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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Sabrina Spaziani
Titolo: Entanglement
Genere Fantasy
Lettori 3820 39 62
Entanglement
Mi svegliai di soprassalto. Ero del tutto agitata per quello che mi sarebbe aspettato nella serata, ma cercai di calmarmi. Scesi giù in cucina e trovai un bigliettino attaccato ad una calamita sul frigorifero.

- Tesoro, sono in negozio. In bocca al lupo per stasera... Ti voglio bene! -

Sorrisi. La mia mamma era unica. Anche se era a lavoro riusciva comunque ad essere presente. Presi un po' di caffè macchiato, una buona dose di caffeina era proprio quello di cui avevo bisogno per affrontare questo nuovo giorno. Dopo aver indossato una tuta, uscii a correre per scaricare un po' di tensione. Fare attività fisica a quell'ora era sempre un buon modo per tenersi in forma. Feci un breve giro nel parco poco distante da casa, lasciandomi avvolgere dall'immenso verde e dalla musica che inondava le mie orecchie, dandomi la giusta scarica di adrenalina. Corsi fino all'ultimo briciolo di ossigeno nei miei polmoni e dopo circa un'ora ero del tutto ansimante e grondante di sudore. Tolsi le cuffie e, quando guardai intorno a me, mi accorsi che ero davanti al cimitero dove era sepolto mio padre. Non mi ero nemmeno resa conto di esserci arrivata e nonostante odiavo mettere piede lì dentro, in quel momento era l'unico posto dove volevo stare.
Entrai, oltrepassando un grosso cancello di ferro, piuttosto rovinato. Percorsi un viale con ad entrambi i lati dei cipressi altissimi che avevo visto un paio di volte dopo la morte di mio padre. Era piuttosto silenzioso e il sole scarseggiava. Attraversando svariate lapidi, alcune piene di fiori, altre invece piuttosto malandate, dando un senso di abbandono da parte dei propri cari, finalmente arrivai davanti a quella di mio padre. I fiori ancora freschi, probabilmente erano quelli che neanche una settimana prima, gli aveva portato mia madre. Da quando era morto, lei non aveva mai smesso di andare al cimitero, ogni settimana era lì, nonostante fossero passati gli anni. Io? Io invece ci andavo molto poco, ma non perché non ne avessi voglia, semplicemente perché vedere la sua foto e non poterlo abbracciare mi distruggeva, perché vedere il suo volto su quella lapide mi sottolineava ogni volta che mio padre non c'era più. Mi gettai con le ginocchia a terra e mi accovacciai esausta su quella lastra di marmo fredda. Le lacrime iniziarono a solcare il mio viso, senza riuscire a fermarle. Non sapevo del perché fossi andata lì, ma ne avevo bisogno. Con il passare del tempo ero riuscita ad alleviare il dolore, ma non potevo dimenticare che lui non c'era più. Avrei dato la mia stessa vita per poterlo rivedere anche solo un istante, per poterlo riabbracciare o sentire la sua voce, ma sapevo che non avrei potuto fare altro che aggrapparmi ai ricordi che, anche se facevano male, anche se ogni volta mi provocavano una voragine nel petto, era l'unica cosa che mi restava di lui.
“Mi manchi così tanto, papà. La tua assenza si sente come fosse il primo giorno, anzi di più. Ho paura. A volte ho paura di non farcela e nonostante io prometta a me stessa di cercare di stare meglio, di essere forte per me e per la mamma, sto male, sto troppo male. Avrei tanto bisogno di te.” Dissi immaginandomi che lui fosse lì davanti a me e che mi sorridesse. Asciugai le lacrime, diedi un bacio sulla foto di mio padre e tornai a casa.
Non so esattamente il perché ero andata lì, ma mi sentivo bene, libera.
Feci una doccia veloce così come il mio pranzo e cercai di rilassarmi un po'. Non volevo di certo arrivare sfinita ancora prima di iniziare a lavorare.
Quando arrivai al ristorante, notai che c'era molta più confusione di ieri, con camerieri indaffarati a sistemare i tavoli. Dalla porta della cucina vidi uscire la signora Sharon. Sempre nella sua impeccabile bellezza, questa volta indossava un paio di pantaloni neri aderenti, con una camicia blu fiordaliso.
Sharon mi fece fare un breve giro turistico, se così si poteva chiamare, facendomi vedere i svariati angoli di quel posto.
“Questa è la cucina.” Indicò la stanza piena di ripiani in acciaio, che brillavano da sembrare immacolati, dove tre cuochi erano piuttosto indaffarati davanti ai fornelli.
“Ragazzi, questa è Eva, lui è Alex, Daniel e Alicia.” Proseguì indicandoli.
“Salve, piacere.” Risposero e, se il mio cervello non ricordava male, Alex mi sfoderò un caloroso sorriso.
“Piacere mio!” Risposi cercando di esprimere sicurezza.
“Per quel che ti riguarda, qui dovrai solo prendere i piatti e servirli. Qui invece...” Disse aprendo una vetrata scorrevole, “È dove ogni tanto potrai riposarti.” Continuò mostrandomi un terrazzo, circondato da una balaustra di marmo bianco, con vasi di fiori in ogni angolo. Non credevo ai miei occhi, era bellissimo. Aveva una vista mozzafiato, dove da lì si vedeva gran parte della città. Il tutto era coperto da un gazebo in ferro battuto, con delle tende color crema, sotto il quale c'erano alcuni tavolini e sedie di vimini color nero. La terrazza non era eccessivamente grande, ma restava comunque favolosa.
