata capace di salvarla.
- Le volevo bene - risposi, cercando di mantenere la voce ferma.
Leo brontolò qualcosa di incomprensibile. Non me ne curai e ricominciai a fissare il cielo punteggiato di stelle, riconobbi il piccolo e il grande carro, la stella polare e la via lattea.
Inaspettatamente mi addormentai quasi subito.
La mattina successiva riprendemmo il cammino poco dopo l'alba. L'aria era cambiata. Nuvoloni lunghi e grigi si stendevano all'orizzonte. Ogni volta che alzavo lo sguardo erano più vicini.
Quando Mario ci fermò, eravamo scesi e camminavano nel bosco.
- Non trovo il posto giusto - disse voltandosi.
- Quale posto? - Gli domandai guardandomi intorno.
Continuò a scrutare davanti a sé, pensieroso.
- Dove Giorgia è stata morsa dalla vipera - .
Tornammo un po' indietro ma in effetti il paesaggio sembrava diverso. Forse gli alberi erano cresciuti, sembrava un altro luogo, così finimmo con l'affidarci alla nostra inseparabile cartina.
- Forse siamo scesi troppo presto - azzardò Federica.
- Non credo - la contraddisse Mario agitandosi. - Mi ricordavo bene da dove scendere - .
Tornammo indietro e dopo un'interminabile salita mi azzardai a chiedere:
- Ma siete sicuri che sia da questa parte? - .
Si fermarono.
Eravamo circondati da alberi che si stendevano da ogni lato, ma verso l'alto sembravano meno fitti.
- Ci siamo persi - affermò Claudio scuotendo la testa.
Non era possibile perdersi lì. Conoscevamo troppo bene quei monti.
- Cosa facciamo? - Domandò Giorgia.
- Continuiamo - le rispose Leo.
Con gli zaini in spalla, riprendemmo la faticosa salita. Non poteva essere così lunga, eravamo scesi per meno di un'ora dal crinale, ed erano ore che salivamo.
Una strana agitazione ci pervase. Il rombo di un tuono in lontananza mi prese alla sprovvista facendomi scoppiare il cuore in petto. Giorgia si strinse a Leo e Federica soffocò un urlo.
Ci guardammo atterriti, il sole non faceva più capolino tra le fronde degli alberi e l'aria era mutata, c'era odore di pioggia.
- Muoviamoci - ci incitò Claudio, - dobbiamo uscire al più presto dal bosco - .
La salita si fece più ripida. Inciampavamo nelle radici superficiali, scivolavamo sul fondo secco facendo schizzare il pietrisco con il rischio che finisse addosso a chi era indietro.
Sfiniti, decidemmo di fermarci per riprendere fiato e fare il punto della situazione.
Eravamo in un bosco che non riconoscevamo e, senza poter vedere il sole, non eravamo neppure in grado di capire in quale direzione stessimo andando. Avevo una brutta sensazione che mi faceva sudare più del lecito e il ricordo di quello che era accaduto a Luisa era più nitido che mai nella mia mente. Sentivo che stava capitando ancora, che qualcosa di terribile e di incomprensibile era appostato dietro ad uno delle centinaia di alberi che ci circondavano.
Elena Magnani
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