“Vieni, ti faccio vedere il resto della sala.”
Quest'ultima, che avevo già visto, godeva di un terrazzo con una ringhiera. Al lato di questa una scalinata sicuramente portava di sotto al giardino e alla piscina. Il secondo piano della villa invece, era interamente dedicato a delle stanze d'albergo, che io per fortuna, non dovevo gestire. Il mio lavoro era dedicato solo alla sala ristorazione.
“Dunque, questo è quanto c'era da vedere. Questa sera avremo un compleanno di circa venti persone, ma dovresti riuscire a cavartela. Ci saranno altri colleghi, a cui potrai chiedere aiuto in caso ti trovassi in difficoltà.”
Cosa? Un compleanno? Maledizione! Proprio il primo giorno. Solita sfiga! Prevedevo già una serie di figuracce.
“Sta' tranquilla, all'inizio è difficile per tutti, ma sono sicura che andrà bene.” Notando il mio panico, fece uno dei suoi sfavillanti sorrisi, cercando di rassicurarmi, ma non fece che peggiorare le cose. Sì voltò verso un tavolo, chiamando gentilmente una cameriera che venne subito verso di lei. Si allontanò da me per parlarle mentre quest'ultima mi squadrava curiosa mentre annuiva.
“Forza, Eva, non fare la codarda. Di certo non sarai la prima né l'ultima a dover affrontare il primo giorno di lavoro.” Cercai di distrarmi, guardandomi intorno ma a mio dispetto notai che l'atmosfera era agitata quanto me. C'erano già molti camerieri con tanto di divisa nera e un grembiule rosso molto indaffarati, ognuno a svolgere il compito a loro assegnato. Ero rimasta lì ad osservare tutto quel viavai, quando sentii una voce alle mie spalle, facendomi voltare di scatto.
“Ciao. Sei la nuova arrivata?” Con un tono un po' seccato, la ragazza con cui poco prima parlava Sharon, mi guardò con aria torva. I suoi capelli di un rosso tinto, raccolti in uno chignon e i suoi occhi neri come la pece, la rendevano piuttosto tediosa.
“Sì, mi chiamo Eva.” Sorrisi, cercando di essere carina. Lei ricambiò con un sorriso forzato, che non si preoccupò di mascherare.
“Piacere. Dunque, questa è la tua divisa. Puoi cambiarti nello spogliatoio che si trova ad un angolo in cucina. La signora Sharon mi ha detto di dirti che, per questa sera, tu ti occuperai di quei cinque tavoli li giù all'angolo, dovresti riuscire a gestirli senza difficoltà. Lei tornerà più tardi.” Mi liquidò con freddezza. Parlava quasi in modo meccanico, da irritarmi. Bene, cominciavamo molto bene, non si era degnata neanche di dirmi il suo nome. Mi recai negli spogliatoi ad un lato della cucina per cambiarmi, sperando di riuscire a sopravvivere a questa serata.
“Pronta?” Mi chiese Alex cordialmente, avvicinandosi a me. Da sotto il suo cappello bianco potevo intravedere un ciuffo di capelli biondi, seguito da due occhi azzurri e una buona simpatia, o per lo meno era quello che mi trasmetteva.
“Abbastanza, grazie.” Abbozzai un sorriso.
“Sei sveglia, te la caverai.” Mi fece l'occhiolino prima di tornare di nuovo davanti ai fornelli.
Entrai nello spogliatoio altrettanto grazioso, misi la mia borsa in uno scaffale e mi affrettai ad indossare la mia divisa. Gonna e gilet nero e una camicia bianca, che mi stava leggermente larga. Mi fui grata per aver indossato un paio di ballerine e non delle scarpe sportive. Raccolsi i capelli in uno chignon, come avevo visto nelle altre cameriere e uscii fuori, dirigendomi verso i tavoli assegnati.
“Tu sei Eva, giusto? Io sono Angel, molto piacere. Servo i tavoli vicino ai tuoi, quindi, se hai bisogno di qualcosa, devi solo chiedere.” Mi voltai e di fronte a me una ragazza dall'aspetto esile mi sorrideva con due occhi verde chiaro. Aveva i capelli, anch'essi raccolti, di un biondo dorato.
“Pensavo non ci fossero cameriere gentili qui.” Mi lasciai sfuggire un commento amaro, seguito da una smorfia, mettendomi sulla difensiva.
“Ti sei imbattuta con Margaret, vero? All'inizio è un po' fredda, ma non è cattiva.” La sua risata era così innocente da farmi quasi tranquillizzare.
“Sì, giusto, scusa. Nessun giudizio! Spero solo di non essere più imbranata del solito.”
“Tranquilla, una volta capito il meccanismo, sarà una passeggiata. Sharon e suo marito Ryan, sono persone molto tranquille e disponibili, anche se lui è quasi sempre fuori per affari. Del ristorante infatti se ne occupano maggiormente la signora Sharon e suo figlio, Julian. Non è ancora arrivato, ma credimi, quando entrerà lo noterai di sicuro. Qui ne sono tutte innamorate, ma nessuna sembra attirare la sua attenzione veramente.” Disse mettendo il broncio.
Sorrisi e con il suo aiuto, riuscii a sistemare i miei tavoli. Sembrava una persona squisita, mentre Margaret di tanto in tanto mi osservava mandandomi occhiatacce a cui cercavo di restare calma.
Una leggera musica di sottofondo rilasciava un'atmosfera rilassante, invadendo l'intera sala. Erano all'incirca le otto e quest'ultima iniziò ad accogliere i primi clienti. Una coppia di signori anziani sedettero proprio ai miei tavoli. Presi un bel respiro e mi preparai ad accoglierli.
“Buonasera, ecco a voi il menù. I signori gradirebbero la lista dei vini?” Chiesi educatamente, seguendo i consigli che Angel mi aveva suggerito poco prima.
“No, la ringrazio, per ora solo dell'acqua frizzante.” Rispose cordialmente il signore.
Adagiai con cura la bottiglia dell'acqua e, dopo che ebbero deciso cosa mangiare, annotai la mia prima ordinazione. Iniziai, sotto gli occhi vigilanti di Sharon, a portare i primi piatti, facendo attenzione a non rovesciare nulla. Ero talmente indaffarata nel fare avanti e indietro, che ero riuscita perfino a tranquillizzarmi, perdendo così la cognizione del tempo. Avevo servito i miei cinque tavoli alla perfezione e stranamente senza combinare nessun disastro. Dovevano essere circa le dieci, quando venni distratta da un forte chiasso proveniente dalla porta principale, facendomi voltare verso quella direzione. Per poco non rischiai di rovesciare il piatto su uno dei clienti, rovinando la mia perfetta performance da brava cameriera. Vicino la reception tre ragazzi si imbattevano in una conversazione piuttosto scherzosa e movimentata. Uno in particolare attirò la mia attenzione. Indossava un tre pezzi nero, che ricadeva perfettamente sul suo corpo sexy e straordinariamente palestrato. Non potei fare a meno di rimanere a fissarlo. Il suono della sua risata era così inebriante quanto il suo sorriso. Mi sentii totalmente disarmata, come se fossi rimasta nuda dentro quella gigantesca sala, quando il suo sguardo mi agghiacciò, intimorendomi, facendomi diventare di ogni possibile sfumatura di rosso. Fu un attimo, ma mi permise di vedere il suo volto. I suoi occhi magnetici color ghiaccio e i suoi capelli leggermente lunghi e spettinati nero corvino, ricadevano perfettamente sul suo magnifico volto. Il suo naso sottile e le sue labbra ben sagomate rendevano il suo sorriso mozzafiato. Il mio cuore comincio a battere in modo irregolare, rendendo il mio respiro affannato. Aveva un'aria del tutto misteriosa e molto sicuro di sé.
“Ehilà? Sei connessa?” La voce di Angel, mi risvegliò dal mio stato di coma, riportandomi alla realtà, o era forse un sogno quello che avevo davanti?
“C-Come scusa?” Balbettai, cercando di ricompormi.
“Lo avevo detto che avresti notato il nostro playboy.” Disse, sorridendo soddisfatta.
La guardai con occhi confusi, non capendo a cosa si riferisse.
“Dico playboy perché non c'è una sola ragazza che non sia caduta sotto l'effetto del suo fascino, a parte me e Margaret. Spero che tu non sia la prossima.”
“Oh, no, tranquilla... Non ci tengo a diventare un altro suo trofeo.” Dissi arrossendo, sentendomi beccata con le mani nella marmellata.
“In ogni caso, vai a fare una pausa. Da quando hai iniziato non ti sei fermata un attimo. Vai dentro e mangia qualcosa, sono quasi andati via tutti, posso gestirmela da sola.”
“Tranquilla, non serve, posso mangiare più tardi.” Provai a contestare, ma il suo sguardo mi fece capire che non avrebbe accettato repliche. Il tempo era passato così velocemente e con lui anche la fame, ma decisi comunque di mangiare qualcosa. La sala stava iniziando a svuotarsi e prima di entrare in cucina, non potei fare a meno di lanciare un'altra rapida occhiata alla reception.
“Mi chiedevo quando saresti rientrata a mangiare qualcosa.” Mi rimproverò Alex.
“Ero talmente indaffarata, che il tempo è volato.” Risposi in mia difesa.
“Lascia fare a me, ti farò assaggiare una pasta che ho cucinato. Vedrai, ti stupirà.” Disse ammiccando. Afferrai il piatto e uscii fuori sulla terrazza, mi misi a sedere su una sedia e iniziai a mangiare. Non avevo la minima idea di cosa ci fosse in quella pasta, ma dovevo ammettere che era squisita, anche se Alex aveva fatto una porzione che come minimo ci avrei mangiato tre giorni. Addentai qualche altra forchettata prima di sentirmi sazia. Rimasi altri cinque minuti lì fuori ad assaporare quel magnifico posto e quella tranquillità così perfetta. Mi avvicinai verso la balaustra di marmo e ammirai tutta la bellezza che poteva offrire quel panorama.
“Eva, tutto bene?” Sobbalzai voltandomi di scatto e trovai la signora Sharon.
“Sì, tutto bene. Ero uscita a prendere una boccata d'aria, torno subito dentro.” Dissi presa alla sprovvista.
“Tranquilla, per oggi hai fatto abbastanza. Resta un altro po' qui se vuoi, poi torna a casa e riposati. Ti ho osservato molto durante la serata e mi sei piaciuta. Te la senti di fare il turno domani mattina?”
“Certo, va bene.” Risposi cercando di contenere l'euforia.
“Perfetto. A domani, allora.”
Rientrai dentro e mi congratulai con Alex per la sua pasta, facendomi coinvolgere dalla sua immisurabile simpatia. Quel ragazzo era davvero una persona buona. Lo si leggeva dai suoi meravigliosi occhi innocenti. Mi cambiai, recuperai la borsa e uscii dalla cucina. Prima di andare via mi avvicinai (senza dare troppo nell'occhio) ad Angel, che stava finendo di sparecchiare gli ultimi tavoli, e la ringraziai per il suo miracoloso aiuto. Mi voltai per raggiungere l'uscita, ma mi bloccai di botto. Il mio cuore iniziò a battere all'impazzata tanto che temevo mi uscisse fuori dal petto, quando notai che la signora Sharon stava chiacchierando calorosamente con quello che doveva essere suo figlio Julian. Feci un respiro profondo e mi diressi verso di loro con gambe tremanti. Poco prima di raggiungere l'uscita salutai la Signora Sharon. Entrambi si voltarono e, dopo che lei ricambiò il mio saluto, venni di nuovo penetrata da quei due pozzi di ghiaccio, che squadrandomi da capo a piedi, mi provocò brividi su tutto il corpo. Mi fece un sorriso beffardo, inarcando un sopracciglio. Riuscii a stento a tenere il suo sguardo, prima di abbassarlo velocemente e andare via.
Una volta fuori, feci un sospiro di sollievo, cercando di far riprendere i battiti del mio cuore accelerato. Cercai di scacciare via dalla mia mente i suoi occhi, ammirando la meravigliosa villa. Questo posto era bello di giorno, quanto di notte. Il viale completamente illuminato proiettava una luce meravigliosa, rilasciando un'atmosfera incantevole. Entrai in macchina, odiandomi per l'essere stata così goffa. Speravo almeno che lui non se ne fosse accorto troppo e poi perché diavolo doveva interessarmi? Sbuffai, ammettendo mentalmente che Angel aveva ragione sulla sua bellezza. Mancava poco a mezzanotte quando rientrai in casa. Trovai la mamma distesa sul divano del salone che, mentre guardava un film, mi invitò a sedermi con lei per raccontarle come era andata. Le raccontai brevemente della serata e le accennai anche del figlio di Sharon, dando i minimi dettagli. Cercando inutilmente di trattenersi, mia madre iniziò a farmi domande a raffica, ma la liquidai poco dopo, confessandole che ero stanca, il che era vero.
Salii in camera praticamente strisciando. Ero veramente stanchissima. Tutta l'ansia miscelata all'adrenalina ora stava sciamando, lasciando spazio alla stanchezza. Mi infilai velocemente sotto la doccia, poi indossai una delle magliette di papà e mi intrufolai sotto le coperte, lasciandomi coccolare dal mio letto. Avrei mandato un messaggio a Sophie domani per aggiornarla, ora ero troppo stanca. Mi rannicchiai in posizione fetale, e pochi minuti dopo il sonno ebbe la meglio trascinandomi in un sonno profondo.



Mi svegliai quasi urlando, fradicia di sudore e tremante. Avevo di sicuro fatto un incubo, ma non riuscivo a ricordarne nulla. Rannicchiata sul letto, cercai di riprendermi anche se mi sentivo piuttosto stanca e debole. Vestendomi pigramente, provai con il trucco a coprire le occhiaie e rendere il mio volto stanco, in qualcosa di dignitoso. Quando scesi di sotto, mia madre, poggiata davanti al lavandino, finiva la sua colazione. Quella mattina, insistette per accompagnarmi lei e, sentendomi stanca, non protestai. Sperando di acquistare un po' di forze, feci una buona scorta di caffeina, prima di immetterci nel traffico di Beverly Hills. Quella mattina c'era una pioggia fitta, e, ferme davanti al semaforo rosso, mia madre era piuttosto taciturna, il che la diceva lunga, come la diceva lunga il fatto che avesse insistito così tanto ad accompagnarmi. Sentii vibrare il telefono dentro la borsa, che mi affrettai a trovare.
“Ciao Sophie, scusami, avrei voluto chiamarti ieri sera, ma ero esausta.” Mi affrettai a dire.
“Tranquilla, anche per me ieri è stata una giornata movimentata. Ascolta, che ne dici di una giornata in palestra? Ho bisogno di scaricare un po' la tensione.” Mi sentivo già abbastanza giù di corda, ma visto che volevo vederla, decisi di non rifiutare. Magari scaricare un po' di tensione mi avrebbe fatto sentire meglio.
“La mamma mi sta accompagnando a lavoro. Possiamo fare più tardi, ma dovrò passare a cambiarmi a casa.”
“Perfetto, passo a prenderti io. Tu fammi sapere a che ora finisci il turno.” Disse riagganciando. Mi voltai verso mia madre, che guardando dritto davanti a sé, aveva l'aria piuttosto pensierosa e prima di arrivare a lavoro, dovevo assolutamente capire cosa la tormentasse.
“Finito di lavorare, io e Sophie andiamo in palestra. Mamma, mi dici cos'hai?” Le chiesi dolcemente.
“Niente, tesoro.” La sua voce mentiva palesemente.
“Mamma? Non ci provare, ti conosco. Sputa il rospo!” Fece un sospiro, poi si decise a parlare.
“Sono un po' preoccupata per tua nonna. L'ho chiamata ieri e mi ha detto che non si è sentita bene.”
“Cosa le è successo?” Le chiesi, indicandole con la mano di svoltare a destra.
“Ieri ha avuto una crisi asmatica ma, secondo me, è dovuto al suo cuore. Voglio raggiungerla questo fine settimana, ma, come al suo solito, ha detto che non c'è n'è bisogno.”
Mentre varcava il grande cancello del ristorante, si guardò intorno con stupore. Evidentemente quel posto faceva lo stesso effetto a tutti. Scesi dall'auto e, prima di chiudere lo sportello, mi voltai e le diedi un grosso bacio.
“Forse per una volta non dovresti ascoltare la nonna.” E con quelle parole mi preparai ad affrontare la giornata.
Nonostante la stanchezza, il pensiero di Julian mi rendeva irrequieta. A dirla tutta, il filo di speranza tra rivedere di nuovo il suo sguardo e la paura di sostenerlo era molto sottile. Quando entrai, la sala era estremamente silenziosa, se non per Margaret, che sistemava i tavoli. Non si degnò neanche di salutarmi, ma non me ne curai, anche se non riuscivo a capire perché fosse così scontrosa con me. Sharon aveva appena finito di parlare con un signore ben vestito, dai capelli brizzolati, che mi passò di fianco sorridendomi, prima di uscire.
“Buongiorno, Signora Sharon.” Portava un tubino color prugna, dei tacchi vertiginosi argentati e un rossetto rosa chiaro, che sottolineava le sue meravigliose labbra. Mi chiedevo come facesse ad essere sempre così perfetta.
“Buongiorno, Eva. Ti senti bene? Sembri un po' pallida.” Disse scrutandomi con attenzione.
Maledizione! Dovevo proprio avere un aspetto schifoso.
“No. Voglio dire, sì. È solo un leggero mal di testa.” Cercai di camuffare un lieve sorriso.
“Sicura? Se non ti senti bene puoi tornare tranquillamente a casa.” Il suo viso sembrava preoccupato e il suono della sua voce era così gentile e premuroso.
“Sto bene, grazie! Vado a cambiarmi.” La liquidai gentilmente. Era molto gentile da parte sua preoccuparsi per me, ma era solo il mio secondo giorno di lavoro e volevo farmi vedere attiva. La giornata passò abbastanza velocemente e, nonostante la stanchezza, ero riuscita a cavarmela, senza contare che non si era vista ombra di Julian, il che fu un sollievo. Se non fosse stato per quell'orribile mal di testa, che nell'arco della giornata era aumentato, mi sentivo piuttosto bene. Avevo appena finito il mio turno, quando uscii dallo spogliatoio e mandai un messaggio a Sophie per avvisarla che avevo finito e, visto che avrei dovuto aspettare un po' prima che arrivasse, ne approfittai per sgattaiolare fuori sulla terrazza. Stavo camminando per raggiungere la balaustra di marmo, quando di colpo venni invasa da una sensazione di vertigini, mentre la mia vista si annebbiò. Il pavimento scomparì sotto i miei piedi e sentii che le forze mi stavano abbandonando. Il mio cuore iniziò a battere in un modo indecifrabile, lasciando spazio al panico, tanto da togliermi il fiato. Chiusi gli occhi e, quando pensai di cadere a terra, sentii due braccia possenti sorreggermi.
“Ehi, ehi. Tutto bene, ragazzina?” Nonostante l'assordante fischio dentro le mie orecchie, riuscii a sentire una voce possente e vellutata provenire dalle mie spalle. Mi voltai nel tentativo di capirci qualcosa e, quando la mia vista riaffiorò, per poco non mi venne un infarto. A meno di un centimetro del mio viso due occhi ghiaccio mi fissavano intensamente, scrutandomi con attenzione. Venni invasa da un profumo sublime. Non seppi descrivere di cosa si trattasse, sapevo solo che stuzzicava ogni mio fottuto senso, provocandomi brividi in ogni centimetro del mio corpo, rendendomi più stordita di quanto non lo fossi già.
“Io... Ehm... Sì, sto bene, grazie.” Cercando di innaspare aria per permettere al mio cuore di ritrovare un ritmo regolare, provai a divincolarmi dalla sua presa con scarso equilibrio. Lui non mi mollò, al contrario aumentò la sua presa, fissandomi con profondità. Scansò una sedia, facendomi sedere.
“Alex! Per favore, portami un bicchiere d'acqua e zucchero qui fuori.” Urlò continuando a tenere i suoi occhi inchiodati ai miei. Dio... Era così bello. Il suo petto, sotto la camicia blu, si muoveva ad un ritmo spettacolare. Stavo sbavando, e la sua presenza non aiutava a farmi riprendere. La sua voce sensuale, profonda, si insinuava nelle mie orecchie come una perfetta melodia.
“No! Non ce n'è bisogno. Io... Sto bene.” La mia voce mi tradì e sul suo viso apparve un sorrisetto.
“Non sembrerebbe. Dovresti mangiare qualcosa.” Mi guardò inarcando un sopracciglio. Probabilmente dovevo essere pallida come un bicchiere di latte.
“Ehi, Eva, tutto bene?” Alex mi guardava preoccupato, mentre mi porgeva il bicchiere.
“Sta bene, grazie. Puoi tornare dentro.” Lo liquidò risoluto, afferrando il bicchiere con un gesto deciso.
“Grazie.” Sussurrai debolmente, rivolgendogli un sorriso, che Alex ricambiò prima di tornare dentro.
“Bevi.” Ma chi diavolo pensava di essere? Stavo parlando con lui da meno di cinque minuti e già mi dava sui nervi.
“Penso ancora di saper badare a me stessa, grazie.” Leggermente seccata, afferrai con mani tremanti il bicchiere, facendo attenzione a non toccare le sue.
“Sarà... Ma se non fosse stato per me, saresti caduta a terra. Non voglio che una delle mie cameriere stia male.” Sue cameriere? Il suo tono strafottente sembrava piuttosto divertito. Si mise le mani in tasca mentre mi guardava con così tanta intensità da farmi sentire in imbarazzo, più di quanto non me lo facesse sentire il suo corpo. Da vicino era ancora più bello di quando lo avevo visto la sera prima.
“Ti ringrazio, ma come ho già detto, so badare a me stessa.” Ricalcai la mia teoria. Era difficile tenergli testa, ma non mi feci intimorire, o per lo meno ci provai con tutta me stessa. Bevvi tutto d'un sorso il contenuto del bicchiere che fu un'immediata gratificazione.
“Come vuoi. Sono Julian Andrei.” Porgendomi la sua mano, non potei fare a meno di stringerla. Una scarica elettrica mi percorse tutto il corpo. La sua presa era così salda e fredda che lo odiavo per come riusciva a farmi sentire una perfetta idiota.
“Eva Anderson.” Farfugliai.
Notai una luce di divertimento e provocazione da renderlo insopportabile.
“Il fatto che tu sia il figlio della signora Sharon non mi impedirà di dirti ciò che penso e i tipi come te non mi incantano.” Le parole mi uscirono dalla bocca ancora prima che il mio cervello le formulasse.
Brava idiota! Continua così, sei sulla strada giusta per il licenziamento! Mi rimproverò la mia vocina interiore. Lui sembrò per un momento stupito quanto me, poi si ricompose.
“Ah, sì?” Fece un sorrisetto, passandosi la lingua sul labbro inferiore. Mise entrambe le mani sui braccioli della mia sedia, intrappolandomi, avvicinando così tanto il suo viso al mio volto, da sentirne il suo respiro.
Deglutii.
La suoneria del mio telefono mi fece sobbalzare: era Sophie. Grata per essere riuscita a scampare da un momento così imbarazzante, mi affrettai a rispondere, mentre lui continuava a guardarmi divertito senza spostarsi di un millimetro.
“Pro-Pronto, Sophie?” Mi presi mentalmente a sberle per aver balbettato come una stupida.
“Eva, sono qui fuori, sei pronta?”
“Sì, due minuti, arrivo.” Misi giù la chiamata e provai ad alzarmi, ma lui continuò a mantenere quella posizione in silenzio, perforandomi con il suo sguardo intenso. Volevo sprofondare.
“Dovresti respirare, ragazzina! Oppure rischierai di soffocare.” Disse sfottendomi. Poi si avvicinò al mio orecchio quasi da sfiorarlo con la bocca. Il mio cuore perse un battito mentre ero rimasta completamente paralizzata.
“Forse i tipi come me ti incantano molto più di quanto tu pensi.” Mi sussurrò maliziosamente, facendomi l'occhiolino e con un sorriso andò via, lasciandomi lì sconvolta e ansimante. E solo allora notai che stavo trattenendo il respiro.


“Cosa cavolo ti è successo? Sembri sconvolta.” Mi disse la mia amica una volta entrata in macchina.
“Lascia stare! Andiamo, ti racconterò strada facendo.”
Dopo essere passate a casa a prendere il mio cambio, le raccontai di come stava andando il lavoro e dell'episodio avuto con Julian poco prima.
“Secondo me gli piaci.” Affermò con decisione la mia amica divertita, dopo aver sentito la mia versione.
“Sì, questa è buona! Io invece credo che sia solo uno stronzo maniacale, a cui è meglio restare alla larga.” Chiusi il discorso. Come poteva la mia amica affermare una cosa del genere dopo soli dieci minuti che avevo parlato con lui? Probabilmente l'unico interesse era solo quello di infilarsi fra le mie gambe, ma non era quello che volevo io.
La palestra si trovava al ventesimo piano in un edificio di vetro dall'aspetto lussuoso. Arrivammo lì poco dopo le sei. Fuori iniziava a fare buio e la pioggia, nonostante il caldo, non voleva saperne di cessare. Il nome “Blood&Gold” scritto in caratteri cubitali, illuminava una parte del palazzo, rivelando la sua eleganza. Era una delle palestre più rinomate, in quanto frequentata anche da persone di una certa classe. Non che fosse nostra abitudine andarci ogni giorno, ma essendo ben dotata e non solo di attrezzature, era ottima per scaricare almeno una volta a settimana un po' di tensione. Uscite dallo spogliatoio, la sala offriva l'ascolto di canzoni piacevoli e io mi sentivo carica, nonostante il malore di prima. Sophie indossava un paio di leggins neri, e una canottiera giallo chiaro che, ricadendole perfettamente sulle sue curve, la rendeva quasi una creatura celeste. Non bisognava però farsi ingannare dalla sua aura angelica, dietro il suo dolce visino dai capelli biondi si nascondeva un vero e proprio diavoletto pericoloso, e la sottoscritta lo sapeva bene. Io invece indossavo un paio di leggins neri e un reggiseno sportivo rosa. Iniziammo entrambe con una passeggiata veloce sul tapis roulant, per poi avanzare con la corsa. Dopo mezz'ora abbondante, ero piuttosto accaldata e sudata. Sophie con le cuffie alle orecchie mi sorrise, prima di dedicarsi ai pesi. Io, invece, decisi di dedicarmi un po' alla sala boxe.
Qual era il modo migliore per scaricare la tensione (soprattutto quella di oggi), se non davanti ad un sacco di boxe?
Presi un paio di guantoni e puntai un sacco libero. Intorno a me c'erano altri ragazzi che si allenavano con i sacchi, altri saltellavano sulla corda e, sul ring, un ragazzo intento ad ascoltare i consigli dell'istruttore, gli sferrava una sequenza di colpi. Alcuni di loro mi lanciarono occhiate di stupore e notai che ero l'unica ragazza in quell'area, ma non me ne curai. Guardai il sacco e iniziai a colpirlo con forza, facendolo muovere abbastanza da caricarmi a sferzare altri colpi. Nella sala era appena partita la canzone (Ozzy Osbourne - Crazy Train), caricandomi con maggiore forza. Ero concentrata al massimo, quando un paio di guantoni blu comparvero da dietro il mio sacco.
“Che grinta! Sarei curioso di sapere a chi stai pensando per provocarti tanta aggressività. Chiunque sia, deve averti fatto incazzare parecchio.” Da dietro il sacco sbucò Julian. Sgranai gli occhi dalla sorpresa.
“Che diavolo ci fai tu qui?” Gli chiesi, fermandomi di botto e con me anche il mio cuore. Il suo sorriso mi fece venire le gambe molli mentre respiravo, cercando di riprendere fiato.
“Quello che fai tu, mi alleno.” Solo allora notai che indossava una canottiera e un paio di pantaloni grigio chiaro, che misero in evidenza il suo notevole corpo muscoloso, che, a differenza del mio, non era sudato.
“Però! Devo dire che l'uniforme sportiva ti sta molto meglio di quella da lavoro.” Nel suo sguardo vidi tutta la malizia possibile. Sferrai un pugno al sacco, che lui attutì senza difficoltà.
“Smettila! Mi segui, forse?” Affermai, mentre ricominciai a sferrare colpi.
“Non sono io ad essere venuto al ristorante.” Continuò a provocarmi, mentre teneva il sacco.
“Si dà il caso che io ci lavori. Hai intenzione di sfidarmi ancora a lungo?” Sferzai altri due colpi.
“Se vuoi, possiamo sfidarci sul ring.” Mi sfidò, indicandolo con un sorriso beffardo.
“Vaffanculo.” Sbottai in preda all'ira.
“Attenta... Non dire cose di cui potresti pentirti.” Adesso mi faceva paura. Il suo volto, di nuovo vicino al mio, mi guardava con aria seria, minacciosa. L'istinto mi diceva di indietreggiare, ma non volevo dargliela vinta.
“È una minaccia, forse? Pensi che abbia paura?” La mia voce mi tradì, ma mantenni ancora lo sguardo alto.
“Dovresti, non osare sfidarmi!” Non stava più giocando, lo sentivo dalla sua voce, che mi fece rabbrividire.
“Non mi hai assunta tu! Perciò, a meno che tua madre non mi licenzi, io non me ne vado.” La rabbia mi fece alzare la voce, facendo girare più di qualcuno e questo sembrò farlo infuriare di più.
“Lo vedremo.” Ringhiò, facendomi arretrare di qualche passo.
“Eva, cosa succede qui?” Sophie al mio fianco, ignara di quello che stava succedendo, fissava Julian a bocca aperta, in modo succube.
“Niente, andiamo via. Ne ho abbastanza!” Trascinandola per un braccio, lasciai Julian lì, dirigendomi negli spogliatoi furiosa.
“Mi spieghi che diavolo ti succede?” Mi chiese Sophie sconvolta, mentre premevo con insistenza il pulsante di chiamata dell'ascensore, come una forsennata tremante di rabbia.
“Quello era quello stronzo arrogante di Julian!” Sbottai in collera. Sputavo ira da ogni poro.
“Lo stronzo arrogante, eh? Però, niente male!” La mia amica mi stuzzicava divertita, rendendomi ancora più nervosa.
“Per favore, Sophie, non ho voglia di scherzare, è già stata una giornataccia.” Le risposi adirata.
In macchina, la mia amica cercò di distrarmi, ma quello che mi disse dopo fu ancora peggio.
“Ti ricordi l'email per Oxford? Forse potrebbe aprirsi uno spiraglio, e se mi accettano la mia vita potrebbe avere una svolta. La cosa brutta è che dovrei trasferirmi lì per un tempo indeterminato.”
“E me lo dici così?” Mi venne un malloppo in gola, seguito da un lungo silenzio. Se c'era una cosa a cui non avevo mai pensato era allontanarmi dalla mia amica, e ora che avevo davanti a me una possibilità del genere, la cosa mi terrorizzava.
“Eva? E dai, non è ancora nulla di sicuro. E poi potresti comunque venire a trovarmi. Non ti libererai di me così facilmente, lo sai!” Cercava di rincuorarmi, eppure si leggeva perfino nei suoi occhi che, nonostante fosse felice per la possibilità di diventare dottoressa, trasferirsi la distruggeva quanto me.
“Ho paura di perderti, Sophie” Confessai cupa.
“Non succederà. Te lo prometto.” Replicò con un dolce sorriso.

Entrai in casa, fiondando con non curanza il borsone della palestra per terra. Ero furiosa e triste allo stesso tempo. Sarebbe potuto andare peggio di così? Mentre cenai apaticamente con mia madre, provò a farmi qualche domanda, ma io le risposi a monosillabe. Non avevo alcuna voglia di raccontarle quello che era successo e per mia fortuna sembrò capirlo. Da quando avevamo lasciato la palestra, oltre la rabbia che provavo nei suoi confronti, ero tremendamente preoccupata che avrebbe detto a sua madre di mandarmi via. Finito di cenare, andai di sopra a cambiarmi, indossando una delle maglie di papà, un paio di calzini antiscivolo e sprofondai sul letto, cercando di farmi passare il mio cattivo umore.
Mi trovavo nel bel mezzo di una lettura, quando ad un tratto mi sentii chiamare da mia madre. Corsi verso le scale, e quando arrivai giù mi fermai di botto, sussultando. Duke non la smetteva di abbaiare, mentre mia madre, di fianco a quell'uomo che mai e poi mai avrei pensato di trovare nel mio salotto, mi guardava sorpresa. Al posto della sua uniforme sportiva, ora Julian indossava un paio di jeans neri e una maglia blu cobalto. I suoi muscoli sodi, lo rendevano appetitoso, e il suo profumo virile inondava l'intero salone frastornandomi la mente.
“Vado di sopra, qualsiasi cosa chiamami.” Disse mia madre sospettosa, risvegliandomi da quella specie di coma. Lo salutò con un freddo arrivederci e si diresse verso le scale, salendo insieme a Duke. Una volta soli, feci qualche passo incerto verso di lui, mentre mi fissava con una strana luce negli occhi. Solo allora mi maledissi per avere indosso soltanto quella maglietta, che arrivava poco più sopra del ginocchio, lasciando nude buona parte delle mie gambe. Arrossii di colpo e lui dovette accorgersene, in quanto piegò la testa di lato, inarcando un sopracciglio. Restai lì ferma, senza riuscire a dire una sola parola. Stavo ancora cercando di realizzare che era in casa mia mentre il mio cervello si stava chiedendo quale fosse il motivo della sua presenza qui. Tale situazione era valida in un contratto lavorativo? Probabilmente no.
“Sono venuto a riportarti questo. Lo hai perso mentre davi escandescenze in palestra.” Finalmente ruppe il silenzio e, con un sorriso beffardo, tirò fuori dalla sua tasca il mio orologio. Mi ero talmente infuriata da non essermi accorta che mi era caduto, probabilmente nella sala boxe. Ma la domanda principale era: come faceva a sapere dove vivessi?
“Come hai fatto a trovare il mio indirizzo?” Chiesi afferrando con mano tremante l'orologio.
“Non che mi sarebbe stato difficile, ma comunque è scritto sul tuo curriculum.”
Cosa? Il pensiero che avesse letto il mio curriculum mi fece sentire in imbarazzo.
“Be', grazie!” Risposi sulla difensiva.
“Piccola dose di esplosivo, non mi offri niente?” Chiese in modo spavaldo. No, aspetta, faceva sul serio?
Per un istante pensai di calciarlo fuori, ma poi mi limitai a mettere da parte l'astio e decisi di accontentarlo, visto che era stato stranamente gentile nel riportami l'orologio. Andai in cucina e lui si limitò a seguirmi divertito.
“Cosa vuoi da me, Julian? Insomma, l'orologio... Avresti potuto ridarmelo anche domani.”
“E perdermi la tua visione in tenuta da notte?” Arrossii di nuovo e, afferrando una capsula di caffè, mi limitai a non rispondergli.
“Quanto zucchero?” Chiesi, mentre mi fissava con interesse, prestando attenzione ad ogni mio minimo movimento.
“Dolce.” La sua voce così sensuale, mi annullava completamente la mente.
“Almeno il caffè.” Risposi con sarcasmo, senza riuscire a contenermi, sottolineando la sua arroganza.
“Spiritosa! Un punto a tuo favore, ragazzina.” Mi fece l'occhiolino. Questo continuo punzecchiarci sembrava piacergli. Strappai con forza l'involucro di alluminio, provocandomi un taglio sull'indice destro.
“Cazzo!” Sussultai dal dolore... “Oggi è proprio una giornataccia.” Mi infilai il dito in bocca per succhiare e bloccare il sangue, ma senza neanche avere il tempo di rendermene conto, venni scaraventata contro il frigorifero. Con il suo volto a pochi centimetri dalla mia guancia, sentii il suo respiro accelerare. Mi bloccava i polsi e il suo corpo premeva contro il mio tremante, provocandomi un tuffo nel cuore. D'istinto sussultai. L'eccitazione, mista alla paura, mi offuscò la mente, provocandomi un nodo alla gola.
“Ch-Che stai facendo? Mi fai male.” La mia voce ridotta in un sussurro, imprecò pietà. Si allontanò con la stessa velocità con cui mi era piombato addosso mentre mi fissava con terrore e altro, che non riuscii a definire. Lottai contro l'impulso di urlare, ma la mia vocina interiore mi ricordò che mia madre era al piano di sopra e pregai che non avesse sentito nessun rumore.
“Mi dispiace.” Notai il panico nella sua voce, mentre mi fissava con terrore, e per un secondo vidi calare la sua corazza, mostrandomi paura e dispiacere. Poi si riprese e andò via senza dire una parola, lasciandomi lì frastornata.
Mi accasciai per terra, tenendo lo sguardo fisso davanti a me, completamente sconvolta. Non so per quanto tempo rimasi lì, ma abbastanza perché la mia mente si sovraccaricasse di domande. Perché aveva avuto una tale reazione? E soprattutto, come aveva fatto ad arrivare così vicino a me in pochissimo tempo? Quando le mie gambe ripresero forza, barcollante, salii di sopra. Fui sollevata quando entrai nella stanza di mia madre e la vidi dormire. Andai nella mia e sprofondai nel letto, crollando in lacrime, fino a che il sonno, per mia fortuna, ebbe il sopravvento. Quella notte fu piuttosto movimentata: due occhi grigi mi fissavano con cattiveria, uno sguardo gelido mi terrorizzava.
Sabrina Spaziani
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